4KVDA   2016

 

Cogne

Km 349,640    D+ m 25000

3 - 9 settembre 2016

 

 

MICHELE  ROSATI

 

 

UNA VACANZA PARTICOLARE

 

Dopo una lunga assenza, dovuta ad una condizione di ignavia letteraria e non solo, mi trovo quasi costretto (non che ciò mi dispiaccia affatto, anzi) alla cronaca di una nuova, magnificentemente folle avventura, che questa volta non è proprio il caso di definire competizione. Grazie all’orgoglio paterno, che confesso si è pavonescamente riverberato sul personale auto compiacimento, la mia settimana di ferie in Valle d’Aosta è divenuta di dominio pubblico con un codazzo di ammirata curiosità da parte di molti colleghi podisti. Ancor prima ci aveva pensato Alfredo Borgogni, a questo punto da considerare mio amico nel mero senso della parola, a celebrarmi con opulenta ironia con la consegna alla partenza della gara dei Risorti di Buonconvento 4K di Tuscan Endurance Food ad honorem, ossia quattro chili di squisite salsicce, che sono già andate ad integrare il fisico emaciato dopo cotanto cimento.

Prima di abbandonare da subito la lettura, perchè terrorizzati per esperienza dalla sua prolissità generalmente proporzionale alla lunghezza del percorso, sappiate che posso pure riassumerla in trentacinque parole: un meraviglioso viaggio tra i picchi delle montagne e gli abissi della mente, un godimento che cresce parallelamente alle sofferenze del corpo che tali non sono, una sorta di infinito amplesso sadomaso con il Tutto.

Se poi, cari lettori anche voi un po’ masochisti,  siete eccitati da una morbosa curiosità ...... tutto ha inizio a Marzo quando, non sorteggiato per partecipare al piú blasonato Tor de Geants, la regione Valle d’Aosta, in feroce polemica con gli organizzatori di quest’ultimo, mi concede la ghiotta occasione organizzando la prima, nonchè probabilmente ultima,  edizione del 4K (quattro quattromila) Val d’Aosta Endurance Trail la settimana prima del Tor: in pratica lo stesso giro in senso contrario, salvo alcune piccole deviazioni che lo rendono una ventina di Km più lungo, per un totale di circa 350Km. Mentre vanno avanti cruente le battaglie legali tra i due enti organizzatori, non meno travagliata è la mia preparazione: dopo un inverno di letargia parto con la 100 Km del Tuscany dove, malgrado la consueta andatura bradipesca, riesco a buscarmi una brutta periostite ed una doppia tendinite .... mali di una gioventù che fu! Ciononostante nei mesi successivi, fatta eccezione per il primo ritiro in carriera ad Amalfi, riesco a terminare le gare lunghe cui ero già iscritto, rigorosamente camminando (del resto anche questo secondo programma) compresa la LUT (Lavaredo Ultra Trail) di fine Giugno. Così rincuorato e finalmente guarito, mi concedo il solito Luglio sabbatico e rientro a fine mese con i 140Km delle Orobie Ultra Trail, battendoci però la bocca, nel senso che vengo fermato al quarantesimo  perchè oltre il limite, e non poco,  del cancello orario. Mi rimane soltanto Agosto e devo trovare una soluzione, non prendendo neppure in considerazione l’idea di rinunciare all’evento; ricordate infatti il Rosati pensiero: una volta pagata l’iscrizione ci si presenta al via ed una volta partiti in qualche modo si arriva .... se Dio vuole (postilla che mio malgrado sono stato costretto ad aggiungere dopo i sopra citati abbandoni). Non potendo affidarmi alle gambe, intraprendo uno studio matto e disperatissimo del percorso su Google Map, mandando a mente dislivelli e medie orarie, percorrendo il giro infinite volte nella mia testa, fino a vedermi di valle in valle finalmente trionfante all’arrivo. Così a coloro che mi chiedono a pochi giorni dalla partenza quali siano le mie sensazioni, rispondo sinceramente che secondo la logica ho possibilità pressochè vicine allo zero, ma che in cuor mio me ne do oltre il 50% .... praticamente sono come il buon Tonino Guerra su cui tante volte avevo fatto della facile ironia quando, per motivi anagrafici insesorabilmente vicino al trapasso, affermava sicuro: “L’ottimismo è il profumo della vita!”  

Quando Venerdi 2 Settembre arrivo di pomeriggio in una tiepida Cogne splendidamente illuminata dal sole, è veramente una gustosa fragranza quella che inalo a pieni polmoni ed è con gaia emozione che ritiro pettorale, borsone per il trasporto cambi alle basi vita, ramponi antighiaccio, GPS satellitare per la localizzazione da parte dell’organizzazione e skin tattoo con l’altimetria del percorso: quante volte mi guarderò nei prossimi giorni gli avambracci, entrambi costellati di impervie salite e cancelli orari! Alla sera, forse contagiato dalla folla assorta e compunta, tale spensierato buon umore svanisce durante il briefing tenuto nel cinema del paese; viene confermato tutto il materiale obbligatorio, compresi i pesanti ramponi che potrebbero servire per un previsto calo delle temperature da domenica e vengono segnalati i punti più pericolosi: mi adombro definitivamente quando nell’elenco compare anche una salita nella quale, vista la pendenza (mai sentito parlare in vita mia di salite pericolose!), si potrebbero generare frane di sassi perniciose per coloro che si trovano a valle ... sembra che il gioco si faccia ancor più duro del previsto! Lo speaker evidentemente si accorge del preoccupato smarrimento che assale la platea e ci sprona alla contentezza facendoci ascoltare in anteprima la colonna sonora scelta per la gara, Alegria (quella dello spettacolo del Cirque du Soleil, cantata in italiano da Francesca Gagnon) .... l’effetto generale è quello di un sorriso stampato in faccia assolutamente nè convinto nè convincente.

Dopo aver cenato con polenta alla valdostana e tagliatelle al cervo, rientro in albergo e, impostomi di tornare all’ottimismo, do una sorta di addio telefonico alla famiglia, infatti ho deciso che terrò il cellulare in modalità aereo per tutto il tempo in cui resterò in gara, conscio del fatto che la moglie potrà verificare la mia posizione real time sul web grazie al GPS di cui sono fornito e in casi eccezionali mandarmi comunicazioni attraverso l’organizzazione: nella mia testa sto trasformando una competizione senza speranza in un’avventurosa esplorazione soltanto mia e piena di suspence, fiducioso che l’eccitante curiosità di scoprire valle dopo valle e montagna dopo montagna sarà il miglior combustibile possibile per i miei muscoli.  Al mattino di sabato mi congedo dal locandiere prenotando un’ulteriore notte per il venerdì venturo; considerato che il tempo massimo scadrà alle 20 mi aspetto di arrivare non prima di mezzogiorno anche nella migliore delle ipotesi, visto che non ho altra possibilità, gli dico, che camminarla tutta di buon passo senza correre quasi mai, al che lui sbarra gli occhi e, con paterno affetto, mi ammonisce: “Correre? Non si azzardi neppure a pensarlo ... già è durissima camminare, correre sarebbe un suicidio!”. Per un momento rimago spiazzato, ma anche questo non riesce a minare la mia convinzione: in fondo mi è stato intimato proprio quello che già avevo deciso di fare.

