PELLEGRINAGGIO IN
VALDORCIA
Cominciamo con una sintetica, ma accurata, analisi della prestazione
del narratore: per tutta la gara la respirazione é stata ottima e
mai in affanno, dolori muscolari e da traumi posturali prolungati
praticamente assenti, nessuna particolare crisi né fisica né (se mi
conoscete un po’, superfluo specificarlo) psicologica; giunto al
traguardo in 19h e 31min: ergo, citando una come non mai in questo
caso azzeccatissima valutazione tecnica di Luciano Magi, sono andato
piano,ma parecchio piano. Del resto non posso dirmi sorpreso, visto
la cotta che un paio di settimane fa avevo preso giá al decimo Km
della mezza di Sigerico, tanto che all’arrivo, allora sí colto da
nera depressione prestazionale, avevo chiesto a Roberto Amaddii se
fosse ancora possibile spostare l’iscrizione sulla 50Km. Ovviamente
questo folle rinsavimento é durato lo spazio di poche ore; senza
scomodare la “volontá di potenza” del burbero montanaro dello scorso
anno (ricordate?), il percorso maieutico che, con logica per me
lineare ma forse sofistica per voi assennati lettori, mi ha fatto
persistere nella scelta originale é stato il seguente: se, vista la
condizione a dir poco precaria, dovró comunque camminare per 50 Km,
in un pellegrinaggio di 100Km mi divertiró almeno il doppio!
I sacri rituali del mattino della gara sono gli stessi dello scorso
anno: sveglia alle tre, barba e bidet, due etti di pasta per non
dire mai basta! Unica differenza la partenza in solitario (per il
lungo ponte mi trovo infatti al mare), ma appena giunto a Castiglion
d’Orcia sapreste indovinare le prime persone che incontro al ritiro
del pettorale? Fusi (come la macchina di Lorenzo che ha tirato le
cuoia a poche centinaia di metri dal paese) e Bianchi (come i
capelli di Simone per i conseguenti improperi uditi); comunque,
sciogliendo l’ardito chiasmo, bianchi e fusi lo saremo un po’ tutti,
di lí a qualche ora. Se l’anno scorso la faccia di Trottolino prima
della partenza era quella di milite fatto prigioniero durante la
campagna di Russia, quest’anno é come si fosse fatto pure una decina
d’anni nei gulag staliniani. Avendo anticipatamente pianificato di
fare buona parte di gara insieme a lui, giá mi convinco che sará una
giornata spassosa.
Alla partenza, pur trovandomi dietro le ultime file del gruppo,
cerco invano di scorgere l’impavido genitore, per una foto ricordo e
forse (spiace dirlo ma l’ho veramente pensato) un estremo saluto;
probabilmente meglio non averlo trovato: avesse colto i miei
pensieri sarei partito con una racchetta avvolta al collo!
Il mio orologio segna le 5:59 quando, entusiasta orda di pacifici
trailers, prendiamo il via calcando i lastricati del borgo ancora
addormentato, salendo sul culmine della Rocca di Tentennano da dove
la discesa verso il sottostante paese di Rocca d’Orcia offre il
miglior biglietto da visita possibile della manifestazione: vista
completa su tutta la Valdorcia, magicamente rischiarata dalla sempre
piú intensa luce dell’aurora che avanza dall’infinito nulla dietro
l’orizzonte, ancora incapace peró di dissolvere i fumi della bruma
di cui il fondovalle é ammantato. Sublimi tocchi di pennello uno
sparuto gruppo di cipressi che in lontanaza emerge dal vaporoso mare
come l’isola che non c’é, ed il maestoso disco solare che da esso
sorge e sopra a tutto s’erge. Una buona metá delle retrovie del
gruppo, e non esagero, si ferma incantata a scattare foto che
perpetuino questi indimenticabili istanti.
Con tale disposizione d’animo, la prima decina di chilometri
vallonata, prevalentemente in discesa, tra le crete solcate da
viottoli erbosi roridi di rugiada, fila via piacevolmente;
attraversato l’Orcia in prossimitá di Bagno Vignoni, imbocchiamo la
ciclabile che costeggia il fiume, devastata dall’ultima piena. Ed
ecco un primo divertente siparietto: su un tecnico passagio in cui
era necessario poggiare il piede su un tronco scivoloso onde evitare
di immergerlo in un melmoso acquitrino, non faccio in tempo ad
esclamare soddisfatto di aver mantenuto i piedi asciutti, che alle
mie spalle odo un sordido splash seguito, di quel Securo il fulmine
tenea dietro al baleno, da sonoro moccolo del Bianchi e satanica
risatina del Fusi, sopraggiunto proprio in quel momento, giusto per
sparire in poche centinaia di metri alla nostra vista, lanciato a
velocitá siderale.
