Affezionati lettori, eccomi di nuovo a
solleticare il vostro anelito alle grandi, o
presunte tali, imprese. Sí perché questa
volta, nonostante desideri continuare ad
usare il mio stile canzonatorio senza
prendermi troppo sul serio, non so se saró
capace di nascondere il compiaciuto orgoglio
che mi pervade; quindi mettiamo subito in
chiaro una cosa: sono oltremodo fiero di
aver portato a termine l’Ultratrail del
Monte Bianco, 170Km con 10000m di dislivello
positivo .... e potremmo finirla qui, senza
specificare, come sua manu ha fatto il fin
troppo zelante genitore nel suo sito web,
quanto ció sia avvenuto rasentando tutti i
cancelli orari, ben 11 e arrivando,
praticamente per il rotto della cuffia, a
meno di tre quarti d’ora dal tempo massimo,
dopo quasi 46 ore di pellegrinaggio alpino.
Prima di avventurarvi nella lettura, siate
quindi consapevoli che la lunghezza del
racconto é direttamente proporzionale al
tragitto percorso.
Come in tempi non sospetti scrissi nel 2013,
l’UTMB rappresentava una chimera sin da
quando mi sono avvicinato (mia moglie
direbbe incurabilmente ammalato) al trail.
Il fatto é che in ogni benedetta locandina
degli ultratrail viene sempre specificato se
questo vale 1, 2, 3 o 4 punti UTMB. Per
molti di voi ció non significa niente e cosí
era anche per me; ma ad ogni gara, come si
faceva da bambini con le figurine, sentivo
gente discutere di quanti punti UTMB avesse
o le occorresse fare e alla fine decisi di
informarmi, scoprendo che un numero minimo
di punti totalizzato in massimo 3 gare negli
ultimi 2 anni era il requisito per potersi
iscrivere all’Ultra Trail del Monte Bianco
appunto, salvo poi aver la fortuna di essere
estratti a sorte. Cosí già a Dicembre 2013,
avendo i punti richiesti precisi precisi,
tentai l’iscrizione per il 2014, senza peró
venir estratto; a distanza di un anno,
avendo ancora i requisiti e priorità di
estrazione doppia ho tentato nuovamente e,
tra le oltre cinquemila richieste idonee,
sono stato uno dei 2300 fortunati estratti a
poter partecipare all’UTMB 2015.
Ovviamente, soprattutto il primo anno, mi
sono lanciato in quest’impresa senza avere
la minima idea di cosa significasse stare a
zonzo a 2000m di altitudine per un paio di
giorni, ma sicuro che dovesse essere
alquanto ganzo, visto il numero di persone
che da tutto il mondo vi ambisce. Al momento
di pagare l’iscrizione (quando c’é da
spendere si tende ad usare anche il
cervello) ho studiato il percorso con
maggiore attenzione e, in considerazione
anche della maggiore esperienza acquisita,
mi sono improvvisamente reso conto della
potenziale disfatta cui andavo incontro e di
come si sarebbe in qualche modo compiuto, o
meno, il mio destino di trailer. Il 20
Gennaio 2015, osservando le coordinate della
mia carta di credito sul monitor del
computer come Cesare quasi esattamente 2064
anni prima scrutava il Rubicone, premendo
invio ho finalmente escalamato: “alea iacta
est”!
Fatto il piú, perché una volta pagata
l’iscrizione ci si presenta al via ed una
volta partiti in qualche modo si arriva
(sofistico compendio del Rosati pensiero),
il resto é la routinaria follia che
lisergicamente si rinnova sempre uguale a se
stessa, ma estrinsecandosi in emozioni
avvertite ogni volta come uniche ed
irripetibili.
Fatto sta che a differenza del solito,
complice forse la prolungata mancanza di
sonno, nelle settimane successive ho
faticato molto a rimettere ordine ai miei
ricordi, confuso collage tenuto insieme da
una sensazione di soddisfatto appagamento.
Per quanto inzuppare il muffin alla carota
marchiato Air France nel cappuccino Nescafé
a base di polvere liofilizzata ed acqua
calda possa sembrare antitetico al
rievocativo gusto della “madeleine”
decantata da Proust, é stato in questo
frangente che, in volo da Firenze a Parigi,
dopo dieci giorni ho rivisto in tutto il suo
splendore il Monte Bianco e, senza una
nuvola in cielo proprio come durante i due
giorni di corsa, ho distintamente
riconosciuto il Lac Combal, la Val Veny,
Courmayeur, la Val Ferret, Vallorcine,
Chamonix e sono stato catapultato indietro
nel tempo, finalmente capace di
ripercorrere, in maniera vivida e distinta,
tutti i sentieri e gli anfratti dell’UTMB
.......
Trascorso il venerdí mattina a dormicolare
nel letto dell’appartamento che avevamo
affittato (una settimana di vacanza in
montagna fa apprezzare il trail anche alla
famiglia), mi faccio preparare dalla
consorte una razione abbondante di pasta
condita con formaggio ed olio, portato
appositamente da casa. Un ultimo fugace
controllo allo zaino preparato la sera prima
e ci avviamo verso Chamonix, a 20 minuti di
macchina. Facendo la lunga coda per
depositare la sacca con il cambio che avremo
a disposizione a Courmayeur, mi appare
evidente nella sua magnificenza quello che
già avevo notato il giorno prima al ritiro
del pettorale; sono rappresentate piú di
ottanta nazioni e la varietà della fauna,
per caratteristiche fisiche, di
abbigliamento e fornitura tecnica é la piú
eterogenea e strabiliante che si possa
osservare: personalmente, vista la
conformazione genotipica ariana ornata con
cerottoni unti ed immancabile calzatura
stile campesino boliviano, rappresento forse
l’anello mancante nella fanta-teoria della
migrazione del popolo vichingo verso gli
altopiani andini del Sud America.
Ultima perla prima dell’addio alla famiglia,
la speranzosa domanda di Duccio, che con
l’utopica fiducia dei quattro anni mi
chiede: “Babbo, vinci?”. Eccomi cosí a
spiegare i valori dello sport come
partecipazione e sforzo nel dare il meglio
di sé specificando, qui probabilmente il mio
errore, come mentre i primi saranno al
traguardo già il pomeriggio di sabato, babbo
arriverà, se tutto andrà bene, non prima di
domenica pomeriggio. Fatti due conti Marco,
con il cinico realismo dei quasi sette anni,
allarga le braccia e sconsolato proferisce
tranchant “Come sei lento, babbo!”.
