Dopo una
lunga assenza, dovuta ad una condizione di ignavia
letteraria e non solo, mi trovo quasi costretto (non che ciò
mi dispiaccia affatto, anzi) alla cronaca di una nuova,
magnificentemente folle avventura, che questa volta non è
proprio il caso di definire competizione. Grazie
all’orgoglio paterno, che confesso si è pavonescamente
riverberato sul personale auto compiacimento, la mia
settimana di ferie in Valle d’Aosta è divenuta di dominio
pubblico con un codazzo di ammirata curiosità da parte di
molti colleghi podisti. Ancor prima ci aveva pensato Alfredo
Borgogni, a questo punto da considerare mio amico nel mero
senso della parola, a celebrarmi con opulenta ironia con la
consegna alla partenza della gara dei Risorti di
Buonconvento 4K di Tuscan Endurance Food ad honorem, ossia
quattro chili di squisite salsicce, che sono già andate ad
integrare il fisico emaciato dopo cotanto cimento.
Prima di
abbandonare da subito la lettura, perchè terrorizzati per
esperienza dalla sua prolissità generalmente proporzionale
alla lunghezza del percorso, sappiate che posso pure
riassumerla in trentacinque parole: un meraviglioso viaggio
tra i picchi delle montagne e gli abissi della mente, un
godimento che cresce parallelamente alle sofferenze del
corpo che tali non sono, una sorta di infinito amplesso
sadomaso con il Tutto.
Se poi,
cari lettori anche voi un po’ masochisti, siete eccitati da
una morbosa curiosità ...... tutto ha inizio a Marzo quando,
non sorteggiato per partecipare al piú blasonato Tor de
Geants, la regione Valle d’Aosta, in feroce polemica con gli
organizzatori di quest’ultimo, mi concede la ghiotta
occasione organizzando la prima, nonchè probabilmente
ultima, edizione del 4K (quattro quattromila) Val d’Aosta
Endurance Trail la settimana prima del Tor: in pratica lo
stesso giro in senso contrario, salvo alcune piccole
deviazioni che lo rendono una ventina di Km più lungo, per
un totale di circa 350Km. Mentre vanno avanti cruente le
battaglie legali tra i due enti organizzatori, non meno
travagliata è la mia preparazione: dopo un inverno di
letargia parto con la 100 Km del Tuscany dove, malgrado la
consueta andatura bradipesca, riesco a buscarmi una brutta
periostite ed una doppia tendinite .... mali di una gioventù
che fu! Ciononostante nei mesi successivi, fatta eccezione
per il primo ritiro in carriera ad Amalfi, riesco a
terminare le gare lunghe cui ero già iscritto, rigorosamente
camminando (del resto anche questo secondo programma)
compresa la LUT (Lavaredo Ultra Trail) di fine Giugno. Così
rincuorato e finalmente guarito, mi concedo il solito Luglio
sabbatico e rientro a fine mese con i 140Km delle Orobie
Ultra Trail, battendoci però la bocca, nel senso che vengo
fermato al quarantesimo perchè oltre il limite, e non poco,
del cancello orario. Mi rimane soltanto Agosto e devo
trovare una soluzione, non prendendo neppure in
considerazione l’idea di rinunciare all’evento; ricordate
infatti il Rosati pensiero: una volta pagata l’iscrizione ci
si presenta al via ed una volta partiti in qualche modo si
arriva .... se Dio vuole (postilla che mio malgrado sono
stato costretto ad aggiungere dopo i sopra citati
abbandoni). Non potendo affidarmi alle gambe, intraprendo
uno studio matto e disperatissimo del percorso su Google Map,
mandando a mente dislivelli e medie orarie, percorrendo il
giro infinite volte nella mia testa, fino a vedermi di valle
in valle finalmente trionfante all’arrivo. Così a coloro che
mi chiedono a pochi giorni dalla partenza quali siano le mie
sensazioni, rispondo sinceramente che secondo la logica ho
possibilità pressochè vicine allo zero, ma che in cuor mio
me ne do oltre il 50% .... praticamente sono come il buon
Tonino Guerra su cui tante volte avevo fatto della facile
ironia quando, per motivi anagrafici insesorabilmente vicino
al trapasso, affermava sicuro: “L’ottimismo è il profumo
della vita!”
Quando
Venerdi 2 Settembre arrivo di pomeriggio in una tiepida
Cogne splendidamente illuminata dal sole, è veramente una
gustosa fragranza quella che inalo a pieni polmoni ed è con
gaia emozione che ritiro pettorale, borsone per il trasporto
cambi alle basi vita, ramponi antighiaccio, GPS satellitare
per la localizzazione da parte dell’organizzazione e skin
tattoo con l’altimetria del percorso: quante volte mi
guarderò nei prossimi giorni gli avambracci, entrambi
costellati di impervie salite e cancelli orari! Alla sera,
forse contagiato dalla folla assorta e compunta, tale
spensierato buon umore svanisce durante il briefing tenuto
nel cinema del paese; viene confermato tutto il materiale
obbligatorio, compresi i pesanti ramponi che potrebbero
servire per un previsto calo delle temperature da domenica e
vengono segnalati i punti più pericolosi: mi adombro
definitivamente quando nell’elenco compare anche una salita
nella quale, vista la pendenza (mai sentito parlare in vita
mia di salite pericolose!), si potrebbero generare frane di
sassi perniciose per coloro che si trovano a valle ...
sembra che il gioco si faccia ancor più duro del previsto!
Lo speaker evidentemente si accorge del preoccupato
smarrimento che assale la platea e ci sprona alla
contentezza facendoci ascoltare in anteprima la colonna
sonora scelta per la gara, Alegria (quella dello spettacolo
del Cirque du Soleil, cantata in italiano da Francesca
Gagnon) .... l’effetto generale è quello di un sorriso
stampato in faccia assolutamente nè convinto nè convincente.
Dopo aver
cenato con polenta alla valdostana e tagliatelle al cervo,
rientro in albergo e, impostomi di tornare all’ottimismo, do
una sorta di addio telefonico alla famiglia, infatti ho
deciso che terrò il cellulare in modalità aereo per tutto il
tempo in cui resterò in gara, conscio del fatto che la
moglie potrà verificare la mia posizione real time sul web
grazie al GPS di cui sono fornito e in casi eccezionali
mandarmi comunicazioni attraverso l’organizzazione: nella
mia testa sto trasformando una competizione senza speranza
in un’avventurosa esplorazione soltanto mia e piena di
suspence, fiducioso che l’eccitante curiosità di scoprire
valle dopo valle e montagna dopo montagna sarà il miglior
combustibile possibile per i miei muscoli. Al mattino di
sabato mi congedo dal locandiere prenotando un’ulteriore
notte per il venerdì venturo; considerato che il tempo
massimo scadrà alle 20 mi aspetto di arrivare non prima di
mezzogiorno anche nella migliore delle ipotesi, visto che
non ho altra possibilità, gli dico, che camminarla tutta di
buon passo senza correre quasi mai, al che lui sbarra gli
occhi e, con paterno affetto, mi ammonisce: “Correre? Non si
azzardi neppure a pensarlo ... già è durissima camminare,
correre sarebbe un suicidio!”. Per un momento rimago
spiazzato, ma anche questo non riesce a minare la mia
convinzione: in fondo mi è stato intimato proprio quello che
già avevo deciso di fare.