Passano pochi chilometri quando, lungo il falsopiano che ci avvicina
a Pienza, la pastasciutta della notte, nonché la brioche alla crema
prima della partenza, sono state completamente digerite e
necessitano quindi di una pronta evacuazione: sperduto tra i campi
di grano non mi resta che un sacro bisogno profano, offrendo lo
spettacolo in culovisione ad una coppia, di israeliani scopriremo
poi, che sta sopraggiungendo. Lorenzo sembra avermi attentamente
osservato, non mancando di fare dissacranti paragoni tra il mio
fondo schiena e quello dell’avvenente ragazza della coppia appena
transitata; forse attingendo da avite reminescenze divinatorie, come
quegli stregoni della savana che osservando la disposizione degli
escrementi animali predicono il futuro, il trotterellante aruspico,
ancora masticando amaro per il Fusi che é sparito all’orizzonte,
pronuncia il nefasto vaticinio: “Come faccia Simone non lo so;
magari ci impiegherá anche meno di 15 ore, ma se guardi il fisico
che ha e consideri che ieri si é fatto pure ottantaquattro
chilometri in bicicletta, schianterá anche lui eh?!?!”. Cosí,
malignamente rincuorati dalle possibili altrui sventure, ancorché
trainati dalla vista del giudaico lato B (ormai cosmopolita costante
dei nostri trail), saliamo agilmente verso Pienza e superiamo il
primo ristoro in piazza Pio II, davanti al Duomo, per calarci ancora
tra le crete verso San Quirico, dove il rifornimento approntato dal
Chianciano ci attende davanti alla Collegiata (..... non c’é che
dire, siamo proprio pellegrini).
Il calore del sole riverberato dall’argilla comincia a farsi
sentire, cosicché dai tanti stagni che costeggiamo le petulanti rane
nascoste tra le canne sembrano gracidarci in fiorentino:
Gr-Gr-Grulli! Ancora persi tra fantasticherie di un improbabile
aggancio al Fusi in notturna, a luci spente e con bastarda volata
finale, inframmezzate da interminabili telefonate al meccanico da
parte del Bianchi che, visibilmente estenuato da incomprensibili per
lui dissertazioni tecniche, alla fine sempre sbotta “Sí, ma insomma,
la puoi aggiustare e quanto costa?”, passano veloci anche i
chilometri attraverso la val di Tuoma, il crinale di Celamonti, la
discesa di Triboli (ristoro sotto il viadotto della Cassia) e Pian
d’Asso, fino ad arrivare a Val di Cava, ai piedi dell’erta per
Montalcino. Qui notiamo il minaccioso appropinquarsi di una nube
temporalesca che, con gradita puntualitá, ci rovescia addosso il suo
rinfrescante contenuto proprio nell’ascesa di Sferracavalli;
considerando che al suo culmine sará posto il rifornimento del
cinquantesimo, decidiamo di non vestirci neppure, salvo Lorenzo che
si avvolge sul capo una felpa che aveva a portata di mano, stile
nonnina in lutto dell’Ogliastra; non posso far a meno di ridere
pensando ad (A)Igor in Frankenstein Junior: lupo ululí, Montalcino
ululá!
Il tempo di indossare magliette asciutte e mangiare un caldo piatto
di pasta servitoci dalle Sienarunners girls, che smette di piovere;
ci incamminiamo cosí verso la seconda metá di gara, con
caratteristico passaggio dentro al castello e seguente tratto di
bosco, un po’ fangoso per il recente acquazzone, che ci porta a
scollinare definitivamente al passo del Lume Spento, dove il lungo
crinale verso villa a Tolli abbraccia un vastissimo panorama: a
destra la vallata dell’Ombrone fino al mare, a sinistra invece la
Valdorcia che abbiamo percorso insieme all’altra ancora da calcare,
fino all’Amiata e Campiglia, ahimé ancora lontane. Sulla pietrosa
discesa verso Sant’Antimo le gambe si fanno assai dure e giá si
accende la luce della riserva; raggiungiamo comunque un altro
israeliano (ma quanti sono? Che sia cominciata una nuova Egira?) che
ci chiede di scattargli una foto e con cui intavolo una piacevole
discussione in inglese, fino al ristoro di Castelnuovo dell’Abate
dove, ormai consapevole dell’andatura che verrá, non mi curo piú di
tanto di problemi di digestione e mi rifocillo dai coniugi
Gattarelli con formaggio e soppressata. Riprendo il pellegrinaggio
insieme a Lorenzo che nel frattempo, sentendosi escluso dalla
conversazione, si era fatto un po’ scuro in volto; quando ingelosito
mi chiede di cosa avessi parlato con l’altro, non mi viene subito in
mente di celiarlo con una giustificazione del suo ostinato silenzio
dovuto al credo nazional popolare dei trottolini ariani, e cosí gli
rispondo sinceramente riguardo alle magnifiche impressioni della
gara e del suo contesto che anche l’esotico pellegrino aveva avuto.