Soddisfatto della prova logica di paternità
(le querce non fanno limoni ed i lupi non
cacano agnelli), mi avvio
decoubertinianamente alla partenza. Manca
circa un quarto d’ora e sono tra gli ultimi
ad arrivare, cosí l’organizzazione mi guida
attraverso vicoli e stradine in un piazzale
arroventato dal sole (la temperatura é
superiore ai 30 gradi) a circa 300m dalla
linea, assiepato da una moltitudine
fremente; deciso a non prendere la cotta
prima ancora di partire, me ne torno sui
miei passi fino a dei giardinetti ombrosi
che un vicolino mette in comunicazione con
il suddetto piazzale. Mi stendo all’ombra
insieme ad un’altra decina di concorrenti
che evidentemente hanno avuto la mia stessa
idea e ci godiamo, attraverso il maxischermo
che riusciamo ad intravedere, le fasi della
partenza: incredibilmente riesco a non
commuovermi alle note della “Conquest of
Paradise” di Vangelis, suonata a tutto
volume e che si sposa perfettamente con
queste migliaia di Cristoforo Colombo che
stanno partendo alla ventura; alla fine del
countdown, alle 18 precise, rimango sorpreso
nel vedere la velocità con cui i top runners
partono, che stimo ben superiore a quella
che il sottoscritto riesce a raggiungere in
via Campansi alla partenza della Traversata
..... finalmente l’onda umana accenna a
muoversi anche nella piazza e cosí mi alzo,
metto lo zaino in spalla e comincio
l’avventura.
Percorso il vicolino ed immessomi nella
fiumana che ancora stenta a partire, mi
trovo immerso in uno spettacolo che non
avevo previsto tale nella sua portata:
percorriamo, inevitabilmente ancora
camminando, tutto il corso di Chamonix tra
due ali di folla che aldilà delle transenne
ci incita a pieni polmoni, invitandoci a
battere il cinque e chiamandoci
distintamente per il nome che vedono scritto
sul pettorale. Alzo lo sguardo e non c’é una
finestra, dal primo all’ultimo piano dei
palazzi, dove le persone assiepate ai
davanzali facciano altrettanto: sento gli
occhi lucidi e mi tranquillizzo vedendo che
praticamente tutti intorno a me se li stanno
stropicciando.
Dopo quindici minuti esatti dalla partenza
incomincio a correre proprio dove, alla fine
del corso, mia moglie mi chiama e ci
scambiamo un ultimo fugace saluto. Siamo
fuori dal paese, le transenne non ci sono
piú, ma per almeno un altro Km corriamo tra
due ali di folla che continua ad incitarci
come dei gladiatori, fino a quando
imbocchiamo un’ampia strada sterrata, che
costeggia sul lato destro, nel senso della
corrente, il torrente Arve. Fortunatamente
non troviamo l’arena con i leoni, ma
soltanto una palestra di roccia da cui
persino gli alpinisti ci salutano da sopra
le nostre teste. Ho imparato a memoria
l’altimetria della prima metà di gara e so
che i primi 10Km sono praticamente
pianeggianti, fatto insolito in un trail ed
alquanto pericoloso per chi come me deve
pensare fondamentalmente a salvare la gamba:
prendo un passo che non mi fa avvertire la
benché minima fatica e cammino ad ogni
pendenza positiva, anche se minima. Non
avendo portato il GPS, sia perché non
reggerebbe la carica sia perché non voglio
esser condizionato dai tempi, ma fidarmi
soltanto delle mie gambe che ormai ben
conosco, é difficile stabilire quale
velocità tenga; ipotizzo comunque un po’
meno di 7min a Km. Passa cosí un’ora
abbondante lungo un percorso immerso in una
piacevole ombra con facili saliscendi ed
onestamente un po’ noioso, ma che comunque
permette alla moltitudine di defluire
tranquillamente senza intoppi, fino a quando
attraversiamo il torrente e la statale
entrando nel paese di Les Houches. Altro
bagno di folla prima e dopo il ristoro
idrico e finalmente inizia il trail: quello
vero!
É tempo di tirare fuori dallo zaino i
bastoncini nuovi di pacca (ricorderete forse
come i vecchi li abbia malamente abbandonati
alla Trans d’Havet): la salita, che in 5km
da 1000 ci porterà a 1800 metri, parte per
uno stradone che, correndo a lato delle
piste da sci, tende a diventare sempre piú
ripido. É comunque abbordabile e le
sensazioni, ci mancherebbe altro, sono
buone: mi colloco tranquillo all’interno del
serpentone che sale tra prati e baite sempre
popolate di persone che incitano a piú non
posso con urla, campanacci, “Bravó Mishel” e
“Bon Courage”, evitando i dispendiosi
sorpassi della fila che a volte nei
restringimenti rimane imbottigliata, anche
se solo per pochi secondi. A parte i pochi
che già faticosamente arrancano, il clima
intorno a me é assai gioioso con molti che
chiacchierano tra di loro entusiasti in
francese, italiano, spagnolo, inglese e non
meglio identificati idiomi; come al solito
me ne salgo taciturno per i cavoli miei, sia
per l’innata burberità sia perché non avendo
ancora riscontri cronometrici dei passaggi
ai cancelli non mi sento affatto tranquillo:
va bene salvare la gamba, ma non vorrei
esser estromesso praticamente da subito.
Quando arrivo in cima al monte, sul Plan di
Voza, intorno alle 20 mi tranquillizzo un
po’: ho ancora quasi due ore per giungere al
primo cancello di Saint Gervais, a circa 7Km
e 1000m piú in basso. Percorrendo quindi una
sorta di altipiano ho il tempo di voltarmi
ed ammirare al tramonto la valle di Chamonix
con i ghiacciai Des Bossons e Taconnaz che
arrivano quasi al paese, dominati
dall’imperiosa Aiguille du Midi; sulla mia
sinistra il grandioso ghiacciaio di
Bionnassay che sembra scendere direttamente
dalla vetta del Bianco e, finalmente
valicato, davanti a me si apre la bassa
valle dell’Arve. Il primo tratto di discesa
é lungo una pista da sci, con fondo erboso
ma assai ripido: mentre alcuni già si
fermano per indossare la frontale, lascio
andare libere le gambe e filo giú come una
saetta, almeno se paragonato all’ultimo
gruppo dei trailers piú chiattoni di cui
faccio parte. Improvvisamente entriamo nel
bosco e la situazione si fa piú scura; ci
vedo comunque ancora abbastanza bene e
proseguo, mantenendomi peró in fila senza
fare piú sorpassi: le tibie cominciano a
bruciare e ho già visto alcuni colleghi
snodellati stesi sofferenti a terra. Mentre
proseguiamo abbastanza lentamente si fa
praticamente buio e tutti accendono la
frontale o, chi ancora non la indossa, si
ferma per prenderla dallo zaino .... eccetto
il sottoscritto che, per passare il tempo,
si inventa un nuovo gioco: corri con la luce
degli altri. Siamo cosí fitti da avere
sempre qualcuno dietro o davanti che mi
illumina abbastanza per vedere dove metto i
piedi e cosí, puerilmente galvanizzato,
accelero nuovamente e mi trastullo nel
saltare dal cono di luce di chi mi segue a
quello di colui che mi precede e cosí via,
fin quando il sentiero diventa single track
piuttosto ostico e conduce tra le prime
case. A quel punto, sfruttando
l’illuminazione pubblica, giungo al ristoro
con tre quarti d’ora di vantaggio sul
cancello orario: non male, considerando i 15
minuti persi in partenza.