Il Prato
di Sant’Orso è gremito dagli oltre seicento partenti e dai
loro familiari, non siamo infatti molti ad essere senza
accompagnatori e questo contribuisce ad inorgoglire il mio
alter ego esploratore: un uomo solo al cospetto della
montagna ... stavo per scrivere contro, ma non avrebbe avuto
alcun senso: la natura ti può al massimo concedere benigna
tali guasconate, ma se solo si indispettisce un poco non c’è
partita, per nessuno! Mi riesce difficile misurare il
sentimento comune: non c’è la trepidante eccitazione che ho
avvertito alle partenze degli altri grandi ultra trail cui
ho partecipato, UTMB in primis; non avverto neppure paura o
preoccupazione; è palese tuttavia che siamo tutti
compenetrati di una sensazione che più distante dalla
quotidiana normalità non si può: un mistico sbigottimento
per qualcosa di immenso che ci attende, di cui saremo allo
stesso tempo attori principali artefici della nostra
fortuna ed impotenti marionette in balìa di una regia più
grande di noi. Il brano Alegria, nuovamente diffuso a tutto
volume all’intorno, con la sua ossimorica natura di mesto
eroismo trionfale, sia nelle parole sia nella musica, non fa
che accrescere in me tale visione escatologica del trail.
Non sono
ancora scoccate le nove del mattino quando il via viene dato
con tre minuti di anticipo. Il serpentone umano si snoda
sull’immenso prato rendendo evidente il fenomeno noto in
meccanica come legge di elongazione o di Hooke: in pratica
ci allunghiamo a dismisura vista la forza dei primi che se
ne partono a corsa, ad onor del vero piuttosto lenta, ed il
gruppo degli ultimi, cui ovviamente appartengo, che non solo
partono camminando, ma lo fanno pure con una lenta cadenza
da corteo funebre o, per usare un’immagine meno macabra e
più senese, a guisa di un popolo che entra in Piazza dietro
al barbero .... come sempre ci sono coloro che avvertono la
necessità di ostentare la loro presunta vicinanza alla
famiglia del defunto nel primo caso o fare i pettoni dietro
la dirigenza nel secondo, producendosi in entrambi i casi in
un improbabile slalom fatto di scatti e sorpassi la cui
demenzialità è proporzionale alla lunghezza della
manifestazione podistica: nel nostro frangente tende quindi
asintoticamente ad infinito! Prova ne è che intorno a me ne
ho memorizzati in particolare quattro di questi elementi e,
come ho poi ho avuto modo di verificare nella classifica
generale on line tramite la foto associata ad ogni
concorrente, nessuno di loro è giunto al traguardo.
Per
alcuni Km proseguiamo più o meno in piano fino a Valnontey
con un folto pubblico che ci applaude ed incoraggia, facendo
lentamente dissolvere i miei dubbi sull’accoglienza che
sarebbe stata riservata ad una manifestazione apparsa nella
maggioranza dei media nazionali come imposta dalla politica
per la ripicca personale del governatore della regione
Augusto Rollandin che tra l’altro, anche lui partecipante,
sembra sopravanzarmi di poco, considerando i numerosi
commenti che, rivolti principalmente ai molti altri trailers
valligiani, provengono dagli spettatori indigeni con un
tenore bonariamente canzonatorio: “ Ragazzi il presidente
(classe 1949) vi fa mangiare la polvere a tutti!”. E di
polvere ne ingurgito veramente tanta in fila indiana lungo i
dieci Km di tornanti che, passo dopo passo, ci conducono già
alla cima Coppi del giro: il Col Loson, un nido d’aquile ad
oltre 3300m di altitudine dove valichiamo il massiccio del
Gran Paradiso osservandone le vette praticamente dallo
stesso livello. Il grandioso spettacolo naturale passa in
secondo piano e comunque le emozioni ne sono infinitamente
amplificate grazie alle numerose decine, probabilmente oltre
un centinaio, di tifosi che vi si sono arrampicati e adesso
standosene appollaiati su massi sospesi nel vuoto (c’è a
malapena posto per il sentiero su una stretta cengia) ci
incitano calorosamente con urla e campanacci. Solo con
esperienze del genere capisci appieno perchè anche l’ultimo
dei gregari di un Tour de France od un Giro d’Italia si
sente appagato di tutte le fatiche transitando tra due ali
di folla in cima all’Alpe d’Huez od al Gavia.
La
discesa sull’altro versante è decisamente ripida e
difficile; in considerazione della fatica che dovrei
comunque fare per frenarmi camminando e del fatto che la
pendenza non mi spaventa, infrango le consegne ed abbozzo
una corsetta che mi permette di scendere abbastanza
velocemente ai 1600m della Valsavarenche a Degioz. Sono le
due del pomeriggio ed approfitto del ristoro fornitissimo
per un lauto pranzetto, intraprendendo di ottimo umore la
successiva lunga salita, 13Km e mezzo non troppo ripidi, che
conducono nuovamente oltre i 3000m del Col Entrelor.
Imboccata la ben più ripida discesa la preparazione a dir
poco precaria si manifesta sotto forma di improvvisa
spossatezza ed incapacità di recupero. Non ne sono affatto
sorpreso (avevo già avuto lo stesso problema un mese prime
alle Alpi Orobie), ma questa volta il ben più lento passo
minimo consentito gioca a mio favore e, dopo una tranquilla
sosta mangiando un po’ di parmigiano sdraiato su un comodo
masso levigato, percorro tutta la discesa camminando senza
mai forzare fino a Rhemes Notre Dame, nella valle omonima.
Al ristoro c’è molta concitazione e sono molti gli
ammonimenti sulla durezza della salita che ci aspetta da
parte di coloro che sembrano conoscerla bene, vuoi perchè
indigeni vuoi perchè reduci delle edizioni passate del Tor
in cui l’avevano percorsa in discesa. Onestamente non ne
sono turbato più di tanto, avverto anzi sempre più pressante
una certa impazienza di scoprire che sarà mai questo Col
Fenetre, la famosa salita pericolosa citata anche al
briefing della sera precedente. Intanto si è fatto buio e
sulle prime rampe già durissime di un erto pascolo
all’uscita del paese accendo la frontale, ma è superato
questo primo scalino che, percorrendo un vallone un po’ meno
ripido, si manifesta nella sua feroce imponenza il mostro:
un canalone pressochè verticale, che si stringe fino a non
più di 4-5 metri di larghezza nella parte sommitale, inciso
da un’infinita serie di tornanti evidenziati dalle frontali
di chi mi precede. Stringo con forza i bastoni e tento di
alzare lo sguardo il meno possibile mentre lento ma
inesorabile avanzo tra le pietre, riuscendo a fermarne
alcune che smuovo prima che cadano rovinosamente a valle e
trasmettendo le urla di avviso per quelle che ,
fortunatamente soltanto un paio, tento di inquadrare nel
raggio di luce della lampada mentre dall’alto rotolano giù
impazzite tagliando tutte le anse del sentiero. Se i piccoli
tratti tra le curve sono erti (40 – 50 % almeno), è al
tornante stesso che arriva il peggio, perchè per girare su
noi stessi dobbiamo prendere di punta il pendio ed in quel
mezzo metro siamo costretti ad issarci su alti scaloni per
imboccare la diagonale successiva. Fatto sta che mi rivelo
ancora un buon scalatore e, senza mai fermarmi, raggiungo lo
scollinamento superato soltanto da Elena, una bella spagnola
di cui avrò modo di parlare ancora. Dall’altro lato la
discesa non è fortunatamente neppur paragonabile al tratto
appena fatto e, dopo essermi fermato una ventina di minuti
al rifugio Epee dove almeno una decina di concorrenti
sconvolti chiedono di passare la notte (immagino quindi si
ritirino, visto che non sono consentite più di due ore di
sosta al di fuori delle basi vita), proseguo rincuorato e
pimpante fino a Valgrisenche, dopo aver percorso 58Km e
5500m di dislivello positivo in poco più di sedici ore
accumulando, cosa di basilare importanza, cinque ore di
vantaggio sul tempo limite.