Il Prato di Sant’Orso è gremito dagli oltre seicento partenti e dai loro familiari, non siamo infatti molti ad essere senza accompagnatori e questo contribuisce ad inorgoglire il mio alter ego esploratore: un uomo solo al cospetto della montagna ... stavo per scrivere contro, ma non avrebbe avuto alcun senso: la natura ti può al massimo concedere benigna tali guasconate, ma se solo si indispettisce un poco non c’è partita, per nessuno! Mi riesce difficile misurare il sentimento comune: non c’è la trepidante eccitazione che ho avvertito alle partenze degli altri grandi ultra trail cui ho partecipato, UTMB in primis; non avverto neppure paura o preoccupazione; è palese tuttavia che siamo tutti compenetrati di una sensazione che più distante dalla quotidiana normalità non si può: un mistico sbigottimento per qualcosa di immenso che ci attende, di cui saremo allo stesso tempo attori principali  artefici della nostra fortuna ed impotenti marionette in balìa di una regia più grande di noi. Il brano Alegria, nuovamente diffuso a tutto volume all’intorno, con la sua ossimorica natura di mesto eroismo trionfale, sia nelle parole sia nella musica, non fa che accrescere in me tale visione escatologica del trail.

Non sono ancora scoccate le nove del mattino quando il via viene dato con tre minuti di anticipo. Il serpentone umano si snoda sull’immenso prato rendendo evidente il fenomeno noto in meccanica come legge di elongazione o di Hooke: in pratica ci allunghiamo a dismisura vista la forza dei primi che se ne partono a corsa, ad onor del vero piuttosto lenta, ed il gruppo degli ultimi, cui ovviamente appartengo, che non solo partono camminando, ma lo fanno pure con una lenta cadenza da corteo funebre o, per usare un’immagine meno macabra e più senese, a guisa di un popolo che entra in Piazza dietro al barbero .... come sempre ci sono coloro che avvertono la necessità di ostentare la loro presunta vicinanza alla famiglia del defunto nel primo caso o fare i pettoni dietro la dirigenza nel secondo, producendosi in entrambi i casi in un improbabile slalom fatto di scatti e sorpassi la cui demenzialità è proporzionale alla lunghezza della manifestazione podistica: nel nostro frangente tende quindi asintoticamente ad infinito! Prova ne è che intorno a me ne ho memorizzati in particolare quattro di questi elementi e, come ho poi ho avuto modo di verificare nella classifica generale on line tramite la foto associata ad ogni concorrente, nessuno di loro è giunto al traguardo.

Per alcuni Km proseguiamo più o meno in piano fino a Valnontey con un folto pubblico che ci applaude ed incoraggia, facendo lentamente dissolvere i miei dubbi sull’accoglienza che sarebbe stata riservata ad una manifestazione apparsa nella maggioranza dei media nazionali come imposta dalla politica per la ripicca personale del governatore della regione Augusto Rollandin che tra l’altro, anche lui partecipante, sembra sopravanzarmi di poco, considerando i numerosi commenti che, rivolti principalmente ai molti altri trailers valligiani, provengono dagli spettatori indigeni con un tenore bonariamente canzonatorio: “ Ragazzi il presidente (classe 1949) vi fa mangiare la polvere a tutti!”.  E di polvere ne ingurgito veramente tanta in fila indiana lungo i dieci Km di tornanti che, passo dopo passo, ci conducono già alla cima Coppi del giro: il Col Loson, un nido d’aquile ad oltre 3300m di altitudine dove valichiamo il massiccio del Gran Paradiso osservandone le vette praticamente dallo stesso livello. Il grandioso spettacolo naturale passa in secondo piano e comunque le emozioni ne sono infinitamente amplificate grazie alle numerose decine, probabilmente oltre un centinaio, di tifosi che vi si sono arrampicati e adesso standosene appollaiati su massi sospesi nel vuoto (c’è a malapena posto per il sentiero su una stretta cengia) ci incitano calorosamente con urla e campanacci. Solo con esperienze del genere capisci appieno perchè anche l’ultimo dei gregari di un Tour de France od un Giro d’Italia si sente appagato di tutte le fatiche transitando tra due ali di folla in cima all’Alpe d’Huez od al Gavia.

La discesa sull’altro versante è decisamente ripida e difficile; in considerazione della fatica che dovrei comunque fare per frenarmi camminando e del fatto che la pendenza non mi spaventa, infrango le consegne ed abbozzo una corsetta che mi permette di scendere abbastanza velocemente ai 1600m della Valsavarenche a Degioz. Sono le due del pomeriggio ed approfitto del ristoro fornitissimo per un lauto pranzetto, intraprendendo di ottimo umore la successiva lunga salita, 13Km e mezzo non troppo ripidi, che conducono nuovamente oltre i 3000m del Col Entrelor. Imboccata la ben più ripida discesa la preparazione a dir poco precaria si manifesta sotto forma di improvvisa spossatezza ed incapacità di recupero. Non ne sono affatto sorpreso (avevo già avuto lo stesso problema un mese prime alle Alpi Orobie), ma questa volta il ben più lento passo minimo consentito gioca a mio favore e, dopo una tranquilla sosta mangiando un po’ di parmigiano sdraiato su un comodo masso levigato, percorro tutta la discesa camminando senza mai forzare fino a Rhemes Notre Dame, nella valle omonima. Al ristoro c’è molta concitazione e sono molti gli ammonimenti sulla durezza della salita che ci aspetta da parte di coloro che sembrano conoscerla bene, vuoi perchè indigeni vuoi perchè reduci delle edizioni passate del Tor in cui l’avevano percorsa in discesa. Onestamente non ne sono turbato più di tanto, avverto anzi sempre più pressante una certa impazienza di scoprire che sarà mai questo Col Fenetre, la famosa salita pericolosa citata anche al briefing della sera precedente. Intanto si è fatto buio e sulle prime rampe già durissime di un erto pascolo all’uscita del paese accendo la frontale, ma è superato questo primo scalino che, percorrendo un vallone un po’ meno ripido, si manifesta nella sua feroce imponenza il mostro: un canalone pressochè verticale, che si stringe fino a non più di 4-5 metri di larghezza nella parte sommitale, inciso da un’infinita serie di tornanti evidenziati dalle frontali di chi mi precede. Stringo con forza i bastoni e tento di alzare lo sguardo il meno possibile mentre lento ma inesorabile avanzo tra le pietre, riuscendo a fermarne alcune che smuovo prima che cadano rovinosamente a valle e trasmettendo le urla di avviso per quelle che , fortunatamente soltanto un paio, tento di inquadrare nel raggio di luce della lampada mentre dall’alto rotolano giù impazzite tagliando tutte le anse del sentiero. Se i piccoli tratti tra le curve sono erti (40 – 50 % almeno), è al tornante stesso che arriva il peggio, perchè per girare su noi stessi dobbiamo prendere di punta il pendio ed in quel mezzo metro siamo costretti ad issarci su alti scaloni per imboccare la diagonale successiva. Fatto sta che mi rivelo ancora un buon scalatore e, senza mai fermarmi, raggiungo lo scollinamento superato soltanto da Elena, una bella spagnola di cui avrò modo di parlare ancora. Dall’altro lato la discesa non è fortunatamente neppur paragonabile al tratto appena fatto e, dopo essermi fermato una ventina di minuti al rifugio Epee dove almeno una decina di concorrenti sconvolti chiedono di passare la notte (immagino quindi si ritirino, visto che non sono consentite più di due ore di sosta al di fuori delle basi vita), proseguo rincuorato e pimpante fino a Valgrisenche, dopo aver percorso 58Km e 5500m di dislivello positivo in poco più di sedici ore accumulando, cosa di basilare importanza, cinque ore di vantaggio sul tempo limite.