La piazza principale davanti alla chiesa di
Saint Gervais é un brulicare di trailers
indaffarati a rifocillarsi e centinaia di
festanti spettatori aldilà delle barriere
che delimitano l’area; per sveltire le
operazioni le bevande sono già pronte sui
tavoli in bicchieri di plastica e ci sono
molti punti per accedere ai vari solidi:
personalmente, sarà cosí per tutto il resto
della gara, mi ingozzo dell’amata Coca Cola,
mangio l’ottimo formaggio locale con pezzi
di salame e pane tostato tipo craker, un po’
di frutta secca e me ne parto con una
banana. Appena uscito dal ristoro trovo
anche tutta la famiglia ad aspettarmi
(l’appartamento affittato é lí a duecento
metri); mi fermo volentieri un paio di
minuti a salutare moglie e ragazzi che
sembrano, se non fieri, per lo meno contenti
di vedermi: fortunatamente Marco evita di
dirmi in quale posizione mi trovi ....
nonostante le buone doti matematiche avrà
probabilmente perso il conto!
Mi incammino quindi lungo una sorta di
sentiero ciclabile, risalendo la riva
sinistra del torrente Bon Nant. É forse il
tratto di maggiore sofferenza che incontro
in tutta la gara. Sono circa 10Km per andare
dagli 800m di Saint Gervais ai 1100 di Les
Contamines, tutti da percorrere nel
fondovalle e quindi ipoteticamente agevoli.
In realtà il sentiero, che a volte diventa
vera e propria strada carrabile, é
costellato di numerosi strappi, brevi ma
piuttosto ripidi, discesine e lunghi tratti
in leggerissima salita tra i campi,
paralleli e non lontani dalla strada
asfaltata. Quasi tutti li corricchiano, ma
ho il terrore di cuocermi e mi impongo di
camminarli, mentre il tempo passa
inesorabile. Guardarsi intorno non aiuta: é
buio pesto e nonostante la luna piena,
passando davanti agli sbocchi delle valli di
Bionnassay e successivamente di Miage, non
distinguo i ghiacciai che so sovrastarle;
vedo solo un lungo filare di luci in
movimento davanti a me ed ogni agglomerato
di case dove spero sia il ristoro, una volta
raggiunto, si rivela non essere tale.
Superati alcuni concorrenti fermi a vomitare
sul ciglio della strada lo sconforto é quasi
totale e praticamente ho lo sguardo fisso
sull’orologio. Alle undici mi appare una
località che sembra esser la piú grande
sinora incontrata: saranno un paio di Km di
distanza ed un centinaio di metri di
dislivello positivo. Accelero leggermente il
passo e, cominciato ad udire il tipico
brusio di un luogo affollato, senza
rendermene conto supero di slancio l’ultimo
strappo ed arrivo al secondo cancello alle
23:20 con soli 40 minuti sul limite orario:
considerati 10 minuti per mangiare, bere e
rifornirsi, ho perso circa mezz’ora rispetto
al passaggio precedente e sono stato piú
lento del passo minimo consentito, pur non
lesinando impegno.
Adesso, dopo un tratto di 3Km praticamentre
pianeggiante tra ameni laghetti e campeggi,
so che comincia la salita vera, 1400m di
dislivello in circa 8Km con ristoro e
barriera oraria a circa metà arrampicata.
Percorrendo il largo e dritto stradone con
tanto di stazioni della via crucis che porta
alla barocca Notre Dame de la Gorge,
comincio ad udire sempre piú forte musica
rock sparata in aria insieme ad improbabili
fasci di luci violacee, che stridono
alquanto con la monacale quiete di cui
immagino normalmente pervaso il sacro luogo;
fatto sta che proprio in prossimità della
chiesetta, dopo una secca svolta a sinistra,
mi trovo in mezzo a questo bislacco rave
party di tifosi; é mezzanotte passata, siamo
in cima ad una vallata alpina praticamente
in mezzo al nulla, i primi sono passati da
almeno 3 ore, rimangono solo due-trecento
ritardatari e ci sono ancora almeno un
centinaio di persone a farci festa:
semplicemente incredibile ... “outstanding”,
come sento dire ad un americano che ho a
fianco.
All’inizio rimango un po’inebetito, ma
evidentemente tutto ció mi dà la carica
giusta perché, superato il Bon Nant su un
ponticello, alzo lo sguardo ed osservo la
strada che, facendo un tuffo di duemila anni
addietro, diventa l’originale carraia romana
che sale ripida scavata nella roccia: mi
sento finalmente di buon umore e comincio
pimpante a racchettare in salita, conscio
che a breve mi renderó conto se questo
benedetto trail sia alla mia portata o meno.
Dopo un po’ il sentiero spiana in un’ampia
conca, si supera il ponte romano della Téna,
il bosco lascia spazio ai pascoli alpini e
si apre davanti ai miei occhi il grandioso
spettacolo di un’ininterrotta fila di luci
che si arrampicano per chilometri sul Col di
Bonhomme, dominato dalle vette delle
Aiguilles de la Pennaz rischiarate dalla
luna. A mezza costa, in un tratto che sembra
abbastanza ripido, si distingue nitido un
rifugio illuminato a giorno, che suppongo
essere La Balme dove, a 1730m, é posto il
ristoro successivo. Discorrendo amabilmente
niente popó di meno che con l’unico, non
faccio fatica a crederlo, rappresentante
iraniano in gruppo, la strada passa veloce
e, benché mi stacchi di qualche metro nelle
ultime rampe, giungo fresco e rilassato al
rifugio, con un’oretta di vantaggio sul
cancello: buon segno.
Mi rifocillo gustando volentieri quasi tutte
le pietanze a disposizione e, lasciando
diversi concorrenti sdraiati nelle brandine
a riposare, me ne riparto quasi subito per
un sentiero single track che sale molto
ripido tra le rocce per una buona mezz’ora,
fino a spianare nuovamente in una zona
piuttosto acquitrinosa con molti rivoli
d’acqua da guadare, il Plan Jovet, al
termine del quale si scorge ancora il treno
luminoso inerpicarsi. Proprio nello scalare
questo ulteriore gradino roccioso, ennesimo
vagoncino dell’infinito convoglio umano,
avverto un nauseabondo odore di carogna
imputridita: mi sono evidentemente accodato
al carro bestiame nelle sembianze di
teutonico trailer dai lunghi capelli biondi
untuosamente avviluppati che, sempre secondo
la fanta-teoria della migrazione vichinga in
Sud America, presumo essere un estremista
devoto della madre terra Pachamama che da
anni non usa prodotti detergenti. Per dare
ossigeno ai polmoni lo supero con un
faticoso scatto, ma nel successivo Plan des
Dames, mentre io faccio attenzione a non
bagnarmi i piedi nei numerosi rivoli d’acqua
che lo attraversano, questi non se ne perita
ed incurante del possibile danno ambientale
tira dritto immergendovi le contaminanti
estremità e sopravanzandomi nuovamente,
cosicché nello strappo finale verso il
valico mi sembra nuovamente di stare in fila
dietro al camion della Siena Ambiente che
svuota il cassonetto dell’organico.