La
gentile efficienza dei volontari alla base vita allestita al
Foyer, una vera e propria struttura alberghiera, è una
piacevolissima sorpresa e, nonostante l’affollamento, mi
indicano un posto letto libero in una tripla che decido di
sfruttare immediatamente, piuttosto che docciarmi o fare i
massaggi. Non ho sonno e, con l’adrenalina in corpo, non
riuscirei a dormire comunque. Mi impongo però un’oretta
defaticante, passata in silenzio al buio con gli occhi
chiusi: cerco di pensare e raccogliere le emozioni, ma mi
rendo conto di essere ancora in modalità gara, con le
celluline grigie che riescono a focalizzarsi soltanto sul
prossimo cancello orario di Courmayer ed al tempo che
impiegherò per arrivarci .... niente di più sbagliato se
vuoi divertirti: e senza divertimento non ci sarà
possibilità alcuna, almeno per il sottoscritto, di
percorrere altri 300Km. Dopo un paio di piatti di pasta
innaffiati con birra, formaggio, affettati e frutta (questa
sarà la colazione anche per i prossimi quattro giorni)
inizio, intorno alle tre del mattino, il secondo giorno di
gara, quello che risulterà essere il più duro sia dal punto
di vista fisico sia, soprattutto, da quello mentale. Dopo un
lungo tratto su fondovalle, dal ristoro di Planaval
cominciamo la lunga salita verso il Col de la Crosatie:
salvo alcuni strappi all’inizio non mostra pendenze arcigne,
anzi si potrebbe definire dolce lungo un interminabile
vallone che conduce al Lac du Fond dove, mentre il cielo si
rischiara, la mia testa si avvolge di cupe tenebre, leggendo
un cartello per escursionisti che indica ancora tre ore al
passo. Nei successivi Km di arrampicata vera che ci
riportano intorno ai 3000m, faccio ogni volta poche
centinaia di metri che, pervaso di un’apatica spossatezza,
mi accascio sui massi a bordo sentiero e contemplo ammirato,
ma quasi rinunciatario, il magnifico panorama di creste
innevate che cingono la lunga vallata da cui sono salito ed
i suoi laghetti alpini. Colgo pure l’occasione per un
estremo saluto allo sfortunato collega mai conosciuto, il
cinese Yuan Yang ivi morto per una caduta durante una
tormenta al Tor del 2013: insieme a me contempla in silenzio
il monumento in sua memoria un altro cinese, Li Jiang, in
seguito anche lui protagonista suo malgrado del mio
racconto. In qualche modo raggiungo il passo e la discesa,
come preannunciato al briefing, è un vero e proprio
esercizio alpinistico, ripida ed esposta su cresta; riesce a
darmi una scossa e seppur non correndo, ci mancherebbe
altro, il passo sicuro con l’aiuto dei bastoni senza bisogno
di dovermi reggere alle corde mi consente di scendere molto
velocemente rispetto a coloro che ho intorno, già
pregustando il ristoro di Promoud che distinguo nettamente
in un pianoro alla base del ghiaione. È però un fuoco di
paglia, perchè appena finita la discesa devo ancora fermarmi
per rifiatare durante i trecento metri di salita che mi
separano dal ristoro, in cui sosto per almeno mezz’ora
dimenticandovi pure il berretto, e non so quante altre volte
ancora scalando i gradoni di roccia del succesivo colle di
Passo Alto, fors’anche nei 3-4 Km che scendono al rifugio
Deffeyes, dove esausto mi stendo sul prato antistante e
perdo letteralmente conoscenza per un’ora buona, riparandomi
alla meno peggio dal forte vento che si e’ alzato.
Rifiato
poi lungo i dieci Km di facile discesa verso la Thuile,
percorsi ad una lentezza imbarazzante. All’uscita del
ristoro, dove sprofondo per una ventina di minuti su una
comoda poltrona, la situazione climatica è definitivamente
cambiata: un forte vento intriso di umidità ammassa densi
nuvoloni neri sulle montagne che ancora devo valicare per
raggiungere Courmayeur. Discutendo del tempo con quello che
sembra essere un veterano del Tor e conoscere a menadito il
percorso, egli si dice convinto che con questo vento non
pioverà nelle ore successive: infatti, appena rientrati nel
sentiero corretto dopo aver sbagliato strada all’uscita del
paese, comincia a piovere. Non del tutto certo di aver
scelto il giusto mentore, che prima allunga inopinatamente
in salita e poi raggiungo alla baita de la Youla, ultimo
provvidenziale ristoro prima del Col de l’Arp, gli chiedo
comunque se sia il caso vestirsi pesanti come vedo lui fare.
Questa volta mi dà la dritta giusta, dicendomi che se prende
il freddo in cima al passo mentre siamo bagnati, non si
riesce ad andare avanti: tanto mi basta e così indosso pile,
giacca antipioggia, pantaloni impermeabili antivento e
guanti caldi con sopra quelli di gomma da lavapiatti per non
far passare l’acqua. Intanto si è fatto buio e percorro gli
ultimi metri di salita su un sentiero che si snoda tra i
pascoli con la frontale accesa la quale, quando si dice la
precisione, decide di spengersi proprio sulla sommità del
passo sferzato da pioggia e vento; tiro fuori l’altra
lampada che avevo oculatamente lasciato a portata di mano ma
che a sua volta non vuol saperne di accendersi: seduto su un
masso, con la pressione arteriosa pericolosamente in ascesa,
l’ultimo dei miei problemi è il freddo, ma non sembra così
per i numerosi concorrenti cui chiedo di illuminarmi durante
le operazioni di sostituzione delle batterie e che passano
dritto dicendo che c’è da sentirsi male a stare lì fermi
.... ora non sono nello spirito giusto per fare dell’ironia
rispondendo che invece a me non sembrava male ed anche
piuttosto panoramico per passarci la notte, mi interrogo
piuttosto sul famoso spirito di solidarietà tra trailers,
che finalmente si materializza in una coppia di amici che si
fermano e mi assistono con la loro frontale durante
l’operazione: ringrazio tanto calorosamente loro quanto in
cuor mio, con la misericordia che mi contraddistingue,
auguro vivamente a coloro che non lo hanno fatto le peggiori
disgrazie.
Il vero
calvario è però la lunga, facile discesa verso Courmayeur,
dove mi sento come un otre floscio a cui viene fatto il
vuoto spinto: mi fermo più volte a sedere ed addirittura
anche sul marciapiede dentro il paese, lungo l’infinito Km
che mi separa dalla base vita allestita nella caserma degli
Alpini. I gentilissimi volontari mi fanno trovare come
sempre il borsone pronto, ma ho a malapena la forza di
raggiungere il tendone dove è stato preparato il dormitorio,
cambiarmi la maglia, stender alla meno peggio i vestiti
bagnati e buttarmi sulla branda con una coperta troppo corta
per ripararmi contemporaneamente piedi e torace dai freddi
spifferi che entrano. Dopo un’ora e mezza passata senza
chiudere occhio tra i catarrosi spasmi di una brutta
bronchite che sembro essermi buscato, decido che se devo
proprio morire sarà molto più dignitoso farlo lungo il
percorso. Sistemo quindi le fasciature dei piedi, collaudo
entrambe le frontali, colazione abbondante ed un po’ prima
delle tre del mattino mi incammino verso il rifugio Bertone.
Ho ancora ben inciso nella mente come l’anno prima avessi
percorso di buon passo l’erta sotto un sole infuocato, al
giro di boa dell’UTMB; questa volta è notte, sporadicamente
continua a cadere una leggera pioggerellina ma, corsi e
ricorsi storici, uscito proprio come allora più da un
calvario che da un ristoro, mentre lentamente arranco in
salita mi sento pervadere, se non proprio dall’ottimismo, da
una quieta speranza. Sorbita una calda zuppa al rifugio,
proseguo sul magnifico affaccio della Val Ferret dove, per
quanto avvolto dalle nubi in una tetra oscurità, ben avverto
il severo sguardo del Bianco, con le sue guglie ed i suoi
ghiacciai che scortano il mio onirico cammino. Mi si
chiudono gli occhi e non posso fare a meno di sdraiarmi
sull’erba bagnata raggomitolato su me stesso in posizione
fetale; probabilmente non dormo per più di dieci minuti, ma
non si tratta semplicemente di un sonno ristoratore: è un
taumaturgico cambio di dimensione spazio-temporale. Al
risveglio mi trovo in una realtà parallela. Superate le 44
ore dal momento della partenza, ad appena un terzo del
percorso, il mio fisico non particolarmente dotato ha dato
tutto quello poteva in una gara di endurance, quindi è la
mia testa, come entità autonoma e non minimamente spinta da
una volontà cosciente, a cambiare modalità. La mia gara, se
mai si fosse potuta definire tale, è terminata; comincia
un’avventurosa esplorazione senza una mèta precisa, che si
autoalimenta con la trepidante attesa di ciò che andrò a
scoprire passo dopo passo: comincia il divertimento .....