La gentile efficienza dei volontari alla base vita allestita al Foyer, una vera e propria struttura alberghiera, è una piacevolissima sorpresa e, nonostante l’affollamento, mi indicano un posto letto libero in una tripla che decido di sfruttare immediatamente, piuttosto che docciarmi o fare i massaggi. Non ho sonno e, con l’adrenalina in corpo, non riuscirei a dormire comunque. Mi impongo però un’oretta defaticante, passata in silenzio al buio con gli occhi chiusi: cerco di pensare e raccogliere le emozioni, ma mi rendo conto di essere ancora in modalità gara, con le celluline grigie che riescono a focalizzarsi soltanto sul prossimo cancello orario di Courmayer ed al tempo che impiegherò per arrivarci .... niente di più sbagliato se vuoi divertirti: e senza divertimento non ci sarà possibilità alcuna, almeno per il sottoscritto, di percorrere altri 300Km. Dopo un paio di piatti di pasta innaffiati con birra, formaggio, affettati e frutta (questa sarà la colazione anche per i prossimi quattro giorni) inizio, intorno alle tre del mattino, il secondo giorno di gara, quello che risulterà essere il più duro sia dal punto di vista fisico sia, soprattutto, da quello mentale. Dopo un lungo tratto su fondovalle, dal ristoro di Planaval cominciamo la lunga salita verso il Col de la Crosatie: salvo alcuni strappi all’inizio non mostra pendenze arcigne, anzi si potrebbe definire dolce lungo un interminabile vallone che conduce al Lac du Fond dove, mentre il cielo si rischiara, la mia testa si avvolge di cupe tenebre, leggendo un cartello per escursionisti che indica ancora tre ore al passo. Nei successivi Km di arrampicata vera che ci riportano intorno ai 3000m, faccio ogni volta poche centinaia di metri che, pervaso di un’apatica spossatezza, mi accascio sui massi a bordo sentiero e contemplo ammirato, ma quasi rinunciatario, il magnifico panorama di creste innevate che cingono la lunga vallata da cui sono salito ed i suoi laghetti alpini. Colgo pure l’occasione per un estremo saluto allo sfortunato collega mai conosciuto, il cinese Yuan Yang ivi morto per una caduta durante una tormenta al Tor del 2013: insieme a me contempla in silenzio il monumento in sua memoria un altro cinese, Li Jiang, in seguito anche lui protagonista suo malgrado del mio racconto. In qualche modo raggiungo il passo e la discesa, come preannunciato al briefing, è un vero e proprio esercizio alpinistico, ripida ed esposta su cresta; riesce a darmi una scossa e seppur non correndo, ci mancherebbe altro, il passo sicuro con l’aiuto dei bastoni senza bisogno di dovermi reggere alle corde mi consente di scendere molto velocemente rispetto a coloro che ho intorno, già pregustando il ristoro di Promoud che distinguo nettamente in un pianoro alla base del ghiaione. È però un fuoco di paglia, perchè appena finita la discesa devo ancora fermarmi per rifiatare durante i trecento metri di salita che mi separano dal ristoro, in cui sosto per almeno mezz’ora dimenticandovi pure il berretto, e non so quante altre volte ancora scalando i gradoni di roccia del succesivo colle di Passo Alto, fors’anche nei 3-4 Km che scendono al rifugio Deffeyes, dove esausto mi stendo sul prato antistante e perdo letteralmente conoscenza per un’ora buona, riparandomi alla meno peggio dal forte vento che si e’ alzato.

Rifiato poi lungo i dieci Km di facile discesa verso la Thuile, percorsi ad una lentezza imbarazzante. All’uscita del ristoro, dove sprofondo per una ventina di minuti su una comoda poltrona, la situazione climatica è definitivamente cambiata: un forte vento intriso di umidità ammassa densi nuvoloni neri sulle montagne che ancora devo valicare per raggiungere Courmayeur. Discutendo del tempo con quello che sembra essere un veterano del Tor e conoscere a menadito il percorso, egli si dice convinto che con questo vento non pioverà nelle ore successive: infatti, appena rientrati nel sentiero corretto dopo aver sbagliato strada all’uscita del paese, comincia a piovere. Non del tutto certo di aver scelto il giusto mentore, che prima allunga inopinatamente in salita e poi raggiungo alla baita de la Youla, ultimo provvidenziale ristoro prima del Col de l’Arp, gli chiedo comunque se sia il caso vestirsi pesanti come vedo lui fare. Questa volta mi dà la dritta giusta, dicendomi che se prende il freddo in cima al passo mentre siamo bagnati, non si riesce ad andare avanti: tanto mi basta e così indosso pile, giacca antipioggia, pantaloni impermeabili antivento e guanti caldi con sopra quelli di gomma da lavapiatti per non far passare l’acqua. Intanto si è fatto buio e percorro gli ultimi metri di salita su un sentiero che si snoda tra i pascoli con la frontale accesa la quale, quando si dice la precisione, decide di spengersi proprio sulla sommità del passo sferzato da pioggia e vento; tiro fuori l’altra lampada che avevo oculatamente lasciato a portata di mano ma che a sua volta non vuol saperne di accendersi: seduto su un masso, con la pressione arteriosa pericolosamente in ascesa, l’ultimo dei miei problemi è il freddo, ma non sembra così per i numerosi concorrenti cui chiedo di illuminarmi durante le operazioni di sostituzione delle batterie e che passano dritto dicendo che c’è da sentirsi male a stare lì fermi .... ora non sono nello spirito giusto per fare dell’ironia rispondendo che invece a me non sembrava male ed anche piuttosto panoramico per passarci la notte, mi interrogo piuttosto sul famoso spirito di solidarietà tra trailers, che finalmente si materializza in una coppia di amici che si fermano e mi assistono con la loro frontale durante l’operazione: ringrazio tanto calorosamente loro quanto in cuor mio, con la misericordia che mi contraddistingue, auguro vivamente a coloro che non lo hanno fatto le peggiori disgrazie.

Il vero calvario è però la lunga, facile discesa verso Courmayeur, dove mi sento come un otre floscio a cui viene fatto il vuoto spinto: mi fermo più volte a sedere ed addirittura anche sul marciapiede dentro il paese, lungo l’infinito Km che mi separa dalla base vita allestita nella caserma degli Alpini. I gentilissimi volontari mi fanno trovare come sempre il borsone pronto, ma ho a malapena la forza di raggiungere il tendone dove è stato preparato il dormitorio, cambiarmi la maglia, stender alla meno peggio i vestiti bagnati e buttarmi sulla branda con una coperta troppo corta per ripararmi contemporaneamente piedi e  torace dai freddi spifferi che entrano. Dopo un’ora e mezza passata senza chiudere occhio tra i catarrosi spasmi di una brutta bronchite che sembro essermi buscato, decido che se devo proprio morire sarà molto più dignitoso farlo lungo il percorso. Sistemo quindi le fasciature dei piedi, collaudo entrambe le frontali, colazione abbondante ed un po’ prima delle tre del mattino mi incammino verso il rifugio Bertone. Ho ancora ben inciso nella mente come l’anno prima avessi percorso di buon passo l’erta sotto un sole infuocato, al giro di boa dell’UTMB; questa volta è notte, sporadicamente continua a cadere una leggera pioggerellina ma, corsi e ricorsi storici, uscito proprio come allora più da un calvario che da un ristoro, mentre lentamente arranco in salita mi sento pervadere, se non proprio dall’ottimismo, da una quieta speranza. Sorbita una calda zuppa al rifugio, proseguo sul magnifico affaccio della Val Ferret dove, per quanto avvolto dalle nubi in una tetra oscurità, ben avverto il severo sguardo del Bianco, con le sue guglie ed i suoi ghiacciai che scortano il mio onirico cammino. Mi si chiudono gli occhi e non posso fare a meno di sdraiarmi sull’erba bagnata raggomitolato su me stesso in posizione fetale; probabilmente non dormo per più di dieci minuti, ma non si tratta semplicemente di un sonno ristoratore: è un taumaturgico cambio di dimensione spazio-temporale. Al risveglio mi trovo in una realtà parallela. Superate le 44 ore dal momento della partenza, ad appena un terzo del percorso, il mio fisico non particolarmente dotato ha dato tutto quello poteva in una gara di endurance, quindi è la mia testa, come entità autonoma e non minimamente spinta da una volontà cosciente, a cambiare modalità.  La mia gara, se mai si fosse potuta definire tale, è terminata; comincia un’avventurosa esplorazione senza una mèta precisa, che si autoalimenta con la trepidante attesa di ciò che andrò a scoprire passo dopo passo: comincia il divertimento ..... “comincia un mondo un mondo diverso ma fatto di sesso chi vivrà vedrà”!