Raggiunta finalmente la sella del Col di
Bonhomme a 2300m, davanti scende il Vallon
della Jittaz, ma noi dobbiamo continuare a
salire sulla sinistra per un traverso
sottocosta aspro e roccioso. Tira un vento
abbastanza fresco e rifletto se non sia
meglio indossare la giacca, ma vedendo che
l’olezzante collega si ferma per fare lo
stesso non esito un momento a continuare a
maniche corte ed inalare finalmente la pura
aria montana. Questa vuol peró essere una
notte dai sapori decisamente forti e cosí,
arrancando tra pietre smosse ed enormi massi
da aggirare, mi trovo dietro ad un petomane
francese, che chiosa ogni sua roboante
emissione con un “pardon”. A questo punto,
allegramente esasperato, decido di
combattere la mia sporca guerra mollando
venefiche loffe alla fontina e mascherandole
con i rombi di colui che mi precede fino a
che, dopo alcuni scambi di artiglieria ed
armi non convenzionali, da dietro si sente
pronunciare con esilarante accento emiliano
“altri due pardon e ti devi cambiare le
mutande!”.
Passa in tal modo questo spettacolare ma
ostico tratto e giungo al Col de la Croix du
Bonhomme, quasi 2500m di altitudine, dove si
esce dal dipartimento dell’Haute Savoie per
entrare in quello della Savoie e si comincia
finalmente a scendere. Sono ormai diverse
ore che non incontro segni di civiltà e
anche il vallone della Raja che declina
prima ripido e poi si allarga in pascoli
meno pendenti non ne dà, salvo un paio di
fari che scorgo su una strada un migliaio di
metri piú in basso. Il sentiero, nonostante
la notte, é agevole ed alterno una blanda
corsetta a tratti camminati per far riposare
un po’ le gambe; l’ultimo tratto é
nuovamente ripido, ma attraverso un comodo
sentiero che scende a larghi tornanti arrivo
a Les Chapieux, due case una di fronte
all’altra a 1550m di altitudine, avendo
percorso 50Km in 10 ore e con 75 minuti di
vantaggio sul cancello orario. Dopo un
accurato controllo a campione del materiale
obbligatorio da parte dei volontari, accedo
all’area ristoro dove mi rilasso per circa
venti minuti prima di riprendere il cammino.
Una volta usciti imbocco la Vallée des
Glaciers per la strada asfaltata che risale
l’omonimo torrente sulla riva destra. Lo
spettacolo che si para davanti ai miei occhi
é unico: il luminoso treno umano si allunga
senza soluzione di continuità per i
successivi 10Km fino ad inerpicarsi a larghe
volute sul col de la Seigne, come un
gigantesco festone argentato sull’albero di
Natale. Spengo la frontale (sull’asfalto non
ne ho bisogno) e cammino di buon passo i 4Km
che salgono costanti fino a 1800m, superando
diversi concorrenti distesi a riposare sul
ciglio della strada. Qui la valle si allarga
in un’ampia conca e diventa perfettamente
pianeggiante per il successivo Km, quando
superate alcune baite la strada diviene
sterrata, supera il torrente con un ponte e
comincia a salire fino ad un vecchio
cascinale trasformato in rifugio, per
divenire infine single track che, attraverso
un’infinita serie di tornanti non troppo
ripidi e dal fondo agevole, porta verso il
valico a 2500m.
Giuntovi mi godo la magnifica alba entrando
in Italia: alle spalle mi lascio i ghiacciai
che scendono tra l’Aiguille des Glaciers e
le Aguilles de Trélatête, mentre davanti, in
primo piano, si stagliano le Pyramides
Calcaires che dominano prorompenti il
placido Lac Combal, dove so essere posto il
successivo ristoro. Vistolo abbastanza
lontano e ricordandomi di un’ulteriore
salita da affrontare, raggiunta dopo pochi
minuti di discesa della Val Veny una vecchia
casermetta trasformata in museo dove é stato
improvvisato un ristoro idrico, mi fermo
volentieri a riposare ed identificare con
l’aiuto di una gigantografia le innumerevoli
vette ed i ghiacciai che la sconfinata vista
abbraccia in questa tersa mattina.
Vedo anche la successiva salita che mi
attende e, almeno a giudicare dal modo di
procedere delle persone che la stanno
affrontando, non promette nulla di buono. In
effetti, dopo un breve tratto in discesa e
superato prima un agevole guado e poi un
ponticello, invece di proseguire per la
comoda strada lungo la valle, pieghiamo a
sinistra per un sentiero a malapena
tracciato, non fosse per le bandierine della
corsa. Dopo alcuni strappi inframmezzati da
brevissimi pianori acquitrinosi, entriamo in
una vera e propria pietraia morenica che,
salendo sotto le Pyramides Calcaires, porta
all’omonimo colle a 2563m, il punto piú
elevato del percorso. Purtroppo non posso
godere troppo della splendida vista del
ghiacciaio de la Lex Blanche, perché la
discesa nell’omonimo vallone fino al rifugio
Elisabetta é ancor piú insidiosa della
salita: una pietraia a tratti ripida ed
instabile dove tendo a percorrere la
traiettoria che reputo ottimale, piuttosto
che seguire fedelmente il percorso
tracciato. Superato il rifugio rientriamo
nella vallata principale e, dopo un ultimo
dislivello in discesa, raggiungo il ristoro
allestito con dei tendoni sulla sponda del
lac Combal, di poco inferiore ai 2000m, con
ancora 45 minuti di vantaggio sulla barriera
oraria.
Comincio ad avvertire la stanchezza, ma
molti di coloro che mi sono intorno hanno un
aspetto ben peggiore, almeno spero, del mio.
Non é comunque il momento di avere
tentennamenti sicuro che almeno a
Courmayeur, prossimo cancello e giro di boa
della gara, ci arriveró .... poi sarà ció
che Dio vorrà, anche perché piuttosto ignaro
di cosa mi attenda nella seconda parte del
percorso. Costeggiata quindi la sponda
destra del lago, lasciamo la val Veny che
condurrebbe comodamente al paese per
inerpicarci sul costone di destra fino all’Arête
du Mont Favre, nuovamente a 2400m di quota.
La fatica della salita é comunque compensata
dal panorama sempre piú ampio che si apre
sul lato opposto della valle, fino a
comprendere tutto il lato italiano del
massiccio del Bianco con in primo piano i
magnifici ghiacciai del Miage e della Brenva.
La prima parte della successiva discesa, tra
pascoli e tratti boscosi, é facile fino ai
2000m del Plan Checrouit, centro nevralgico
degli impianti sciistici di Courmayeur e
adesso affollato dai numerosi escursionisti
in un assolato sabato di fine Agosto. Al
ristoro riprendo per ben due volte delle
orecchiette al sugo che i Km percorsi
rendono gustosissime al mio palato. Come
sempre rimesso di buon umore dal buon cibo,
tiro fuori il berretto e me lo rovescio
sulla testa pieno d’acqua visto che la
temperatura, alle undici del mattino, si é
fatta piuttosto calda. I mille metri di
discesa in circa 4km su di un sentiero
ripido, spesso a scaloni, che corre sotto la
funivia in un clima che si fa sempre piú
rovente non riescono a scoraggiarmi, vedendo
avvicinarsi sempre piú le case di Courmayeur
di cui mi trovo finalmente a percorrere i
caratterisitici vicoli con le case in
pietra: giungo al ristoro allestito nel
palazzetto proprio quando le campane
annunciano il mezzogiorno.