“comincia un mondo un mondo diverso ma fatto di sesso chi
vivrà vedrà”!
Raggiunto
il rifugio Bonatti, dove finalmente dormo di gusto per
mezz’ora, abbandono il tratto comune all’UTMB e comincio la
salita verso il mitico Col di Malatrà, una stretta fessura
nella roccia a 2900m di altitudine da cui prendo commiato
dalla val Ferret ed il Monte bianco e do il benvenuto al
Grand Combin mentre, dopo un ripido ma breve tratto in
discesa attrezzato con corde, raggiungo il rifugio Frassati
e proseguo tra ampi pascoli congestionati dal traffico delle
mandrie al rientro dagli alti alpeggi estivi: il continuo
scampanio infonde allegria ed il tempo scorre veloce fino a
Saint Rhemy. Qui un bel ristoro è allestito nel centro del
paese ed ogni trailer è accolto al suo arrivo e salutato
alla sua partenza dal fragoroso scampanio di un gioviale
volontario che si divide tra i campanacci ed una padella
dove fa saltare, praticamente espressa, una gustosa pasta al
pomodoro che non manco di assaggiare numerose volte; unico
neo è la mancanza di birra, cui fortunatamente provvede
acquistandola in un bar vicino Graziano, il marito
accompagnatore di Ermanna, trailer amica di amici, con la
quale faremo diversi tratti insieme.
Poco dopo
esser ripartito sono nuovamente colto da una crisi di sonno
e mi stendo a bordo strada per un ulteriore quarto d’ora
.... d’altronde, per quanto particolare, è una vacanza ed in
ferie bisogna rilassarsi. Il vero momento godereccio arriva
però di lì ad un paio di ore, quando percorsi una decina di
km con dolci saliscendi ad un’andatura decisamente sostenuta
arrivo a Ponteille Desot, dove dovrebbe esserci un ristoro.
Un inconfondibile odore di carne grigliata “come il canto
delle sirene di Ulisse mi incatena”, guidandomi ad un
braciere ormai quasi spento che tiene in caldo succulente
costole di maiale, giusto all’esterno di una casupola che si
rivela essere il punto di rifornimento. All’interno ci sono
quattro volontari, una coppia matura e due allegri
giovanotti intenti a tagliare a pezzetti un’enorme forma di
fontina, su un tavolo colmo di bottiglie di vino, alcune
già scolate altre ancora da stappare, vicino ad una cucina
economica con su un pentolone di polenta ... che sia morto
ed abbia avuto inopinatamente adito ad un paradiso pagano?
Mi metto comodo ed il tempo scorre piacevolmente conversando
con i volontari ed i trailer che via via si avvicendano,
arrivando e ripartendo, mentre io, piedi piantati sotto il
tavolo, non ci penso neppure a smuovermi tra un cucchiaio
di polenta con il formaggio fuso, un sorso di prosecco ed
una sgranocchiata alle costoline. Quando la signora,
rialzandomi, nota in me una certa pesantezza mi informa che
nell’altra stanza c’e anche un letto: ormai provo il
pacchetto “all inclusive” con mini pennichella, caffè appena
fatto ed ammazzino. È con vivo rammarico che prendo commiato
dai volontari e da un quartetto di simpatici amici della Val
Sesia che lascio a gozzovigliare con Elena, la bella e
gioviale scalatrice spagnola, affrontando sul far della sera
le ripide rampe del Col de Champillon, sferzato da forti
raffiche di vento che a volte mi fanno vacillare. Quasi al
culmine sono raggiunto da un quintetto, i quattro amici e
la spagnola che, guarda caso, in testa al plotoncino fa da
elemento trainante; capita l’antifona mi faccio sfilare solo
da lei e mi inserisco rapido alle sue spalle, tra i sordi
mugugni di protesta degli altri: dolce adesso si fa il
salire, allietato dal deja vu della bicilindrica Ducati (i
più affezionati forse ricorderanno dal racconto del
Malandrino 2013) ..... che accompagna ogni colpo di
racchetta con un tanto perfetto quanto conturbante movimento
biella-manovella del lato B. I 1300 metri di discesa dai
2700 del colle scorrono via veloci, praticamente quasi non
mi fermo al rifugio Letey e proseguo con la frontale accesa
fino ad Ollomont, dove faccio ingresso nella terza base vita
intorno alle nove e mezza di sera.
Le
operazioni sono ormai divenute automatismi: cambio della
maglia e in branda il prima possibile; il fatto che le luci
siano inopinatamente accese nell’area dormitorio non mi
impedisce un sonno immediato e pure beato, non fosse per i
fastidiosi colpi di tosse dovuti alla bronchite che sembra
peggiorata ancora; all’ennesimo spasmo controllo l’orologio
e, verificato che siamo già alle prime ore del martedì, mi
sento pronto, quasi ansioso direi, di continuare il viaggio.
Da Oyace, altra località della Valpelline dove è posto il
ristoro successivo, mi dividono i 12Km del Col Bruson che,
non so bene per quale motivo, avevo sottovalutato sin dallo
studio a tavolino del percorso: ci pensano i primi Km
ripidissimi su uno stradone carrozzabile e poi, più in
quota, le pietraie di un sentiero a mala pena riconoscibile
a farmi definitivamente capire come su questo percorso le
salite facili non siano contemplate. Sta così già
albeggiando quando faccio il mio ingresso nella palestra del
paese; devo aspettare qualche minuto per avere il mio turno
di riposo su uno dei materassini presi letteralmente
d’assalto dai miei colleghi, probabilmente concordi sulla
durezza del colle appena valicato.
Riprendo
il viaggio percorrendo l’interminabile vallone che porta
verso il col Vessonaz .... ricordo ancora distintamente il
tratto in discesa per attraversare il torrente Buthier, la
salita nel bosco, il lungo e gelido fondovalle dove il sole
che illumina le vette all’intorno non ne vuol sapere di
trapelare, ma ora come allora avverto solo una progressione
spaziale cui non sono capace di associarne una temporale: da
qui in poi l’alternarsi del giorno alla notte sarà il mio
unico orologio biologico. Ormai, novello Dante nella Vita
Nova, dal risveglio del giorno precedente sono o almeno mi
sento diverso; per quanto l’andatura sempre più pesante
sembri suggerire il contrario, mi sento sempre più levitare
in un’estatica beatitudine durante il compimento
dell’ineluttabile karma: passo dopo passo alla mèta.
Nonostante la levitazione estatica faccia obiettivamente
fatica a contrastare la gravità fisica delle ultime ripide
rampe del colle, mi ritrovo nuovamente a 2800m e, rimanendo
sempre in quota, in un saliscendi continuo tra petrosi
traversi sottocosta e sentieri più facili, supero colli e
rifugi (degno di nota il Cuney, con a lato il santuario
mariano più alto d’Europa), vedendo lentamente, molto
lentamente, avvicinarsi all’orizzonte il Cervino ed il
massiccio del Rosa.