Raggiunto il rifugio Bonatti, dove finalmente dormo di gusto per mezz’ora, abbandono il tratto comune all’UTMB e comincio la salita verso il mitico Col di Malatrà, una stretta fessura nella roccia a 2900m di altitudine da cui prendo commiato dalla val Ferret ed il Monte bianco e do il benvenuto al Grand Combin mentre, dopo un ripido ma breve tratto in discesa attrezzato con corde, raggiungo il rifugio Frassati e proseguo tra ampi pascoli congestionati dal traffico delle mandrie al rientro dagli alti alpeggi estivi: il continuo scampanio infonde allegria ed il tempo scorre veloce fino a Saint Rhemy.  Qui un bel ristoro è allestito nel centro del paese ed ogni trailer è accolto al suo arrivo e salutato alla sua partenza dal fragoroso scampanio di un gioviale volontario che si divide tra i campanacci ed una padella dove fa saltare, praticamente espressa, una gustosa pasta al pomodoro che non manco di assaggiare numerose volte; unico neo è la mancanza di birra, cui fortunatamente provvede acquistandola in un bar vicino Graziano, il marito accompagnatore di Ermanna, trailer amica di amici, con la quale faremo diversi tratti insieme.

Poco dopo esser ripartito sono nuovamente colto da una crisi di sonno e mi stendo a bordo strada per un ulteriore quarto d’ora .... d’altronde, per quanto particolare, è una vacanza ed in ferie bisogna rilassarsi. Il vero momento godereccio arriva però di lì ad un paio di ore, quando percorsi una decina di km con dolci saliscendi ad un’andatura decisamente sostenuta arrivo a Ponteille Desot, dove dovrebbe esserci un ristoro. Un inconfondibile odore di carne grigliata “come il canto delle sirene di Ulisse mi incatena”, guidandomi ad un braciere ormai quasi spento che tiene in caldo succulente costole di maiale, giusto all’esterno di una casupola che si rivela essere il punto di rifornimento. All’interno ci sono quattro volontari, una coppia matura e due allegri giovanotti intenti a tagliare a pezzetti un’enorme forma di fontina,  su un tavolo colmo di bottiglie di vino, alcune già scolate altre ancora da stappare, vicino ad una cucina economica con su un pentolone di polenta ... che sia morto ed abbia avuto inopinatamente adito ad un paradiso pagano? Mi metto comodo ed il tempo scorre piacevolmente conversando con i volontari ed  i trailer che via via si avvicendano, arrivando e ripartendo, mentre io, piedi piantati sotto il tavolo, non ci penso neppure a smuovermi tra  un cucchiaio di polenta con il formaggio fuso, un sorso di prosecco ed una sgranocchiata alle costoline. Quando la signora, rialzandomi, nota in me una certa pesantezza mi informa che nell’altra stanza c’e anche un letto: ormai provo il pacchetto “all inclusive” con mini pennichella, caffè appena fatto ed ammazzino. È con vivo rammarico che prendo commiato dai volontari e da un quartetto di simpatici amici della Val Sesia che lascio a gozzovigliare con Elena, la bella e  gioviale scalatrice spagnola, affrontando sul far della sera le ripide rampe del Col de Champillon, sferzato da forti raffiche di vento che a volte mi fanno vacillare. Quasi al culmine sono raggiunto da un quintetto, i quattro amici  e la spagnola che, guarda caso, in testa al plotoncino fa da elemento trainante; capita l’antifona mi faccio sfilare solo da lei e mi inserisco rapido alle sue spalle, tra i sordi mugugni di protesta degli altri: dolce adesso si fa il salire, allietato dal deja vu della bicilindrica Ducati (i più affezionati forse ricorderanno dal racconto del Malandrino 2013)  .....  che accompagna ogni colpo di racchetta con un tanto perfetto quanto conturbante movimento biella-manovella del lato B. I 1300 metri di discesa dai 2700 del colle scorrono via veloci, praticamente quasi non mi fermo al rifugio Letey e proseguo con la frontale accesa fino ad Ollomont, dove faccio ingresso nella terza base vita intorno alle nove e mezza di sera.

Le operazioni sono ormai divenute automatismi: cambio della maglia e in branda il prima possibile; il fatto che le luci siano inopinatamente accese nell’area dormitorio non mi impedisce un sonno immediato e pure beato, non fosse per i fastidiosi colpi di tosse dovuti alla bronchite che sembra peggiorata ancora; all’ennesimo spasmo controllo l’orologio e, verificato che siamo già alle prime ore del martedì, mi sento pronto, quasi ansioso direi, di continuare il viaggio. Da Oyace, altra località della Valpelline dove è posto il ristoro successivo, mi dividono i 12Km del Col Bruson che, non so bene per quale motivo, avevo sottovalutato sin dallo studio a tavolino del percorso: ci pensano i primi Km ripidissimi su uno stradone carrozzabile e poi, più in quota, le pietraie di un sentiero a mala pena riconoscibile a farmi definitivamente capire come su questo percorso le salite facili non siano contemplate. Sta così già albeggiando quando faccio il mio ingresso nella palestra del paese; devo aspettare qualche minuto per avere il mio turno di riposo su uno dei materassini  presi letteralmente d’assalto dai miei colleghi, probabilmente concordi sulla durezza del colle appena valicato.

Riprendo il viaggio percorrendo l’interminabile vallone che porta verso il col Vessonaz  .... ricordo ancora distintamente il tratto in discesa per attraversare  il torrente Buthier, la salita nel bosco, il lungo e gelido fondovalle dove il sole che illumina le vette all’intorno non ne vuol sapere di trapelare, ma ora come allora avverto solo una progressione spaziale cui non sono capace di associarne una temporale: da qui in poi l’alternarsi del giorno alla notte  sarà il mio unico orologio biologico. Ormai, novello Dante nella Vita Nova, dal risveglio del giorno precedente sono o almeno mi sento diverso; per quanto l’andatura sempre più pesante sembri suggerire il contrario, mi sento sempre più levitare in un’estatica beatitudine durante il compimento dell’ineluttabile karma: passo dopo passo alla mèta. Nonostante la levitazione estatica faccia obiettivamente fatica a contrastare la gravità fisica delle ultime ripide rampe del colle, mi ritrovo nuovamente a 2800m e, rimanendo sempre in quota, in un saliscendi continuo tra petrosi traversi sottocosta e sentieri più facili, supero colli e rifugi (degno di nota il Cuney, con a lato il santuario mariano più alto d’Europa), vedendo lentamente, molto lentamente, avvicinarsi all’orizzonte il Cervino ed il massiccio del Rosa.