Prendo la sacca con il cambio (sono stupito
nel constatare come ne siano rimaste ancora
alcune centinaia da ritirare) ed entro
nell’enorme struttura, affollata di trailers
e persone che li assitono. L’afa opprimente
ed i numerosi atleti stesi a terra alcuni
con gli occhi chiusi, altri a curarsi le
vesciche, altri ancora con borse di ghiaccio
sulla testa ed addirittura un paio portati
via in barella, lo rendono piú simile ad un
lazzeretto che ad un punto di ristoro. Mi
nascondo ai monatti in un andito riparato da
alcuni tendoni, togliendo scarpe e calzini
per verificare lo stato di salute delle mie
bitorzolute estremità: fortunatamente hanno
retto tutte le fasciature delle dita, salvo
quella intorno al mignolino destro, che é
infatti l’unico un po’ ammaccato. Rifaccio
con zelo le incerottature che si stanno
staccando, spalmo senza parsimonia la Pasta
di Fissan sui piedi, indosso nuovi calzini e
mi rimetto le stesse scarpe: per quanto già
malconce prima della partenza ed ora
praticamente distrutte non ho il coraggio di
indossarne un nuovo paio che ho nella sacca,
seppur rodate anch’esse. Cambio anche la
maglietta e riconsegno la sacca che verrà
riportata a Chamonix. Mentre lotto per
arrivare al cibo (sembra che tutti, trailers,
assistenti amici e tifosi si siano dati
appuntamento in questo palazzetto), una
lugubre voce che associo istantaneamente a
quelle tedesche dei campi di concentramento
che si sentono nei film di guerra, annuncia
dall’impianto fonico che mancano trenta
minuti alla chiusura del cancello in uscita.
Afferrati a piene mani formaggio e salame,
mi catapulto fuori da quel forno crematorio
che ormai non tollero piú e provo quasi
sollievo sotto il sole cocente di
mezzogiorno. Alcune centinaia di metri e
faccio il piacevole incontro con Massimo
Zangheri, trailer dei Malandrini in vacanza,
già intravisto prima del ristoro, che mi
esorta a non mollare, sottolinenando come
sarà assai improbabile ritrovare in futuro
condizioni climatiche cosí favorevoli; non
che pensassi minimamente a ritirarmi, ma
questa considerazione mi dà ulteriore
convinzione, anche se gravata di onerosa
responsabilità: ora o mai piú!
Traversata la Dora, risalgo tra le vie della
moderna Courmayeur fino a piazza Abbé Henry,
dove si sono raccolti diversi spettatori che
ci incitano con tanto di speaker che
presenzia. Lasciato finalmente il paese
lungo una ripida strada asfaltata che si
inoltra nel Vallon du Sapin, ad ogni fontana
che trovo, praticamente ogni cento metri,
riempio il berretto di acqua fresca e me lo
rovescio in testa, sperando di raffreddarmi
a sufficienza per la salita al rifugio
Bertone, 800m di vdislivello in 4km di cui
600m concentrati negli ultimi 2Km. Lasciata
infatti la strada che intanto é divenuta
sterrata, il sentiero é da subito ripido e
la vegetazione non riesce a proteggere dal
caldo asfissiante, offrendo un po’ di
refrigerio solo nei tratti con abetaie e
larici di alto fusto. Accorcio decisamente
il passo (risulterà essere il secondo tratto
piú lento di tutta la gara, inferiore ai tre
chilometri orari), ma riesco a proseguire
costante senza soffrire eccessivamente e
contemporaneamente sopravanzando diversi
concorrenti che si fermano sfiniti ai bordi
del tratturo. Raggiungo il ristoro del
Bertone ed osservo soddisfatto Courmayeur in
fondo alla valle mentre svuoto due borracce
di Coca Cola: tutto sommato non mi sento piú
stanco di otto-dieci ore prima e finalmente
dentro di me un incauto ma trascinante
ottimismo sta prevalendo sull’elegiaco
scetticismo della notte.
Mi lancio nel continuo saliscendi che corre
a mezza costa parallelo alla val Ferret,
lungo balcone che la domina dai 2000m di
quota ed offre viste meravigliose della
parte meridionale del massiccio del Bianco,
dal Col de la Seigne valicato all’alba fino
al Grand col Ferret, su cui presumibimente
transiteró al tramonto, passando davanti a
tutte le Grandes Jurasses da cui mastosi
scendono numerosi ghiacciai. Con un ultimo
strappo raggiungo il rifugio Bonatti, da cui
proseguiamo ancora a quota piú o meno
costante lungo il sentiero panoramico fino
alle baite in rovina dell’Alpe Gioé,
scendendo poi con ampi tornanti ad Arnouva,
ultimo avamposto della valle a 1700m, dove
arrivo con un’ora abbondante di vantaggio
sulla barriera oraria.
Ne approfitto per riposare un po’ steso
sulla fresca erbetta e, una volta traversato
il fiume, do l’attacco all’ultima grande
vetta, il Gran Col Ferret che con i suoi
2537m costituisce il secondo punto piú alto
di tutto il percorso. Il sentiero si
presenta all’inizio ripidissimo
arrampicandosi a stretti tornanti sullo
scalino di una lingua morenica,
addentrandosi in uno stretto canyon scavato
dal torrente e poi uscendone ancora erto per
dare respiro in una sorta di conca dove
sorge il rifugio Elena, che noi ci lasciamo
sulla sinistra: la civiltà della Val Ferret
é ormai in basso alle nostre spalle, a lato,
oltre il rifugio, siamo a pari quota con la
spettacolare lingua gelata del Pré de Bar e
avanti, alzando la testa, il lungo convoglio
di anime pellegrine scompare nelle infinite
altezze. Ancora una volta con la mia
andatura lenta ma inesorabile (sarà il
tratto con la media piú bassa di tutto il
trail, 25 minuti a Km) arrivo senza soste a
godermi lo spettacolare tramonto al confine
tra Italia e Svizzera: voltandomi posso
ripercorre in un attimo tutto il tragitto
fatto dal sorgere, Col de la Seigne, al
calare del sole; guardando avanti mi aspetta
la dolce discesa della Val Ferret svizzera,
nel Canton Vallese.
Grazie alla facilità del sentiero dal fondo
morbido e non troppo sassoso che attraversa
gli sterminati pascoli ed alla sua pendenza
non troppo pronunciata, é la prima volta in
vita mia che superati i 100Km di gara riesco
a correre per tratti di alcune decine di
minuti. Supero di slancio l’alpeggio di La
Peule e piego decisamente a sinistra, in
direzione nord, sotto lo sguardo
bonariamente comprensivo delle mucche, il
cui incessante scampanio costituisce un
perfetto sottofondo musicale: sono infatti
pervaso di una bucolica gioia, mi sento un
leopardiano donzello od un pascoliano
Valentino, piuttosto che un arrembante Rocky
Balboa.