Ridisceso
quindi nel Vallone Saint Barthelemy, a 2000m di quota
percepisco come il clima sia decisamente cambiato, con il
sole caldo che ha preso il sopravvento sui gelidi spifferi
degli ultimi due giorni. Nonostante ciò la mia bronchite va
sempre peggio e, raggiunto il rifugio Magià dove è allestito
anche il controllo medico, decido di farmi visitare: la
faccia dell’esperto medico sportivo che mi ascolta non fa
presagire nulla di buono ed infatti mi comunica che un
polmone è invaso dai catarri mentre l’altro è ancora a
posto; procede quindi con la misurazione della febbre e la
rilevazione della saturazione di ossigeno nel sangue ....
leggendo probabilmente la disperazione sul mio volto, mi
rassicura che non sarà certo lui ad impedirmi di proseguire
anche in considerazione del fatto che, se sono arrivato sin
qui, in qualche modo l’ossigeno ai muscoli arriva.
Verificato che con un paio di inalazioni di Ventolin
l’ossigenazione è decisamente migliorata, redige un
certificato e mi raccomanda di sottopormi regolarmente alle
visite dei sui colleghi nei vari punti assistenza che
incontrerò, visto l’oggettivo rischio di polmonite.
Ringraziandolo calorosamente per l’accurato check-up, ma
soprattutto in cuor mio per non avermi fermato a scopo
cautelare, cerco di fare mente locale sulle mie
limitatissime nozioni mediche. Mi vengono in aiuto i grandi
romanzi dell’800 e della prima metà del 900 con le
descrizioni dei meravigliosi sanatori edificati sui lidi o
sui monti: mi convinco quindi, novello Hans Castorp
protagonista della “Montagna Incantata”, che un po’ di
giorni di fina aria montana non potranno che giovare alla
mia salute, altresì messa a rischio dalla virulenta aria
viziata dei reparti di malattie infettive dove un medico più
scrupoloso potrebbe decidere di spedirmi: zaino in spalla
quindi, catarri sputati fuori ansimando in salita e
soprattutto niente più pericolose visite mediche!
E di
ossigeno me ne occorre e come per affrontare le indiavolate
rampe della Fenetre de Tzan, in cui mi imbatto poco dopo
aver lasciato il rifugio e che affronto insieme al simpatico
quartetto della Val Sesia, questa volta però senza il traino
di Elena la spagnola, di cui lamentiamo mesti la mancanza
.... e più non lo avremo in quanto, come ho scoperto
successivamente, si è ritirata proprio al Magià. Arrivati
tutti e cinque assai provati sulla cima, guardiamo
soddisfatti il Cervino, il Rosa e gli altri spettacoli del
creato che siamo concordi ripaghino ampiamente della fatica
fatta ....è a questo punto che, non ricordo bene chi (non
escludendo a priori il sottoscritto), elenca tra le bellezze
della natura anche le due cupole marmoree dell’iberico
deretano .... tanto basta a catapultarci dalla dimensione
anacoretica dell’eremitismo a quella della più triviale
convivialità androgena: tralascio i particolari per decenza,
ma nella mia mente sento ancora riecheggiare le risate
goderecce che ci siamo fatti lassù, tanto da poter ambire
magari un giorno anche noi alla Casa Bianca!
Superato
l’ultimo colle di giornata, la Fenetre d’Ersa, mi aspetto
una lunga discesa verso Valtournenche ed è invece con
crescente disappunto che constato come il saliscendi
continui per ancora più di un’ora; si fa così buio mentre
giungo al rifugio Barmasse e non alla base vita come avrei
sperato. La giornata si è fatta lunga ed avverto urgente il
bisogno di un letto; dopo uno spuntino senza neppure
mettermi a sedere, riparto come un ossesso pervaso di un
nervosismo rabbioso, tanto da sfogarmi pure con un magnifico
stambecco che mi si para davanti proprio all’imbocco del
sentiero sotto la grande diga di Cignana: piuttosto che
fermarmi ad osservarlo da un punto di osservazione così
vicino e privilegiato, gli indirizzo frontale e bastoncino
contro intimandogli, senza scherzare più di tanto, di
cedermi il passo se non vuol finire condimento della mia
prossima polenta. Avuta strada libera mi getto in discesa,
sfogando con la corsa la mia isteria finchè, quando già le
luci di Valtournenche sono vicine, mi imbatto su un
volontario che assiste quello che appare uno spaurito e
smarrito concorrente seduto a terra dolorante dopo una
caduta. Non c’è bisogno del mio aiuto e tutto quello che
posso fare è dargli una delicata pacca sulla spalla, quasi
una carezza, sussurando un solidale e misericordioso
“coraggio!”. Pur avendo qualcosa di vagamente familiare, lì
per lì non riconosco il padre padrone della Valle d’Aosta
negli ultimi decenni: il presidente Augusto Rollandin è solo
un povero trailer che vede infranto il suo sogno, un
indifeso vecchietto bisognoso di aiuto capace di destare in
me una profonda commozione .... contemplazione estatica,
gioia, rabbia, commozione si alternano ai loro massimi
picchi in un volubile turbinio di stati di animo:
probabilmente anche questa instabilità emotiva fa parte del
pacchetto grande avventura e poco sonno.
Finalmente intorno alle 22 di martedì sera faccio il mio
ingresso alla base vita, dove con la faccia bruciata dal
sole suscito a mia volta la pietà di un accompagnatore così
gentile e generoso che, ascoltate le mie lamentele di come
abbia perso il mio cappellino due giorni fa, mi fa dono del
suo con tanto di logo ufficiale della manifestazione. Mi
viene difficile descrivere e giustificare l’importanza che
questo piccolo grande gesto ha avuto: sarà perchè da quel
momento in poi ho avuto anch’io il mio accompagnatore che,
ad ogni ristoro dove l’ho incontrato successivamente, mi ha
sempre incoraggiato mostrandosi visibilmente contento che
fossi ancora in gara, a volte anche con un solo cenno della
testa e degli occhi, cui ho sempre risposto togliendomi
deferente il cappellino dal capo ed indicandolo con l’indice
dell’altra mano, come a dire: “se sono ancora qui, il merito
è suo!”.
Dormo di
un profondissimo sonno e mi risveglio a fatica solo dopo
alcune ore, anzi probabilmente sono ancora parzialmente
addormentato quando, passate da poco le 2 di mercoledì
mattina, mi trovo ancora a racchettare in salita: i ricordi
sono sfocati e la prima immagine nitida che mi sovviene è la
petrosa conca costellata di luci frontali che prima dobbiamo
scendere dopo il Col des Fontaines e poi risalire verso il
Col di Nana; successivamente l’impegnativo sentiero che
scende sottocosta verso il rifugio Grand Tournalin dove del
buon caffè caldo mi riconduce finalmente alla vita
sensibile. La lunga discesa verso Champoluc corre via facile
e tutto sommato veloce, visto che verso le nove del mattino
sto già risalendo verso il successivo Col Pinter, che
raggiungo ancora una volta insieme ai compagni di merenda
del quartetto, dopo l’impegnativa scalata di un erto
valloncello detritico. Di nuovo piuttosto provati, per non
dire sfiniti, rimaniamo tutti a contemplare estatici la
maestosa bellezza del massicio del Rosa che finalmente
sembra così vicino davanti a noi ed il Cervino ormai quasi
alle spalle, senza abbandonarci questa volta a divagazioni
boccaccesche. Io mi devo trattenere più a lungo per
l’insorgere di un doloroso mal di piedi che, nonostante i
prolungati massaggi, non mi fa godere appieno della discesa
tra ameni laghetti e panorami mozzafiato fino al rifugio
Alpenzu, dove sono costretto ad un antidolorifico ed un
lungo riposo forzato sdraiato sull’erba. Ciononostante
giungo alla base vita di Gressoney Saint Jean che è ancora
giorno pieno, poco dopo le 16. Prendo in seria
considerazione l’ipotesi di una doccia, dopo che passate le
mani tra i capelli untuosi mi rendo conto che dopo cinque
giorni di sospensione dell’igiene personale debba emanare
una fragranza non dissimile al cassonetto dell’organico in
piena estate, di cui mi ero a ragione lamentato nei
confronti di un trailer tedesco l’anno precedente all’UTMB.