Dunque rappacificatici, completiamo la lunga discesa verso l’Orcia,
ma le mie gambe si rifiutano di correre e cosí lo costringo a
camminare il lungo tratto in piano parallelo alla ferrovia, sulla
cui massicciata travalichiamo nuovamente il fiume e cominciamo
l’interminabile salita verso il ristoro del settantaduesimo
chilometro, in cima ai Poggi Pelati, proprio sopra Castiglion d’Orcia.
Il Bianchi tiene un buon passo ed io, stringendo i denti ed
avvalendomi del prezioso aiuto delle racchette, riesco a stargli
dietro, ma ho chiesto troppo ai miei muscoli, arrivando al ristoro
veramente stanco e, unico momento di tutta la gara, vistosamente
innervosito. Il tempo di una foto di gruppo dei centisti senesi
scattata dal Grigiotti, che mi informa dell’avvenuto ritiro da parte
del genitore, e di un necessariamente per me lungo rifornimento
allestito dai Valenti Amerini e Quartini (da segnalare anche qui
l’abuso da parte mia di ottimo pecorino).
Quando ripartiamo sono giá passate le 18 e, nonostante i miei
pressanti inviti ad andarsene e l’allettante passaggio del
fondoschiena medio-orientale che ci aveva intanto raggiunto, Lorenzo
rimane fedelmente con me. La serata si é fatta fresca sotto una
leggera pioggerella ed indosso un giubbino leggero a maniche lunghe.
Nella discesa verso il fosso devo nuovamente fermarmi per togliere
dei fastidiosi sassi dalle scarpe: sembriamo Stanlio ed Ollio, io
che seduto sull’argine cretoso del tratturo sono colto da crampi
ogni qual volta tento di rinfilarmi le scarpe, lui che
misericordiosamente mi aiuta allacciando le stringhe con tecniche
dalle complesse circumlocazioni gordiane tipo baby-tessitore di
tappeti: di lí a poco avró di nuovo i lacci sciolti! Sulla breve ma
ripida salita nel bosco dopo il piccolo guado, staccandomi, lo
convinco finalmente ad andare del suo passo. Di lí a poco lo scorgo
giá lontano su un lungo tratto dritto, ormai fedifragamente
attaccato al posteriore della bellezza israeliana; straziante il
tolstojano ultimo addio: quando urlando gli chiedo se mi vuol bene,
egli si gira piú volte verso di me e verso ella, rispondendomi al
fine con un poco convinto sí; fossimo stati ancora vicino alla
ferrovia, avrei forse fatto la fine di Anna Karenina.
Superato comunque velocemente il trauma, anche perché finalmente
libero di tenere il mio passo infingardo, direbbe l’Agnorelli,
intraprendo in solitario la prima parte della lunga ascesa che mi
porta all’attraversamento della provinciale verso Campiglia, dove
giungo ormai all’imbrunire ed alla luce della prospiciente locanda
scorgo alcune persone a cambiarsi. Imboccata la vecchia strada per
il Vivo, raggiungo in discesa il ponte sull’omonimo torrente e,
stimolato dalla scrosciante acqua che scorre una decina di metri piú
sotto, non so resistere al richiamo della foresta: piazzato
esattamente a metá ponte, con gambe orgogliosamente divaricate a mo’
di gerarca fascista, brandisco l’ammennicolo ben unto di vasellina
sopra la ringhiera e, calibrando l’alzo a 45 gradi come la fisica
newtoniana insegna, comincio lo sparo il piú lontano possibile.
Indovinate chi sopraggiunge, quando ormai é troppo tardi per
rinunciare all’azione e troppo presto per interromperla? Sí proprio
loro, la coppia israeliana che evidentemente si era fermata a
cambiarsi e che giá avevo deliziato al mattino. Tento di buttarla
sul ridere in un imbarazzato inglese, loro abbozzano un educato
sorriso ma, evidentemente sovralimentati dalla mia anatomia,
allungano speditamente in salita, lasciandomi prudenzialmente
indietro a riportar ordine nella bigiotteria di famiglia, troppo
repentinamente riposta.