Dopo un lungo tratto panoramico percorso in
quota, a “spiezzarmi in due” ci pensa peró
la ripida discesa che conduce al fondo valle
sull’argine della Drance de Ferret, che mi
ostino a correre nonostante le gambe brucino
ed i piedi comincino a far male; sono cosí
costretto, senza rincrescermene troppo, a
camminare quasi interamente sia il lungo
stradone sterrato che lo costeggia sulla
riva sinistra sia il Km di asfalto che, una
volta attraversatolo, conduce al ristoro
della Fouly (1500m di quota), dove giungo
poco prima delle 21, con oltre un’ora e
mezza di vantaggio sul cancello orario.
Ho forte dolore ai piedi e appena seduto mi
tolgo le scarpe per massaggiarli, provando
un indicibile sollievo; prendo anche un
antidolorifico che spero faccia effetto per
le prossime ore. Nonostante la situazione
sia incoraggiante ed ormai resti da
percorrere soltanto un normale ultratrail di
60Km, avverto distintamente che il buonumore
che mi aveva accompagnato da Courmayeur in
poi sta svanendo, offuscato dall’oscurità
che é scesa d’intorno: sono già passate 27
ore di gara, non ho mai dormito e un’altra
intera notte mi attende. Verificato che al
prossimo ristoro sarà presente anche una
zona attrezzata con brande, decido di
provare a raggiungerla e riparto senza
distendermi.
Il percorso é ancora a favore lungo il
fondovalle e, quasi totalmente scomparso il
mal di piedi, riesco ancora a corricchiare
alcuni tratti; mi sento peró sempre piú
estraniato ed incapace di concentrarmi sul
tracciato o qualsiasi altro pensiero, fin
quando gli occhi non ne vogliono piú sentire
di rimaner aperti. Dopo alcuni passaggi
tecnici per superare dei canaloni che mi
ridanno momentaneamente concentrazione,
raggiungo un tratto alberato dove l’erba non
é troppo umida e, senza neppure indossare la
giacca, mi stendo supino sul ciglio
spengendo la frontale e chiudendo gli occhi.
In realtà non riesco a dormire nel vero
senso della parola (ogni volta che controllo
l’orologio sono passati pochi minuti dalla
volta precedente), comunque mi rimetto in
piedi dopo un quarto d’ora e, se non proprio
riposato, sento che almeno gli attacchi di
sonno sono spariti. Mi trovo cosí a
percorrere un dedalo di strade asfaltate
secondarie che uniscono villette e chalet
sparpagliati ovunque; dopo un inaspettato
ristoro idrico costituito da una botte piena
d’acqua in mezzo ad un quadrivio,
attraversata la strada principale le
abitazioni diventano piú fitte e nel
giardino di una di esse dei magnifici
supporters hanno approntato un graditissimo
ristoro a base di caffé caldo che, sorbito
con gustosa lentezza, mi fa rinascere a
nuova vita.
Superati altri caratteristici villaggetti
con case in legno e pietra, la discesa
termina ad Issert, poco superiore ai 1000m
di altitudine, dove mi siedo su una panchina
e controvoglia mi tolgo lo zaino per
sostituire la frontale che si sta scaricando
con l’altra di riserva ma, resomi conto dopo
un centinaio di metri che questa fa ancor
meno luce, sono costretto a metter
nuovamente sottosopra lo zaino appena
rifatto per cercare le pile di riserva.
Ripartito per affrontare i 400m di
dislivello che ci separano dal ristoro di
Champex Lac, il sentiero che sale attraverso
un bosco di conifere é rischiarato a giorno,
non so quanto per merito delle batterie
nuove e quanto grazie all’autoluminescenza
del furente sottoscritto, le cui
maledizioni, una volta esaurita l’agiografia
da calendario, sono arrivate fino ad
Alessandro Volta.
Nonostante tutto ho mantenuto un’ora e mezza
di vantaggio sul cancello e cosí, come
preventivato, libero i piedi nuovamente
sofferenti da scarpe e calzini, stendendomi
beatamente su uno dei pochi materassini
rimasti liberi, avviluppato in una calda
coperta di lana. Anche questa volta, pur non
dormendo, avverto ad ogni minuto che passa i
benefici effetti del riposo cosicché, dopo
che ne sono trascorsi una ventina, procedo
con il nuovo bendaggio dei mignolini (questa
volta entrambi un po’ pigiati), unzione dei
piedi e cambio calzini. Bevuto e mangiato
senza badare a spese, quando riparto poco
prima delle due di notte mi sono rimasti
ancora 40 minuti di margine.
Costeggio per alcune centinaia di metri il
lago ed esco dall’abitato per una leggera
salita, lasciando definitivamente alle
spalle la Val Ferret ed entrando nella
piccola Val d’Arpette, attraverso un bosco
che degrada dolcemente verso Pian de l’Au.
Adesso mi aspetta il primo dei tre denti
finali, circa 7-800m di dislivello ciascuno;
visto sull’altimetria il primo sembra essere
forse il piú abbordabile e mi sento
confortato dal commento sulla relativa
facilità del percorso che il giorno prima
della partenza mi aveva fatto Chiara
Lorenzini, giunta al traguardo della
versione corta del trail che ricalca gli
ultimi 50Km dell’UTMB .... ahimé non
fedelmente come pensavo! Salendo leggermente
su un traverso lungo il pendio entriamo in
una zona sempre piú selvaggia, la piccola
valle disabitata formata dal Durnand de la
Jure, di cui guadiamo, attraverso passaggi
piuttosto tecnici, i numerosi ruscelli
costitutivi. A questo punto pieghiamo a
sinistra ed attraverso un sentiero, se tale
si puó chiamare, risaliamo praticamente a
dritto il costone della montagna, sfrascando
tra una fitta vegetazione ed arrampicandosi
vicino alla verticale tra scalini di roccia.
Non so dire quanto questa vera e propria
scalata sia durata, ma so per certo che, se
ero partito ancora un po’ intontito dal
sonno, mi ritrovo in cima ad un pianoro a
pascolo con gli occhi sbarrati per lo shock.
Dopo circa 2 Km pianeggianti su un lungo
traverso tracciato dalle mucche al pascolo,
ci ricongiungiamo con il percorso dell’OCC,
il trail corto, e continuando ad aggirare il
monte de la Bovine raggiungiamo in breve il
Col du Portalo, da dove scendiamo prima
verso lo chalet de la Giète (controllo
orario) e successivamente per una ripida e
lunga discesa tra i larici al Col de la
Forclaz, il valico della strada asfaltata
che collega Martigny, nell’alta valle del
Rodano, con la Francia verso Vallorcine e
Chamonix. Dopo un tratto pianeggiante
affacciato sulla valle del Trient, scendiamo
ancora verso il fondovalle ed attraversata
la statale con un cavalcavia, ci buttiamo a
capofitto verso l’omonimo paese di cui si
vedono ormai vicine le case. Si sta facendo
giorno, mancano solo una trentina di Km alla
fine e quando pregusto già un tonificante
riposo al ristoro ormai prossimo, ecco che
avviene la potenziale tragedia: non so dire
se per una pietra smossa od una radice la
caviglia destra cede ed avverto la dolorosa
fitta della piú classica delle storte; evito
di cadere facendo un paio di passi a gamba
zoppa sul sinistro e, seppur preda di
terrorizzata apprensione, decido
istantaneamente di continuare a corricchiare
appoggiando nuovamente il destro per
verificare l’entità dell’infortunio.