Fatto sta che questo rappresenterebbe uno strappo alla
ritualità dalla comprovata efficacia, una pericolosa
sospensione del karma di cui le sin qui benigne deità
potrebbero offendersi: diciamo pure che per scaramanzia
decido di non lavarmi via l’unto del Signore. La luce che
filtra copiosa dalle finestre del palazzetto dove siamo
accampati non mi impedisce di addormentarmi placido sotto la
palestra di roccia, forse auto-anestetizzato dai mefitici
effluvi. Si conclude così una giornata relativamente breve e
senza grandi accadimenti: quella quiete misticamente
trascendente che rende il mare una tavola prima che le più
tremende procelle si scatenino.....
La
sveglia dell’orologio che suona puntuale alle 19:30 è come
un richiamo dall’aldilà; con estrema fatica dischiudo un
occhio e distinguo gli ultimi bagliori del tramonto;
rammento che il cancello orario in uscita è alle 1 del
mattino e non ci penso due volte a girarmi dall’altra parte
e tornare alle tenebre cui sono ormai ben più abituato ....
perchè la notte è la più fida compagna di viaggio di un
ultratrailer, quando il tempo sembra fermarsi lasciandoti
perennemente in bilico sulla stretta cengia che costeggia il
baratro della tua mente, ma in un attimo arriva il nuovo
giorno che spazza via tutto e sei costretto a ricominciare
da capo.
Sono da
poco passate le 22 quando, dopo un lungo tratto sulla
statale nel fondovalle, lascio momentaneamente la valle del
Lys cominciando a salire sulla sinistra. Dopo un primo
tratto nel bosco piuttosto impegnativo, intorno ai 2000
metri di quota faccio il mio ingresso nel fiabesco Vallone
di Loo, ambientazione dei prossimi mirabili accadimenti.
Non c’e luna, ma con la frontale spenta riesco comunque a
vedere distintamente davanti a me la lunga valle che sale
dolcemente, magicamente rischiarata dalla luce delle stelle
che ammantano tanto scrupolosamente il firmamento da non
lasciarvi neppure una piccola toppa di oscurità. E allora
pensi a quel mondo cui normalmente appartieni e che non è
mai stato più distante; pensi alla moglie e ai figli che
forse le chiederanno quanto tempo ci mette ad arrivare quel
lentone di babbo; pensi agli amici che probabilmente stanno
dando una sbirciatina su internet prima di andare a letto
per vedere fin dove sei arrivato e magari sono un po’
sorpresi e , perchè no, ammirati di vedere che hai già
percorso 250Km; pensi a quanto sia stupido e insensato
quello che stai facendo, come del resto lo sono tutte le
imprese umane una volta fotografate da questa luce siderea
che ne smaschera la fatua vanità. Mentre pensi e ti senti un
sommo filosofo, moderno Diogene che cerca l’uomo con la sua
frontale, dietro un cespuglio trovi in effetti Li Jiang,
ancora uomo sì ma che sembra destinato a far la fine del suo
sfortunato connazionale cui avevamo reso omaggio insieme
qualche giorno prima sulla Crosatie, visto il convulso
tremito che lo scuote mentre avanza a passettini cortissimi.
Pochi metri avanti un altro trailer, Alberto, riponendo il
telefonino mi dice che ha appena avvertito l’organizzazione
sullo stato di salute del cinese che concordiamo essere
preoccupante e che lo scorterà al ristoro di Ober Loo poche
centinaia di metri avanti. Io mi avvio per allertare i
volontari che mi accolgono festanti con un baccano infernale
di campanacci ed ogni fragorosa specie di strumenti musicali
della cultura Walser: è un’oasi di allegria festaiola
completamente decontestualizzata dal compunto misticismo
notturno del vallone. Sanno già dell’arrivo di un
concorrente in difficoltà e quando giunge per mano ad
Alberto lo fanno oggetto di quella che non esito a definire
fonoterapia: accolto a suon di scampanellate e strombettate
si desta dall’apatia demenziale in cui era caduto e come
primo impulso, scambiandomi probabilmente per il suo
soccorritore, mi abbraccia sommergendomi di convulsi “thank
you”. Mentre Li viene portato all’interno dell’alpeggio a
riscaldarsi, faccio ritorno alle luminose tenebre
frastornato da questa scena surreale appena vissuta che,
misteri della psiche, mi richiama alla mente quella del falò
nel film Amarcord. Non saprei dire per quanto, ispirato
dalla coperta di stelle, continui a pontificare sui massimi
sistemi, facendomi domande e dandomi risposte di cui
Marzullo sarebbe stato entusiasta, fatto sta che ho la
sensazione che sia passato molto tempo dall’ultima volta che
ho visto una bandierina di segnalazione del percorso. Mi
guardo intorno e mi convinco di non potermi essere sbagliato
più di tanto: sto percorrendo il fondo di un vallone e
l’unica alternativa sarebbe eventualmente essere dall’altro
lato del torrente; davanti a me non scorgo frontali
all’orizzonte mentre dietro ne vedo una non troppo distante
che sta venendo verso di me; si tratta probabilemente di
Alberto che decido in ogni caso di aspettare. Quando è ormai
a non più di cinquanta metri da me viene raggiunto da una
coppia di lumini che avevo visto a loro volta avvicinarsi
negli ultimi minuti, non faccio in tempo a pensare come un
po’ di compagnia non guasterà nell’ultimo tratto di salita,
che uno dei nuovi arrivati apostrofa amichevolmente Alberto:
“Se non lasci quei bastoni ti spezzo le mani!”. Saltare da
Amarcord a Pulp Fiction così repentinamente rischia di
minare anche la mia tenuta mentale e così il primo impulso è
quello di squagliarmela, ma non riesco a vincere un afflato
di altruismo, assai insolito in me, nei confronti di quella
persona che, mostrando tanta carità cristiana nel soccorrere
il cinese, non poteva certo essere un bieco grassatore di
bastoncini. Tentenno ancora un po’ ed alla fine, seppur
maledicendomi, decido di intervenire per placare gli animi,
imponendomi di non prender parte in ogni caso ad
un’eventuale rissa, che appare inevitabile quando ormai a
due passi inquadro con la frontale i fiotti di bava che
sgorgano dalla bocca di un trailer vicino alla sessantina,
spalancata in un orrendo ghigno mentre tenta di strappare
con forza le racchette dalle mani di Alberto. Questi gli
oppone una sì ferrea passività professando la sua innocenza
che, grazie anche allo stretto ovale del cranio
completamente calvo, me lo fa sempre più identificare in uno
dei venerandi santi martiri effigiati nei mosaici bizantini.
Così, ormai devoto seguace di Sant’Alberto Trailer, mi
appello con trasporto, quasi implorandolo, all’alienato
aggressore affinchè misericordia e ragione alberghino
nuovamente in lui .... sortendo lo stesso effetto di dire
brutto ad un cane! Piuttosto che aiutarmi a calmarlo il suo
compagno, più o meno mio coetaneo, si adopera con tutte le
sue forze a spiegarmi come il suo amico abbia avuto
esperienze traumatiche nei giorni precedenti, praticamente
come se il padrone di un rottweiler che sta sbranando un
bambino ti dicesse che d’altronde è stato provocato ed oggi
gli girano pure le palle! Finalmente i duellanti riescono a
spiegarsi tra loro grazie anche ad un membro
dell’organizzazione chiamato a testimoniare telefonicamente
su come i bastoni di Angelo, questo il nome
dell’indiavolato, fossero stati dati ad Alberto, cui erano
spariti i suoi, perchè ritenuti abbandonati. Una volta
accertatomi con circospezione di avere in mano proprio i
miei bastoncini (visti i trascorsi in materia confesso che
per un momento sono stato assalito dall’atroce dubbio), mi
incammino prudentemente da solo verso il Col Lasoney ed
affronto la difficile discesa, dal fondo assai aspro e
roccioso, verso Niel.