Ridisceso quindi nel Vallone Saint Barthelemy, a 2000m di quota percepisco come il clima sia decisamente cambiato, con il sole caldo che ha preso il sopravvento sui gelidi spifferi degli ultimi due giorni. Nonostante ciò la mia bronchite va sempre peggio e, raggiunto il rifugio Magià dove è allestito anche il controllo medico, decido di farmi visitare: la faccia dell’esperto medico sportivo che mi ascolta non fa presagire nulla di buono ed infatti mi comunica che un polmone è invaso dai catarri mentre l’altro è ancora a posto; procede quindi con la misurazione della febbre e la rilevazione della saturazione di ossigeno nel sangue .... leggendo probabilmente la disperazione sul mio volto, mi rassicura che non sarà certo lui ad impedirmi di proseguire anche in considerazione del fatto che, se sono arrivato sin qui, in qualche modo l’ossigeno ai muscoli arriva. Verificato che con un paio di inalazioni di Ventolin l’ossigenazione è decisamente migliorata, redige un certificato e mi raccomanda di sottopormi regolarmente alle visite dei sui colleghi nei vari punti assistenza che incontrerò, visto l’oggettivo rischio di polmonite. Ringraziandolo calorosamente per l’accurato check-up, ma soprattutto in cuor mio per non avermi fermato a scopo cautelare, cerco di fare mente locale sulle mie limitatissime nozioni mediche. Mi vengono in aiuto i grandi romanzi dell’800 e della prima metà del 900 con le descrizioni dei meravigliosi sanatori edificati sui lidi o sui monti: mi convinco quindi, novello Hans Castorp protagonista della “Montagna Incantata”, che un po’ di giorni di fina aria montana non potranno che giovare alla mia salute, altresì messa a rischio dalla virulenta aria viziata dei reparti di malattie infettive dove un medico più scrupoloso potrebbe decidere di spedirmi: zaino in spalla quindi, catarri sputati fuori ansimando in salita e soprattutto niente più pericolose visite mediche!

E di ossigeno me ne occorre e come per affrontare le indiavolate rampe della Fenetre de Tzan, in cui mi imbatto poco dopo aver lasciato il rifugio e che affronto insieme al simpatico quartetto della Val Sesia, questa volta però senza il traino di Elena la spagnola, di cui lamentiamo mesti la mancanza .... e più non lo avremo in quanto, come ho scoperto successivamente, si è ritirata proprio al Magià.  Arrivati tutti e cinque assai provati sulla cima, guardiamo soddisfatti il Cervino, il Rosa e gli altri spettacoli del creato che siamo concordi ripaghino ampiamente della fatica fatta ....è a questo punto che, non ricordo bene chi (non escludendo a priori il sottoscritto), elenca tra le bellezze della natura anche le due cupole marmoree dell’iberico deretano .... tanto basta a catapultarci dalla dimensione anacoretica dell’eremitismo a quella della più triviale convivialità androgena: tralascio i particolari per decenza, ma nella mia mente sento ancora riecheggiare le risate goderecce che ci siamo fatti lassù, tanto da poter ambire magari un giorno anche noi alla Casa Bianca!        

Superato l’ultimo colle di giornata, la Fenetre d’Ersa, mi aspetto una lunga discesa verso Valtournenche ed è invece con crescente disappunto che constato come il saliscendi continui per ancora più di un’ora; si fa così buio mentre giungo al rifugio Barmasse e non alla base vita come avrei sperato. La giornata si è fatta lunga ed avverto urgente il bisogno di un letto; dopo uno spuntino senza neppure mettermi a sedere, riparto come un ossesso pervaso di un nervosismo rabbioso, tanto da sfogarmi pure con un magnifico stambecco che mi si para davanti proprio all’imbocco del sentiero sotto la grande diga di Cignana: piuttosto che fermarmi ad osservarlo da un punto di osservazione così vicino e privilegiato, gli indirizzo frontale e bastoncino contro intimandogli, senza scherzare più di tanto, di cedermi il passo se non vuol finire condimento della mia prossima polenta. Avuta strada libera mi getto in discesa, sfogando con la corsa la mia isteria finchè, quando già  le luci di Valtournenche sono vicine, mi imbatto su un volontario che assiste quello che appare uno spaurito e smarrito concorrente seduto a terra dolorante dopo una caduta. Non c’è bisogno del mio aiuto e tutto quello che posso fare è dargli una delicata pacca sulla spalla, quasi una carezza, sussurando un solidale e misericordioso “coraggio!”. Pur avendo qualcosa di vagamente familiare, lì per lì non riconosco il padre padrone della Valle d’Aosta negli ultimi decenni: il presidente Augusto Rollandin è solo un povero trailer che vede infranto il suo sogno, un indifeso vecchietto bisognoso di aiuto capace di destare in me una profonda commozione ....  contemplazione estatica, gioia, rabbia, commozione si alternano ai loro massimi picchi in un volubile turbinio di stati di animo: probabilmente anche questa instabilità emotiva fa parte del pacchetto grande avventura e poco sonno.

Finalmente intorno alle 22 di martedì sera faccio il mio ingresso alla base vita, dove con la faccia bruciata dal sole suscito a mia volta la pietà di un accompagnatore così gentile e generoso che, ascoltate le mie lamentele di come abbia perso il mio cappellino due giorni fa, mi fa dono del suo con tanto di logo ufficiale della manifestazione. Mi viene difficile descrivere e giustificare l’importanza che questo piccolo grande gesto ha avuto: sarà perchè da quel momento in poi ho avuto anch’io il mio accompagnatore che, ad ogni ristoro dove l’ho incontrato successivamente, mi ha sempre incoraggiato mostrandosi visibilmente contento che fossi ancora in gara, a volte anche con un solo cenno della testa e degli occhi, cui ho sempre risposto togliendomi  deferente il cappellino dal capo ed indicandolo con l’indice dell’altra mano, come a dire: “se sono ancora qui, il merito è suo!”.

Dormo di un profondissimo sonno e mi risveglio a fatica solo dopo alcune ore, anzi probabilmente sono ancora parzialmente addormentato quando, passate da poco le 2 di mercoledì mattina, mi trovo ancora a racchettare in salita: i ricordi sono sfocati e la prima immagine nitida che mi sovviene è la petrosa conca costellata di luci frontali che prima dobbiamo scendere dopo il Col des Fontaines e poi risalire verso il Col di Nana; successivamente l’impegnativo sentiero che scende sottocosta verso il rifugio Grand Tournalin dove del buon caffè caldo mi riconduce finalmente alla vita sensibile. La lunga discesa verso Champoluc corre via facile e tutto sommato veloce, visto che verso le nove del mattino sto già risalendo verso il successivo Col Pinter, che raggiungo ancora una volta insieme ai compagni di merenda del quartetto, dopo l’impegnativa scalata di un erto valloncello detritico. Di nuovo piuttosto provati, per non dire sfiniti, rimaniamo tutti a contemplare estatici la maestosa bellezza del massicio del Rosa che finalmente sembra così vicino davanti a noi ed il Cervino ormai quasi alle spalle, senza abbandonarci questa volta a divagazioni boccaccesche. Io mi devo trattenere più a lungo per l’insorgere di un doloroso mal di piedi che, nonostante i prolungati massaggi, non mi fa godere appieno della discesa tra ameni laghetti e panorami mozzafiato fino al rifugio Alpenzu, dove sono costretto ad un antidolorifico ed un lungo riposo forzato sdraiato sull’erba. Ciononostante giungo alla base vita di Gressoney Saint Jean che è ancora giorno pieno, poco dopo le 16. Prendo in seria considerazione l’ipotesi di una doccia, dopo che passate le mani tra i capelli untuosi mi rendo conto che dopo cinque giorni di sospensione dell’igiene personale debba emanare una fragranza non dissimile al cassonetto dell’organico in piena estate, di cui mi ero a ragione lamentato nei confronti di un trailer tedesco l’anno precedente all’UTMB. Fatto sta che questo rappresenterebbe uno strappo alla ritualità dalla comprovata efficacia, una pericolosa sospensione del karma di cui le sin qui benigne deità potrebbero offendersi: diciamo pure che per scaramanzia decido di non lavarmi via l’unto del Signore. La luce che filtra copiosa dalle finestre del palazzetto dove siamo accampati non mi impedisce di addormentarmi placido sotto la palestra di roccia, forse auto-anestetizzato dai mefitici effluvi. Si conclude così una giornata relativamente breve e senza grandi accadimenti: quella quiete misticamente trascendente che rende il mare una tavola prima che le più tremende procelle si scatenino.....