Fortunatamente il dolore ad ogni passo
diminuisce, fino a scomparire del tutto
quando faccio ingresso al ristoro di Trient
a 1300m di quota, poco dopo le 6 del mattino
e con quasi 2 ore di vantaggio sulla
barriera oraria.
Prima di rifocillarmi passo diversi minuti a
massaggiarmi i piedi, lenendo con successo
il dolore e riparto poco prima delle 7.
Attraversato il torrente comincia da subito
la penultima salita, che scala il fianco
della montagna con lunghe e ripide
diagonali. Anche questa volta riesco a
tenere un passo apparentemente lento
all’inizio ma che, rimanendo costante per
piú di un’ora, farà da traino ad un
gruppetto di ragazzi francesi che in cima mi
ringrazieranno. Nonostante sia già pieno
giorno, la cronica mancanza di sonno si
manifesta con un blando principio di
allucinazioni, che mi fanno apparire ogni
50-100 metri i tronchi degli alberi lungo il
sentiero nel bosco come degli chalet con
tanto di veranda, rimanendo ogni volta
stupito, quasi contrariato, nel verificare
la loro effettiva inesistenza quando li
raggiungo. Tento di vedere il lato positivo
della faccenda e mi sento rincuorato dal
fatto di non essere inseguito né da panda
giganti né da leoni bianchi. Superato il Pas
des Moutons e giunto nell’ampia zona a
pascolo che sale assai dolcemente fino
all’alpeggio di Catogne a 2000m di quota
(controllo orario) i campanacci delle mucche
ed il sole che ormai picchia diretto in
testa dissolvono questo nebuloso stato e mi
fanno tornare definitivamente cosciente. Si
scende per un breve tratto costeggiando il
Nant de Catogne e, percorso un pianoro con
l’alpeggio in rovina della Grand Jeur,
rientriamo in Francia passando sotto una
delle cabinovie del comprensorio sciistico
de la Balme. Attraverso ripide discese in
sentieri immersi nel bosco che si
intersecano con stradoni piú larghi e
percorrendo le ultime centinaia di metri
lungo una pista da sci, giungo a Vallorcine,
1250m di quota, alle 10 del mattino: 150Km
sono alle spalle, ne mancano 20 al traguardo
ed ho ancora un’ora ed un quarto di margine.
Ne sfrutto mezz’ora per l’ormai
indispensabile massaggio ai piedi ed il
rituale rifocillamento, condito
dall’assunzione di un secondo antidolorifico
a piú di otto ore di distanza dal
precedente, con lo scopo di rendermi piú
piacevoli possibili queste ultime ore. É
un’assolata domenica e fuori dall’area
ristoro si é radunata una discreta folla di
accompagnatori o semplici curiosi che non
cessano di incoraggiare chiunque. Anche noi
trailer superstiti, seppur stravolti dalla
fatica, siamo abbastanza euforici e sotto il
tendone c’é una vivace animazione che non
vedevo dai rifornimenti della prima notte.
Afferro i bastoncini e riprendo il cammino
lungo una striscia di prato falciato che
corre tra la ferrovia ed il torrente. Dopo
alcune centinaia di metri ho la sensazione
che qualcosa sia diverso e finalmente, con
isterico disappunto, mi rendo conto come i
bastoncini che ho in mano non siano i miei.
Faccio per tornare indietro, quando mi viene
in mente che magari i miei sono già stati
presi da qualcun altro; tentenno per un
minuto o due e, deciso a continuare comunque
visto che anche questi non sono cosí male,
mi sento chiamare “Ehi amigo!”: un allegro
spagnolo mi viene incontro tutto pimpante
dicendomi che quei bastoncini sono i suoi e
mi fa vedere il segno di riconoscimento che
vi ha apposto, spiegandomi come gli sia
capitato altre volte di averli scambiati. Il
fatto é che lui pensa di aver preso i miei,
ma in realtà quelli che mi dà sono assai piú
corti e mal ridotti; vedendo la mia faccia
sconsolata capisce immediatamente che sono
caduto dalla padella nella brace e gli
spiego come i miei, regolati in altezza piú
o meno come i suoi, hanno un particolare e
vistoso tipo di bloccaggio, al che lui dice
di averli visti ad un polacco che sta
arrivando proprio in quel momento: quando
entrambi lo accerchiamo chiedendogli se
siano effetivamente i suoi, questi se li
stringe al petto e risponde piuttosto
stizzito “Of course!”. Sfiorata la crisi
internazionale, ci salutiamo tutti e tre
amichevolmente e proseguiamo per la nostra
strada. Non riesco a capacitarmi di come non
riesca a terminare un trail con i bastoncini
e, per quanto mi sforzi di prenderla a
ridere, sono assalito da un cupo rancore nei
confronti di un ipotetico nanerottolo od una
minuta signora che adesso si trova a
racchettare con due pertiche, senza peraltro
prendere in considerazione che possa esser
stato un mio errore a generare questa
vorticosa escalation. Ho l’impressione di
stare piuttosto bene, senza particolari
dolori e con sufficiente forza residua,
eppure nei quattro Km di leggera salita su
un comodissimo stradone dal fondo erboso non
raggiungo nessuno ed anzi vengo sorpassato
da molti trailer, non perché corrano, ma
semplicemente perché camminano piú
velocemente. Mentre continuo a rimuginare
sulle racchette smarrite, mi trovo in uno
stato di incosciente svogliatezza, recettore
passivamente indispettito degli stimoli
esterni: in una parola, come solo l’idioma
natio sa magnificamente descrivere, sono
sfavato!
Raggiunto il Col des Montets, dove la
statale da Vallorcine comincia a scendere
nella valle dell’Arve verso Argentière, il
percorso dell’UTMB compie un’altra ferale
deviazione rispetto al tracciato del trail
corto: attraversato l’asfalto mi trovo
davanti ad una parete piú o meno verticale
che scompare nell’empireo, brulicante a
tutti i livelli di persone che é difficile
intuire quale strada abbiano compiuto per
trovarvisi. In due Km scarsi bisogna salire
di 600 metri, per di piú sotto un torrido
sole. Improvvisamente mi assale il dubbio,
quasi il terrore direi, di non farcela a
raggiungere in tempo il prossimo cancello,
l’ultimo prima del traguardo. Alla faccia
del fairplay, la paura si trasforma
istantaneamente in rancoroso agonismo nei
confronti di coloro che mi hanno sinora
sorpassato e continuano a farlo all’attacco
delle prime rampe; il piano é molto
semplice: affrontare con passo lento ma
inesorabile anche quest’ultima erta senza
mai fermarsi! A caricarmi ulteriormente ci
pensa un trailer di blu vestito che, per
sopravanzarmi nel single track, mi spintona
sino a farmi quasi inciampare; tiene un
passo che é del tutto anacronistico rispetto
alla posizione in cui navighiamo e in pochi
minuti si trova già un paio di tornanti
davanti a me. Identificato l’obiettivo, mi
concentro sulla mia andatura, usando i
bastoni mignon fino a piegarli nei tratti
piú impervi ed approfittando per dare un
sorso di acqua e sali ove la pendenza lo
consenta. Via via che sfilo trailer fermi
sul ciglio del sentiero, nei miei timpani
risuonano sempre piú forti gli squilli di
tromba della colonna sonora di Rocky, fin
quando diventano assordanti alla ricomparsa
all’orizzonte dello Speedy Gonzales blu, che
interrompe adesso l’ascesa con soste brevi
ma sempre piú frequenti. Mentre agli occhi
dei molti escursionisti sul sentiero appaio
probabilmente stravolto né piú né meno degli
altri miei colleghi, io mi vedo invece con
un feroce ghigno stampato in faccia
all’ombra del cappello. Il sadico godimento
diventa pura libidine nel momento in cui,
raggiuntolo e spostatomi di lato per
cominciare il sorpasso (con queste pendenze
siamo nella tempistica di due TIR a pieno
carico che si affiancano in Appennino),
questi si produce in uno scatto suicida ....