Qui
l’organizzazione ha posto un ulteriore cancello orario (su
cui mantengo ancora un vantaggio di quattro ore) in quanto,
citando le testuali parole del briefing, il tratto seguente
è assai severo ed impegnativo e solo le persone in una buona
condizione fisica e mentale possono permettersi di
affrontarlo senza rischi. Fortunamente un lauto ristoro e
qualche battuta scambiata con l’allegra brigata della Val
Sesia ivi ritrovata mi strappano dalla pericolosa deriva
mistica e mi riconducono momentaneamente alla concretezza
del mondo terreno. Dopo un primo strappo in salita e un
saliscendi nel bosco, imbocco la bella mulattiera che sale
verso il Colle della Vecchia, monumentale opera di
ingegneria nella sua parte sommitale: scavata per lunghi
tratti nella roccia viva mi fa proseguire sospeso tra cielo
e terra ... allegoria perfettamente calzante anche con lo
stato della mia mente che, per farmi viaggiare
nell’incorporeo ignoto, è comunque costretta a guidare i
miei passi tra le ben concrete pietre.
Invece di
scendere nel versante Biellese restiamo in quota, statuine
animate di un roccioso presepio che progressivamente
sbiancandosi annuncia l’alba. Arrancando a fatica di masso
in masso creo il sentiero scegliendo la via che giudico meno
disagevole per raggiungere la bandierina di segnalazione
successiva, fin quando non ho molte scelte nello scalare la
pietraia sottocosta che mi conduce ad una strettissima
spaccatura nella roccia, la Crenna du Leui , attraverso cui
valico la montagna proprio quando il sole ormai sulla linea
dell’orizzonte dipinge tutto di rosa. Sto per tornare tra i
vivi e godo della vista degli infiniti picchi che mi lascio
alle spalle per trovarne di infiniti nuovi davanti, messi lì
ad esorcizzare la fine di questa fantastica avventura.
Mentre scendo il ripido ghiaione dall’altro lato,
praticamente da fermo, mi rotolano via i sassi sotto
entrambi i piedi, con il risultato che sbatto violentemente
il gomito a terra e comincio a scivolare per il ripido
pendio, fortunatamente fermato quasi subito da un arbusto
spinoso; l’inebetito stupore sembra almeno riuscire ad
anestetizzarmi il dolore che pure deve esser pungente, visto
che non riesco a piegare il braccio malamente escoriato
proprio in prossimità dell’articolazione. Si tratta, forse
perchè così brusco, del definitivo risveglio che segna
l’uscita da quella realtà parallela lisergicamente sospesa e
che non sarò ahimè più capace di compenetrare così a fondo
nonostante un’altra notte mi attenda.
Sceso al
lago Chiaro, gioiello incastonato tra aspri dirupi, mi
faccio medicare la ferita al controllo medico, trattenendo
il più possibile gli spasmi bronchitici per non allarmare la
dottoressa, ed affronto la nuova scalata al colle di
Marmontana per poi ridiscendere e continuare a vagare in
questa sterminata aspra pietraia che sembra non finire mai.
Giungo così al rifugio della Balma sfinito e, fattomi
guidare dai gentilissimi volontari ad una stanza con un
lettino, letteralmente vi sprofondo, visto che alcune doghe
di legno cedono fragorosamente sotto il peso del mio
posteriore che va a toccare direttamente terra, senza però
impedirmi di riposare per una buona mezz’ ora quasi richiuso
su me stesso. Riapertomi non senza qualche difficoltà faccio
un buon pranzo e, percorso al contrario un piccolo tratto da
cui ero provenuto, scendo verso il lago Vargno, risalgo,
attraverso il fianco della montagna e rieccomi a scalare il
duro colletto che finalmente mi porta sul crinale al confine
tra Valle d’Aosta e Piemonte, sconfinando persino un po’ nel
Biellese, intorno ai 2200 metri di quota. Le nubi in cui mi
trovo improvvisamente immerso, sbarrandomi la vista sulla
sconfinata pianura alla mia sinistra, sembra vogliano
condannarmi in eterno alla montagna.
Dopo un
breve ristoro al rifugio Coda, comincio a scendere sul
crinale ed esco dalla nube proprio dopo aver ripiegato verso
destra scendendo deciso le alte pendici della valle del Lys.
Faccio in tempo a godere del ritrovato sole per pochi minuti
che una terrificante scena splatter rischia di ricacciarmi
definitivamente nelle tenebre. Ancora su un terreno
particolarmente aspro raggiungo Thierry, un gioviale ragazzo
francese con cui avevo già fatto dei tratti insieme e che
adesso procede con estrema difficoltà tra i massi ed alla
fine decide di fermarsi e liberare dalla scarpa il piede che
evidentemente gli provoca sofferenze non più tollerabili.
Gli chiedo come possa aiutarlo al che, rivolgendosi forse
più alle divinità che al sottoscritto, mi chiede se dopo
300Km debba essere una stupida unghia a fermarlo,
interrompendo il suo doloroso pianto con amare risate
isteriche. Cerca qualcosa per fare un bendaggio e allora gli
porgo il mio rotolo di cerotto ospedaliero, con cui mi
fascio le dita dei piedi ad ogni base vita e che tanto
gelosamente custodisco, insieme alle forbicine per
tagliarlo; alla vista di quelle piccole lame un bagliore
sinistro gli illumina gli occhi: ha trovato l’arma con cui
immolarsi al trail nell’estremo sacrificio. Capisco
immediatamente le sue intenzioni e tento di dissuaderlo, ma
i suoi occhi sono sbarrati su quelle forbicine così come
quelli di Angelo lo erano sulle racchette la notte scorsa:
una volta ghermitele comincia a scarnirsi orrendamente
l’unghia dell’alluce per staccarla dalla carne che non ne
vuol sapere di lasciarla andare. Per un po’ resisto ad
osservare i fiotti di sangue che schizzano sul masso su cui
poggia il piede e ad udire respironi che risuonano sempre
più macabri nel festeggiare un altro lembo staccato dopo
terribili rantoli di sofferenza affrontata in apnea. Alla
fine, raccomandatomi più volte che allerti il soccorso nel
caso non ce la faccia a ripartire, gli lascio tutto il mio
armamentario sperando che i miei piedi non siano troppo
malconci e possano farne a meno nell’ultimo giorno. Confesso
che continuando a scendere, tra i pascoli prima e nel bosco
poi, più volte si è materializzata nella mia mente la
spaventevole immagine di Thierry che si erge sul masso,
empia ara di olocausto, brandendo e mostrando al cielo
l’unghia strappata grondante sangue come un boia la testa
mozzata del condannato.
Giunto al
ristoro di Sassa ci pensa l’allegria di Graziano a farmi
passare i brutti pensieri e, massaggiandomi i piedi sdraiato
sull’erba, decido anch’io di aspettare l’arrivo di Ermanna
che sembra essere ormai prossimo. Pur mancando ancora una
cinquantina di Km siamo entrambi convinti di avercela ormai
fatta e continuiamo allegramente l’infinita discesa verso il
fondovalle attraversando i castagneti e le vigne di un
paesaggio ormai molto più umanamente accogliente. Graziano
ci aspetta ad ogni intersezione del sentiero con la strada e
ci immortala in numerosi scatti mentre ci esibiamo in
corsette e saltelli alla vispa Teresa. Sempre in modalità
Butch Kessidy ed Etta Place con lo spensierato
accompagnamento musicale “Raindrops keeps falling on my
head”, arriviamo al fiabesco Ponte di Moretta che attraversa
la profonda ed oscura gola del Lys, per poi risalire al bel
borgo di Perloz dove al ristoro siamo accolti da
un’orchestra di campanacci appesi a mo’ di vibrafono su una
trave orizzontale. Il salire ancora verso la Madonna della
Guardia piuttosto che scendere a Pont Saint Martin che
vediamo ormai 400 metri sotto di noi innervosisce sempre più
Ermanna, presa ormai da quella cieca bramosia di arrivare
alla base vita che io stesso avevo avuto due sere prima a
Valtournenche. Scesi finalmente alla cittadina e superato il
celebre ponte romano, sono a volte obbligato a corricchiare
per seguire la sua inarrestabile marcia nei noiosi due Km e
mezzo perfettamente pianeggianti che ci conducono a Donnas
lungo la statale; raggiungiamo così insieme l’ultima base
vita alle 20:30 di giovedì sera.