La sveglia dell’orologio che suona puntuale alle 19:30 è come un richiamo dall’aldilà; con estrema fatica dischiudo un occhio e distinguo gli ultimi bagliori del tramonto; rammento che il cancello orario in uscita è alle 1 del mattino e non ci penso due volte a girarmi dall’altra parte e tornare alle tenebre cui sono ormai ben più abituato .... perchè la notte è la più fida compagna di viaggio di un ultratrailer, quando il tempo sembra fermarsi lasciandoti perennemente in bilico sulla stretta cengia che costeggia il baratro della tua mente, ma in un attimo arriva il nuovo giorno che spazza via tutto e sei costretto a ricominciare da capo.

Sono da poco passate le 22 quando, dopo un lungo tratto sulla statale nel fondovalle, lascio momentaneamente la valle del Lys cominciando a salire sulla sinistra. Dopo un primo tratto nel bosco piuttosto impegnativo, intorno ai 2000 metri di quota faccio il mio ingresso nel fiabesco Vallone di Loo, ambientazione dei prossimi mirabili accadimenti.  Non c’e luna, ma con la frontale spenta riesco comunque a vedere distintamente davanti a me la lunga valle che sale dolcemente, magicamente rischiarata dalla luce delle stelle che ammantano tanto scrupolosamente il firmamento da non lasciarvi neppure una piccola toppa di oscurità.  E allora pensi a quel mondo cui normalmente appartieni e che non è mai stato più distante; pensi alla moglie e ai figli che forse le chiederanno quanto tempo ci mette ad arrivare quel lentone di babbo; pensi agli amici che probabilmente stanno dando una sbirciatina su internet prima di andare a letto per vedere fin dove sei arrivato e magari sono un po’ sorpresi e , perchè no, ammirati di vedere che hai già percorso 250Km; pensi a quanto sia stupido e insensato quello che stai facendo, come del resto lo sono tutte le imprese umane una volta fotografate da questa luce siderea che ne smaschera la fatua vanità. Mentre pensi e ti senti un sommo filosofo, moderno Diogene che cerca l’uomo con la sua frontale, dietro un cespuglio trovi in effetti Li Jiang, ancora uomo sì ma che sembra destinato a far la fine del suo sfortunato connazionale cui avevamo reso omaggio insieme qualche giorno prima sulla Crosatie, visto il convulso tremito che lo scuote mentre avanza a passettini cortissimi. Pochi metri avanti un altro trailer, Alberto, riponendo il telefonino mi dice che ha appena avvertito l’organizzazione sullo stato di salute del cinese che concordiamo essere preoccupante e che lo scorterà al ristoro di Ober Loo poche centinaia di metri avanti. Io mi avvio per allertare i volontari che mi accolgono festanti con un baccano infernale di campanacci ed ogni fragorosa specie di strumenti musicali della cultura Walser: è un’oasi di allegria festaiola completamente decontestualizzata dal compunto misticismo notturno del vallone. Sanno già dell’arrivo di un concorrente in difficoltà e quando giunge per mano ad Alberto lo fanno oggetto di quella che non esito a definire fonoterapia: accolto a suon di scampanellate e strombettate si desta dall’apatia demenziale in cui era caduto e come primo impulso, scambiandomi probabilmente per il suo soccorritore, mi abbraccia sommergendomi di convulsi “thank you”.  Mentre Li viene portato all’interno dell’alpeggio a riscaldarsi, faccio ritorno alle luminose tenebre frastornato da questa scena surreale appena vissuta che, misteri della psiche, mi richiama alla mente quella del falò nel film Amarcord. Non saprei dire per quanto, ispirato dalla coperta di stelle, continui a pontificare sui massimi sistemi, facendomi domande e dandomi risposte di cui Marzullo sarebbe stato entusiasta, fatto sta che ho la sensazione che sia passato molto tempo dall’ultima volta che ho visto una bandierina di segnalazione del percorso. Mi guardo intorno e mi convinco di non potermi essere sbagliato più di tanto: sto percorrendo il fondo di un vallone e l’unica alternativa sarebbe eventualmente essere dall’altro lato del torrente; davanti a me non scorgo frontali all’orizzonte mentre dietro ne vedo una non troppo distante che sta venendo verso di me; si tratta probabilemente di Alberto che decido in ogni caso di aspettare. Quando è ormai a non più di cinquanta metri da me viene raggiunto da una coppia di lumini che avevo visto a loro  volta avvicinarsi negli ultimi minuti, non faccio in tempo a pensare come un po’ di compagnia non guasterà nell’ultimo tratto di salita, che uno dei nuovi arrivati apostrofa amichevolmente Alberto: “Se non lasci quei bastoni ti spezzo le mani!”.  Saltare da Amarcord a Pulp Fiction così repentinamente rischia di minare anche la mia tenuta mentale e così il primo impulso è quello di squagliarmela, ma non riesco a vincere un afflato di altruismo, assai insolito in me, nei confronti di quella persona che, mostrando tanta carità cristiana nel soccorrere il cinese, non poteva certo essere un bieco grassatore di bastoncini. Tentenno ancora un po’ ed alla fine, seppur maledicendomi, decido di intervenire per placare gli animi, imponendomi di non prender parte in ogni caso ad un’eventuale rissa, che appare inevitabile quando ormai a due passi inquadro con la frontale i fiotti di bava che sgorgano dalla bocca di un trailer vicino alla sessantina, spalancata in un orrendo ghigno mentre tenta di strappare con forza le racchette dalle mani di Alberto. Questi gli oppone una sì ferrea passività professando la sua innocenza che, grazie anche allo stretto ovale del cranio completamente calvo, me lo fa sempre più identificare in uno dei venerandi santi martiri effigiati nei mosaici bizantini. Così, ormai devoto seguace di Sant’Alberto Trailer, mi appello con trasporto, quasi implorandolo, all’alienato aggressore affinchè misericordia e ragione alberghino nuovamente in lui .... sortendo lo stesso effetto di dire brutto ad un cane! Piuttosto che aiutarmi a calmarlo il suo compagno, più o meno mio coetaneo, si adopera con tutte le sue forze a spiegarmi come il suo amico abbia avuto esperienze traumatiche nei giorni precedenti, praticamente come se il padrone di un rottweiler che sta sbranando un bambino ti dicesse che d’altronde è stato provocato ed oggi gli girano pure le palle! Finalmente i duellanti riescono a spiegarsi tra loro grazie anche ad un membro dell’organizzazione chiamato a testimoniare telefonicamente su come i bastoni di Angelo, questo il nome dell’indiavolato, fossero stati dati ad Alberto, cui erano spariti i suoi, perchè ritenuti abbandonati. Una volta accertatomi con circospezione di avere in mano proprio i miei bastoncini (visti i trascorsi in materia confesso che per un momento sono stato assalito dall’atroce dubbio), mi incammino prudentemente da solo verso il Col Lasoney ed affronto la difficile discesa, dal fondo assai aspro e roccioso, verso Niel.