ne farà altri tre e prenderà persino
nuovamente 30-40 metri di vantaggio in un
tratto piú pianeggiante, che peró conduce
agli ultimi micidiali gradoni granitici,
dove il sentiero diventa addirittura
attrezzato con scale in legno ed in ferro.
Alla fine lo trovo fermo che si tiene la
fronte con il gomito appoggiato ad un masso
e, vedendomi passare, é puro artefice della
nemesi di se stesso facendomi notare,
fortuna vuole che sia pure italiano, come
non si aspettasse questa salita cosí dura.
Servito su un piatto d’argento, non gli
risparmio il colpo di grazia e, abbracciando
teatralmente la parete nord delle Grandes
Jurasses ed il Mer de Glace che ne scende
sontuoso, gli ribatto che con un panorama
cosí non si sente neppure la fatica.
Trovando eccessivo gridare “Adriana ti
amo!”, termino soddisfatto la parte piú dura
e raggiungo un tratto pianeggiante dove
addirittura riprendo a correre, saltando da
uno all’altro di questi enormi lastroni di
granito. Nuovamente un po’ di salita
affrontata sempre in rimonta e raggiungo la
Tête aux Vents, 2100m di quota e controllo
orario. Ormai insensatamente galvanizzato,
faccio poche centinaia di metri della
discesa tecnica saltando da un sasso
all’altro come un camoscio sciancato fin
quando, probabilmente terminato l’effetto
dell’antidolorifico, mi riprende un
terribile mal di piedi che mi costringe a
camminare lentamente e fare numerose soste,
nonostante la pendenza favorevole di questo
lungo traverso verso la stazione di arrivo
della funivia della Flégère, ultimo ristoro
idrico e cancello orario, dove giungo
comunque con tre quarti d’ora di margine.
Prima ancora di bere, tolgo le scarpe e mi
massaggio i piedi per almeno 20 minuti,
prendendo controvoglia un altro
antidolorifico per questi ultimi 8Km di
discesa. Sotto il tendone l’afa rende l’aria
irrespirabile, ma é l’unico posto dove sia
presente una panca e non ho alternativa,
pena lo starsene seduto a terra, a dividerla
con un francese che, mentre sta vomitando
per un probabile colpo di calore, viene
prontamente soccorso dallo staff medico
presente. Ormai lasciata da parte ogni
stupida velleità agonistica, sono solidale
con lo sventurato compagno e vorrei
supplicare i medici di dargli qualcosa per
rimettersi in piedi e lasciarlo proseguire:
onestamente non so come sia finita, ma in
cuor mio sento che é andata proprio cosí.
Appena riposto nello zaino il telefono con
cui ho avvertito mia moglie che in un’oretta
e mezzo sarei arrivato (dalla voce non
sembrava stupita di sentirmi ancora vivo),
sto per riprendere il cammino quando noto un
argentino che arriva con un paio di bastoni
dall’aria nostalgicamente familiare; lo
chiamo e lui mi guarda solo per un attimo,
fissando poi lo sguardo sui due mozziconi
che ho tra le mani con il volto che si
illumina sempre piú: non c’é bisogno di
molte parole e, stile “Carramba che
Sorpresa”, ognuno di noi riabbraccia
commosso i suoi cari.
Come spesso accade i piccoli particolari,
nella lora immediata percezione, riescono a
mutare l’umore piú di quanto facciano i
grandi accadimenti, bisognosi di una lenta e
sovente cervellotica elaborazione; me ne
riparto cosí soddisfatto imboccando l’ultima
discesa, in fondo alla quale, 900m piú in
basso, appare ormai a portata di mano la
meta. Lungo il primo Km su una ripida pista
da sci, con lo splendido sfondo delle pareti
nord del massiccio del Bianco, ho modo di
ripercorrere con lo sguardo la prima parte,
fino a Plan de Voza, affrontata ormai due
giorni or sono. In tal modo, corricchiando i
seguenti Km su un agevole sentiero che
scende il crinale seguendo una lunga
diagonale, ho finalmente il tempo di
procedere alla cervellotica elaborazione
dell’impresa, almeno tale la percepisco, che
ho compiuto: il giro del Monte Bianco!
Quando, a meno di 2 Km dal paese, il
sentiero diviene un ampio stradone ombroso
dove si incontrano numerose persone a
passeggio che non lesinano incoraggiamenti e
complimenti, il mio ego si gonfia a
dismisura e, nonostante siano ancora
numerosi i trailer intorno a me, mi sento
come un imperatore romano in trionfo ed
elargisco munificamente strette e battute di
mano, assumendo un incedere ieraticamente
maestoso .... che probabilmente appare agli
astanti come il passo lento e stanco di un
tapascione stravolto dalla fatica.
Percorro le prime strade di Chamonix come in
trance e, superato l’Arve una prima volta,
comincio nuovamente a correre lungo la
Promenade fu Fori, il vialetto che costeggia
il torrente, alternando stati di pudica
commozione ad altri di megalomane
autocelebrazione, al punto di sentirmi un
novello Costantino a Ponte Milvio superando
un nuovo ponte sull’Arve: “In Hoc Signo
Vinces!”. Fatto l’ingresso nel centro
storico, ripiego i bastoncini e tolgo il
cappello, pronto a percorrere gli ultimi
duecento metri per mano ai ragazzi, che
subito riconosco tra la folla applaudirmi
contenti a bordo strada insieme alla mamma;
purtroppo vuoi per un intempestivo attacco
di timidezza vuoi per la vergogna di avere
un babbo cosí lento, non c’é verso di
convincerli a venire insieme a me e cosí,
onde evitare foto all’arrivo con loro
bizzosi che mi inveiscono contro, proseguo
da solo .... ad accompagnarmi alla linea di
arrivo che coincide con quella che era stata
la partenza trovo ancora la musica di
Vangelis, ma questa volta suona soltanto per
me e soltanto dentro la mia testa con
“Momenti di Gloria”: bravó Michele! |