Saluto
Ermanna visto che lei ha intenzione di riposare almeno fino
a mezzanotte mentre io per le undici vorrei svegliarmi e
ripartire. Mi distendo e programmo precauzionalmente la
sveglia dell’orologio appunto alle undici ..... quando sono
svegliato di soprassalto dal vicino di branda che
inciampando mi precipita sopra, penso ad un problema nei
cristalli liquidi del mio orologio vedendo solo un 1 nel
quadrante, fin quando il datario mi conferma che le una di
venerdì mattina sono passate da pochi minuti: mentre questi
continua a scusarsi, ringrazio il mio provvido assalitore
per avermi evitato ulteriori preoccupazioni con il tempo
massimo, poichè al cancello in uscita mancano ancora due
ore. Non ho molto tempo per controllare lo stato dei miei
piedi, anche perchè non avrei comunque di che curarli,
quindi me li ungo ben bene con la pasta di Fissan, cambio i
calzini e, sceso dabbasso a fare colazione-cena, mi imbatto
in una signora, mi dicono portata da Niel dove si era
ritirata, che vaga da una stanza all’altra parlando
sommessamente da sola e suscitando la pietosa attenzione
degli astanti. Spaventato mi interrogo se potrebbe accedere
anche a me, intestardendomi ad andare avanti ad ogni costo,
di trovarmi nelle miserabili condizioni in cui ho visto
versare diverse persone nelle ultime ore e mi rispondo
convintamente di no, almeno fintantochè un barlume di
lucidità alberghi in me ....ma questo è d’altronde il punto!
Proprio durante tali ragionamenti mi trovo a salutare un
pimpante Thierry, già pronto a ripartire, che mi mostra
orgoglioso una bella medicazone appena fatta fare all’alluce
martoriato e poco più in là scorgo anche il cinese Li che
arraffa il cibo a piene mani. Sinceramente felice per loro,
ma sempre più incerto in quelle che pensavo fossero mie
ferme convinzioni, parto per affrontare l’ultima notte.
Percorro
il centro storico di Donnas, calpesto un tratto originale
della vecchia via consolare romana, salgo la collinetta dove
maestoso si erge il forte di Bard e, superato il pittoresco
borgo, risdiscendo alla Dora che attraverso cominciando
finalmente a risalire la valle di Champorcher che, dopo
quasi trenta Km, mi condurrà dai 300 metri del fondo valle
ai 2800 dell’ultimo passo. A parte un po’ di comprensibile
mal di piedi, sto abbastanza bene e, complice forse il
margine ridottosi sul tempo massimo per la prolungata
dormita, penso solo a racchettare il più velocemente
possibile, mantenendo un buon passo che mi fa superare di
slancio, o quasi, il ristoro di Pontbosset e raggiungere
quello di Chardonney al far del giorno. Quattro ore in
modalità gara da diversi giorni a questa parte sono, lo
confesso, le più noiose e scialbe di tutta la settimana,
senza particolari emozioni o deliranti dissertazioni,
malgrado l’intrinseca amenità del boscoso fondovalle con il
suo impetuoso torrente attraversato più volte su
caratteristici e a volte traballanti ponticelli.
Raggiunta
Ermanna al ristoro, facciamo nuovamente un tratto insieme.
Superati i 1500m di quota siamo nuovamente in un ambiente di
alta montagna, anche se la dolcezza dei pascoli di questo
sterminato vallone non ha nulla a che vedere con l’aspra
rocciosità dei luoghi attraversati il giorno prima. Ormai
diamo per scontato il nostro arrivo e ne parliamo come cosa
già fatta ma, me ne rendo forse conto solo adesso scrivendo,
senza una particolare gioia: soddisfazione indubbiamente
sì, ma non euforica contentezza. Ormai quasi al ristoro del
rifugio Dondena, probabilmente provato per l’abuso fisico
delle ultime ore, mi accascio stremato al suolo e saluto
definitivamente Ermanna approfittando del tiepido sole per
un sonnellino ristoratore. Al rifugio trovo Graziano ad
attendermi, gentilissimo si premura delle mie condizioni
che, gli confesso, sono incredibilmente ottime; ci prendiamo
un buon caffè ed ho pure il tempo delle ultime scherzose
battute con il quartetto della Val Sesia rilassati al sole.
Percorro in solitudine il comodo stradone carrozzabile fino
al rifugio Miserin, l’ultimo prima della Fenetre de
Champorcher, il passo che ormai appare vicino sopra
l’incantevole lago: tutta l’enorme vallata emana un senso di
grandiosa eleganza, nonostante una grossa linea
elettrificata che, orrida cicatrice, ne abbelisce anzi per
contrasto i lineamenti.
Al
rifugio ostento allegria ed al gestore, anche lui trailer,
che mi dice che di buon passo dovrei impiegare un’oretta
scarsa ad arrivare sulla sommità replico impiegandoci
quaranta minuti. Sul colle un fotografo mi immortala in
almeno venti pose diverse (ne avessi poi ritrovata una di
quelle foto!). Sono in cima all’ultimo passo, sotto di me,
anche se non si vede, a meno di venti Km di discesa c’è
l’arrivo. Devo essere contento per forza! Il forte mal di
piedi non mi fa però correre i due Km ripidi, ma tutto
sommato agevoli, che portano al rifugio Sogno, ultimo
ristoro della gara dove sosto abbondantemente più del
necessario. I successivi 5 Km sono in leggerissima discesa,
ma ogni quarto d’ora devo fermarmi a riposare; poi una
discesa più ripida nel bosco dove i vari escursionisti che
trovo mi dicono che a meno di dieci Km c’è Cogne ed allora i
dolori sono sempre più forti e faccio sempre più piano,
mentre almeno una quindicina di trailer, forse più, mi
sfilano. A Lillaz mancano meno di 5 Km, tutti pianeggianti,
su un agevole stradone sterrato: ne faccio almeno una buona
metà conversando con una coppia di olandesi in vacanza, ma
poi loro mi lasciano allungando il passo perchè hanno un
appuntamento. L’ultima mezz’ora la passo a ringraziare tutti
coloro che incontro e che si complimentano per l’impresa,
alcuni in maniera distaccata, quasi di circostanza, ma molti
sinceramente ammirati e contenti ..... eppure c’e qualcosa
che non va!
Il
passaggio sotto lo striscione dell’ arrivo al prato di Sant’Orso
da dove ero partito praticamente una settimana prima non è
gioiosamente trionfale come quello che mi ero prefigurato
ormai da mesi, ma non certo perchè freddo e distaccato come
i detrattori della competizione non hanno mancato di
sottolineare sui forum (la speaker ha fatto anzi di tutto
per stimolarmi, intervistandomi calorosamente) e tantomeno
perchè non c’è nessun amico o conoscente a festeggiarmi
(avrebbe fatto sicuramente piacere, ma per me è la
normalità). Durante una vacanza si può essere contenti
divertendosi all’inverosimile e riandarvi poi con la mente
sempre con rinnovato piacere, ma nel preciso momento che sta
per finire, quando sai che da domani sarai di nuovo dietro
la scrivania davanti al mondo da cui eri riuscito a fuggire
non puoi non essere carezzato da un’ombra di malinconia
..... i brasiliani la chiamano saudade, nel continente nero
si dice mal d’Africa, ad Aosta e dintorni è conosciuto come
mal di Tor!
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