Qui l’organizzazione ha posto un ulteriore cancello orario (su cui mantengo ancora un vantaggio di quattro ore)  in quanto, citando le testuali parole del briefing, il tratto seguente è assai severo ed impegnativo e solo le persone in una buona condizione fisica e mentale possono permettersi di affrontarlo senza rischi. Fortunamente un lauto ristoro e qualche battuta scambiata con l’allegra brigata della Val Sesia ivi ritrovata mi strappano dalla pericolosa deriva mistica e mi riconducono momentaneamente alla concretezza del mondo terreno. Dopo un primo strappo in salita e un saliscendi nel bosco, imbocco la bella mulattiera che sale verso il Colle della Vecchia, monumentale opera di ingegneria nella sua parte sommitale: scavata per lunghi  tratti nella roccia viva mi fa proseguire sospeso tra cielo e terra ... allegoria perfettamente calzante anche con lo stato della mia mente che, per farmi viaggiare nell’incorporeo ignoto, è comunque costretta a guidare i miei passi tra le ben concrete pietre.

Invece di scendere nel versante Biellese restiamo in quota, statuine animate di un roccioso presepio che progressivamente sbiancandosi annuncia l’alba. Arrancando a fatica di masso in masso creo il sentiero scegliendo la via che giudico meno disagevole per raggiungere la bandierina di segnalazione successiva, fin quando non ho molte scelte nello scalare la pietraia sottocosta che mi conduce ad una strettissima spaccatura nella roccia, la Crenna du Leui , attraverso cui valico la montagna proprio quando il sole ormai sulla linea dell’orizzonte dipinge tutto di rosa. Sto per tornare tra i vivi e godo della vista degli infiniti picchi che mi lascio alle spalle per trovarne di infiniti nuovi davanti, messi lì ad esorcizzare la fine di questa   fantastica avventura. Mentre scendo il ripido ghiaione dall’altro lato, praticamente da fermo, mi rotolano via i sassi sotto entrambi i piedi, con il risultato che sbatto violentemente il gomito a terra e comincio a scivolare per il ripido pendio, fortunatamente fermato quasi subito da un arbusto spinoso; l’inebetito stupore sembra almeno riuscire ad anestetizzarmi il dolore che pure deve esser pungente, visto che non riesco a piegare il braccio malamente escoriato proprio in prossimità dell’articolazione. Si tratta, forse perchè così brusco, del definitivo risveglio che segna l’uscita da quella realtà parallela lisergicamente sospesa e che non sarò ahimè più capace di compenetrare così a fondo nonostante un’altra notte mi attenda.

Sceso al lago Chiaro, gioiello incastonato tra aspri dirupi, mi faccio medicare la ferita al controllo medico, trattenendo il più possibile gli spasmi bronchitici per non allarmare la dottoressa, ed affronto la nuova scalata al colle di Marmontana per poi ridiscendere e continuare a vagare in questa sterminata aspra pietraia che sembra non finire mai. Giungo così al rifugio della Balma sfinito e, fattomi guidare dai gentilissimi volontari ad una stanza con un lettino, letteralmente vi sprofondo, visto che alcune doghe di legno cedono fragorosamente sotto il peso del mio posteriore che va a toccare direttamente terra, senza però impedirmi di riposare per una buona mezz’ ora quasi richiuso su me stesso. Riapertomi non senza qualche difficoltà faccio un buon pranzo e, percorso al contrario un piccolo tratto da cui ero provenuto, scendo verso il lago Vargno, risalgo, attraverso il fianco della montagna e rieccomi a scalare il duro colletto che finalmente mi porta sul crinale al confine tra Valle d’Aosta e Piemonte, sconfinando persino un po’ nel Biellese, intorno ai 2200 metri di quota. Le nubi in cui mi trovo improvvisamente immerso, sbarrandomi la vista sulla sconfinata pianura alla mia sinistra, sembra vogliano condannarmi in eterno alla montagna.

Dopo un breve ristoro al rifugio Coda, comincio a scendere sul crinale ed esco dalla nube proprio dopo aver ripiegato verso destra scendendo deciso le alte pendici della valle del Lys. Faccio in tempo a godere del ritrovato sole per pochi minuti che una terrificante scena splatter rischia di ricacciarmi definitivamente nelle tenebre. Ancora su un terreno particolarmente aspro raggiungo Thierry, un gioviale ragazzo francese con cui avevo già fatto dei tratti insieme e che adesso procede con estrema difficoltà tra i massi ed alla fine decide di fermarsi e liberare dalla scarpa il piede che evidentemente gli provoca sofferenze non più tollerabili. Gli chiedo come possa aiutarlo al che, rivolgendosi forse più alle divinità che al sottoscritto, mi chiede se dopo 300Km debba essere una stupida unghia a fermarlo, interrompendo il suo doloroso pianto con amare risate isteriche. Cerca qualcosa per fare un bendaggio e allora gli porgo il mio rotolo di cerotto ospedaliero, con cui mi fascio le dita dei piedi ad ogni base vita e che tanto gelosamente custodisco, insieme alle forbicine per tagliarlo; alla vista di quelle piccole lame un bagliore sinistro gli illumina gli occhi: ha trovato l’arma con cui immolarsi al trail nell’estremo sacrificio. Capisco immediatamente le sue intenzioni e tento di dissuaderlo, ma i suoi occhi sono sbarrati su quelle forbicine così come quelli di Angelo lo erano sulle racchette la notte scorsa: una volta ghermitele comincia a scarnirsi orrendamente l’unghia dell’alluce per staccarla dalla carne che non ne vuol sapere di lasciarla andare. Per un po’ resisto ad osservare i fiotti di sangue che schizzano sul masso su cui poggia il piede e ad udire respironi che risuonano sempre più macabri nel festeggiare un altro lembo staccato dopo terribili rantoli di sofferenza affrontata in apnea. Alla fine, raccomandatomi più volte che allerti il soccorso nel caso non ce la faccia a ripartire, gli lascio tutto il mio armamentario sperando che i miei piedi non siano troppo malconci e possano farne a meno nell’ultimo giorno. Confesso che continuando a scendere, tra i pascoli prima e nel bosco poi, più volte si è materializzata nella mia mente la spaventevole immagine di Thierry che si erge sul masso, empia ara di olocausto, brandendo e mostrando al cielo l’unghia strappata grondante sangue come un boia la testa mozzata del condannato.

Giunto al ristoro di Sassa ci pensa l’allegria di Graziano a farmi passare i brutti pensieri e, massaggiandomi i piedi sdraiato sull’erba, decido anch’io di aspettare l’arrivo di Ermanna che sembra essere ormai prossimo. Pur mancando ancora una cinquantina di Km siamo entrambi convinti di avercela ormai fatta e continuiamo allegramente l’infinita discesa verso il fondovalle attraversando i castagneti e le vigne di un paesaggio ormai molto più umanamente accogliente. Graziano ci aspetta ad ogni intersezione del sentiero con la strada e ci immortala in numerosi scatti mentre ci esibiamo in corsette e saltelli alla vispa Teresa. Sempre in modalità Butch Kessidy ed Etta Place con lo spensierato accompagnamento musicale “Raindrops keeps falling on my head”, arriviamo al fiabesco Ponte di Moretta che attraversa la profonda ed oscura gola del Lys, per poi risalire al bel borgo di Perloz dove al ristoro siamo accolti da un’orchestra di campanacci appesi a mo’ di vibrafono su una trave orizzontale.  Il salire ancora verso la Madonna della Guardia piuttosto che scendere a Pont Saint Martin che vediamo ormai 400 metri sotto di noi innervosisce sempre più Ermanna, presa ormai da quella cieca bramosia di arrivare alla base vita che io stesso avevo avuto due sere prima a Valtournenche. Scesi finalmente alla cittadina e superato il celebre ponte romano, sono a volte obbligato a corricchiare per seguire la sua inarrestabile marcia nei noiosi due Km e mezzo perfettamente pianeggianti che ci conducono a Donnas lungo la statale; raggiungiamo così insieme l’ultima base vita alle 20:30 di giovedì sera.