É buio pesto, ma decido di arrivare comunque al Vivo senza lampada;
visto che la strada é buona e non ci sono bivi, mi godo la
rilassante oscuritá alla ricerca di me stesso, o meglio delle mie
gambe. Le prime incoraggianti luci che scorgo sono quelle del
cimitero: c’é ancora da salire un po’ per arrivare alla proloco in
cima al paese, dove é posto il penultimo ristoro, circa
ottantacinquesimo chilometro. Non faccio in tempo ad entrare che,
appena scortomi, i due figli di David sembrano accelerare
particolarmente la loro partenza. Mentre sorbisco una calda e
gustosa grandinina in brodo (ormai sto affiancando alla competizione
un tour gastronomico), mi rendo conto di non esser l’unico a
raschiare il fondo del barile: un trailer giá presente da prima del
mio arrivo dice di sentirsi male e sviene. Ce ne fosse bisogno mi
convinco ancor piú dell’importanza di avere riserve sufficienti, e
cosí decido di raschiare anche il fondo della pentola e racimolo un
altro piatto di pasta in brodo.
In effetti, indossata pure la giacca piú pesa, esco dal ristoro
(fortunatamente nessuno mi presenta il conto) assai in palla, tanto
che scalo senza apparente fatica le rampe, anche con scalini, che
salgono alle sorgenti. Sentirmi completamente solo nell’oscura
faggeta, assordato dall’incessante scroscio dell’acqua che scende
impetuosa lí di fianco e la cui spuma riflette la luce della
frontale, mi fa sentire una specie di Flash Gordon (si rimandano i
lettori agli effetti dell’ipossia cerebrale, molteplicemente citati
nei precedenti articoli) cosicché, appena scollinato, mi metto
addirittura a correre, oserei dire piuttosto velocemente, in uno dei
tratti piú tecnici di tutta la gara, oltretutto reso assai fangoso e
sdrucciolevole dalle abbondanti piogge del pomeriggio. Supero un
paio di persone, non succedeva da venti chilometri e, scendendo dal
rudere della torre di avvistamento di Campigliola, giungo a
Campiglia. Dopo una panoramica circumnavigazione della rocca ed una
pittoresca discesa tra i caratteristici chiassini, raggiungo il
locale dove é posto l’ultimo ristoro e vedo, questa volta senza
compagno, entrarvi nuovamente (vi era necessariamente giá
transitata) colei che da ormai sedici ore si sta gustando bellezze
paesaggistiche ed anatomiche nefandezze. Gaspare e Cristina, i
ristoratori, tentano di chiederle il perché sia tornata indietro, ma
la barriera linguistica appare insormontabile e cosí mi viene
chiesto di intercedere: ormai complici in una scabrosa intimitá, mi
dice di aver avuto una piccola distorsione al ginocchio e di non
sentirsi sicura nell’affrontare, ove ve ne fossero, altri tratti
sconnessi; le spiego che fino all’arrivo ci sará solo un chilometro
di discesa un po’ piú impegnativa, ma evidentemente la prospettiva
di rimanere ancora un paio d’ore immersa nelle tenebre con
all’intorno la personificazione ariana di un Golem sporcaccione, la
fa definitivamente optare per il ritiro.
Una volta ben riposato, ma ahimé non rifocillato come speravo (dopo
salumi, formaggi e minestra mi aspettavo, acme del climax
ascendente, non dico crudité di pesce, ma perlomeno tagliata o vitel
tonné) lascio alle spalle il camposanto (angosciante refrain da
quando é scesa la notte) e mi inoltro negli ultimi undici chilometri
di gara che, tronfio di compiaciuta infingardia, cammino in toto,
piacevolmente osservando la méta illuminata che progressivamente si
avvicina. La spianata tra Campiglia e Castiglion d’Orcia é
disseminata da omai radi lumini, anime ritardatarie del purgatorio;
scambio alcune battute con un paio di esse che mi raggiungono per
poi nuovamente distanziarmi, fin quando all’attraversamento dell’Onsola,
ai piedi dell’erta finale, mi affianca una fiammella dallo spiccato
accento trasteverino: “Anvedi ahó! E mo’ ce dovemo da fa’ anche sto
zuccherino!”. Ci accordiamo tacitamente nello stare insieme e
raggiungiamo, tanto per cambiare, il cimitero: l’organizzatore
sembra proprio voler fare del pellegrinaggio di un giorno la
metafora della vita, ribadendo insistemente nel finale cosa
inesorabilmente ci aspetta; entrambi lo notiamo ma, avendo le
racchette tra le mani, non possiamo compiere sacrileghi rituali
apotropaici. Da lí decidiamo di correre le poche centinaia di metri
che ci separano dall’arrivo: tapascioni sí, ma tapascioni veloci,
scherza il mio compagno.
Arrivo meno emozionante dello scorso anno, perché manca il senso
dell’impresa (che sarei arrivato, in un modo o nell’altro, ne ero in
fondo consapevole sin dall’inizio), ma sempre gratificante anche per
il cordiale saluto di Lorenzo e Simone rimasti ad aspettarmi.
Spero di avervi invogliato, affezionati lettori, a partecipare il
prossimo anno, per scoprire anche voi questi magnifici panorami
..... della Valdorcia intendo e non delle intimitá del narratore. |