Saluto Ermanna visto che lei ha intenzione di riposare almeno fino a mezzanotte mentre io per le undici vorrei svegliarmi e ripartire. Mi distendo e programmo precauzionalmente la sveglia dell’orologio appunto alle undici ..... quando sono svegliato di soprassalto dal vicino di branda che inciampando mi precipita sopra, penso ad un problema nei cristalli liquidi del mio orologio vedendo solo un 1 nel quadrante, fin quando il datario mi conferma che le una di venerdì mattina sono passate da pochi minuti: mentre questi continua a scusarsi, ringrazio il mio provvido assalitore per avermi evitato ulteriori preoccupazioni con il tempo massimo, poichè al cancello in uscita mancano ancora due ore. Non ho molto tempo per controllare lo stato dei miei piedi, anche perchè non avrei comunque di che curarli, quindi me li ungo ben bene con la pasta di Fissan, cambio i calzini e, sceso dabbasso a fare colazione-cena, mi imbatto in una signora, mi dicono portata da Niel dove si era ritirata, che vaga da una stanza all’altra parlando sommessamente da sola e suscitando la pietosa attenzione degli astanti. Spaventato mi interrogo se potrebbe accedere anche a me, intestardendomi ad andare avanti ad ogni costo, di trovarmi nelle miserabili condizioni in cui ho visto versare diverse persone nelle ultime ore e mi rispondo convintamente di no, almeno fintantochè un barlume di lucidità alberghi in me ....ma questo è d’altronde il punto! Proprio durante tali ragionamenti mi trovo a salutare un pimpante Thierry, già pronto a ripartire, che mi mostra orgoglioso una bella medicazone appena fatta fare all’alluce martoriato e poco più in là scorgo anche il cinese Li che arraffa il cibo a piene mani. Sinceramente felice per loro, ma sempre più incerto in quelle che pensavo fossero mie ferme convinzioni, parto per affrontare l’ultima notte.

Percorro il centro storico di Donnas, calpesto un tratto originale della vecchia via consolare romana, salgo la collinetta dove maestoso si erge il forte di Bard e, superato il pittoresco borgo, risdiscendo alla Dora che attraverso cominciando finalmente a risalire la valle di Champorcher che, dopo quasi trenta Km, mi condurrà dai 300 metri del fondo valle ai 2800 dell’ultimo passo. A parte un po’ di comprensibile mal di piedi, sto abbastanza bene e, complice forse il margine ridottosi sul tempo massimo per la prolungata dormita, penso solo a racchettare il più velocemente possibile, mantenendo un buon passo che mi fa superare di slancio, o quasi, il ristoro di Pontbosset e raggiungere quello di Chardonney al far del giorno. Quattro ore in modalità gara da diversi giorni a questa parte sono, lo confesso, le più noiose e scialbe di tutta la settimana, senza particolari emozioni o deliranti dissertazioni, malgrado l’intrinseca amenità del boscoso fondovalle con il suo impetuoso torrente attraversato più volte su caratteristici e a volte traballanti ponticelli.

Raggiunta Ermanna al ristoro, facciamo nuovamente un tratto insieme. Superati i 1500m di quota siamo nuovamente in un ambiente di alta montagna, anche se la dolcezza dei pascoli di questo sterminato vallone non ha nulla a che vedere con l’aspra rocciosità dei luoghi attraversati il giorno prima. Ormai diamo per scontato il nostro arrivo e ne parliamo come cosa già fatta ma, me ne rendo forse conto solo adesso scrivendo, senza una particolare gioia: soddisfazione indubbiamente sì,  ma non euforica contentezza. Ormai quasi al ristoro del rifugio Dondena, probabilmente provato per l’abuso fisico delle ultime ore, mi accascio stremato al suolo e saluto definitivamente Ermanna approfittando del tiepido sole per un sonnellino ristoratore. Al rifugio trovo Graziano ad attendermi, gentilissimo si premura delle mie condizioni che, gli confesso, sono incredibilmente ottime; ci prendiamo un buon caffè ed ho pure il tempo delle ultime scherzose battute con il quartetto della Val Sesia rilassati al sole. Percorro in solitudine il comodo stradone carrozzabile fino al rifugio Miserin, l’ultimo prima della Fenetre de Champorcher, il passo che ormai appare vicino sopra l’incantevole lago: tutta l’enorme vallata emana un senso di grandiosa eleganza, nonostante una grossa linea elettrificata che, orrida cicatrice, ne abbelisce anzi per contrasto i lineamenti.

Al rifugio ostento allegria ed al gestore, anche lui trailer, che mi dice che di buon passo dovrei impiegare un’oretta scarsa ad arrivare sulla sommità replico impiegandoci quaranta minuti. Sul colle un fotografo mi immortala in almeno venti pose diverse (ne avessi poi ritrovata una di quelle foto!). Sono in cima all’ultimo passo, sotto di me, anche se non si vede, a meno di venti Km di discesa c’è l’arrivo. Devo essere contento per forza! Il forte mal di piedi non mi fa però correre i due Km ripidi, ma tutto sommato agevoli, che portano al rifugio Sogno, ultimo ristoro della gara dove sosto abbondantemente più del necessario. I successivi 5 Km sono in leggerissima discesa, ma ogni quarto d’ora devo fermarmi a riposare; poi una discesa più ripida nel bosco dove i vari escursionisti che trovo mi dicono che a meno di dieci Km c’è Cogne ed allora i dolori sono sempre più forti e faccio sempre più piano, mentre almeno una quindicina di trailer, forse più, mi sfilano. A Lillaz mancano meno di 5 Km, tutti pianeggianti, su un agevole stradone sterrato: ne faccio almeno una buona metà conversando con una coppia di olandesi in vacanza, ma poi loro mi lasciano allungando il passo perchè hanno un appuntamento. L’ultima mezz’ora la passo a ringraziare tutti coloro che incontro e che si complimentano per l’impresa, alcuni in maniera distaccata, quasi di circostanza, ma molti sinceramente ammirati e contenti ..... eppure c’e qualcosa che non va!

Il passaggio sotto lo striscione dell’ arrivo al prato di Sant’Orso da dove ero partito praticamente una settimana prima non è gioiosamente trionfale come quello che mi ero prefigurato ormai da mesi, ma non certo perchè freddo e distaccato come i detrattori della competizione non hanno mancato di sottolineare sui forum (la speaker ha fatto anzi di tutto per stimolarmi, intervistandomi calorosamente) e tantomeno perchè non c’è nessun amico o conoscente a festeggiarmi (avrebbe fatto sicuramente piacere, ma per me è la normalità). Durante una vacanza si può essere contenti divertendosi all’inverosimile e riandarvi poi con la mente sempre con rinnovato piacere, ma nel preciso momento che sta per finire, quando sai che da domani sarai di nuovo dietro la scrivania davanti al mondo da cui eri riuscito a fuggire non puoi non essere carezzato da un’ombra di malinconia ..... i brasiliani la chiamano saudade, nel continente nero si dice mal d’Africa, ad Aosta e dintorni è conosciuto come mal di Tor!