Non é neppure passata una
settimana dall’ultimo cameo letterario, sit venia
arrogantiae meae, che sono nuovamente a cimentarmi nella
mistica narrazione di un ultra trail. Uscito con il tibiale
destro malamente infiammato dal Tuscany, ma ormai iscritto
all’Abbots Way cui non avevo mai preso parte data la
continua concomitanza con la gara in Valdorcia, ho deciso
comunque di andar a dare un’occhiata e respirare l’atmosfera
della decana delle ultra 100Km italiane, giunta alla sua
decima edizione.
Eccomi dunque sabato 29
Aprile a Bobbio, sede di arrivo, prendere la navetta che
dopo due ore e mezzo di viaggio via autostrada, giá di per
sé un bell’incoraggiamento, mi deposita insieme a molti
altri volti ormai noti a Pontremoli, sede di partenza.
Ritiro il pacco gara con una bella felpa insieme ad un
anonimo pettorale: contrasti di una gara che, divenuta
famosa nel tempo, ha conservato l’iniziale spirito
amatoriale. A seguire il briefing nell’incantevole teatro
della Rosa, gremito in platea ed ogni ordine di palchi dagli
oltre trecento partecipanti molti dei quali, visto come si
rivolge loro l’organizzatore, sembrano essere frequentatori
abituali. Non prendo parte al pasta party che si tiene
anch’esso in una sontuosa location, l’imponente castello del
Piagnaro, perché con Caterina Corti e suo marito Francesco,
ignobilmente sfruttato come autista, preferiamo prendere
possesso delle camere in un agriturismo a qualche Km di
distanza. Sperduto nei bucolici clivi della Lunigiana, il
casolare offre altresí accoglienti camere, nonostante la
mancanza del televisore lamentata da Caterina,
impossibilitata cosí a guardare la puntata in prima serata
di Amici .... d’altronde anche gli atleti piú prestanti
hanno le loro debolezze!
Il pezzo forte é peró
rappresentato dai proprietari, una giovane coppia
decisamente fuori dai grigi schemi della monotonia borghese,
che sembra uscita dalla penna di Jack Kerouac. Li informiamo
che dovremo lasciare presto le camere all’indomani e, con
squisita gentilezza, si offrono di darci colazione in ogni
caso alle 5 del mattino. Eccomi cosí a corroborare i
testaroli al pesto e la pizza della sera precedente con le
creazioni della Matilde Vicenzi fricchettona: squisita torta
al ginger e menta, piú impegnative cioccolato e Guinness e
soprattutto lavanda (sembrava di ingoiare un arbre magique);
non disdegno neppure il classico con cornetto caldo,
marmellate albicocca e mirtilli, yougurt e miele ....
infine, coup de theatre, ci viene offerto di assaggiare
della pappa reale appena tolta dall’arnia, ancora dentro il
telaino in legno: provate ad indovinare chi, unico dei tre,
ha accettato di buon grado l’esperimento.
Alle 7 in punto parto
nelle retrovie del gruppo da Piazza della Repubblica a
Pontremoli, camminando imbottigliato in uno stretto vicolo
ed attraversando il bel ponte in pietra sul Magra; mentre i
primi sono giá chissá dove, tutti intorno a me si augurano
vicendevolmente buon viaggio ed un bel cammino salvo poi,
quando entriamo in un infinito rettilineo asfaltato, muovere
i primi passi a corsa. Da quasi quattro giorni avevo il
terrore perfino di simulare tale movimento ed in effetti il
responso, con un immediato ed intenso bruciore alla tibia, é
tragico. Mentre tento invano di assuefarmi al dolore provo a
convincere me stesso di piantarla sin da subito, perché non
potrá che andare peggio, con il probabile risultato di
essere comunque costretto al ritiro e dover poi sostenere
tempi di recupero ancora piú lunghi. Fatto sta che arriviamo
alla prima salita e, obbligati a camminare, il dolore si
attenua quasi del tutto. Quando troviamo ancora dei pezzi da
corricchiare tra i castagneti ho ormai alle spalle una
decina di Km e ne mancano una ventina al primo check-point
(punto di arrivo di coloro che percorrono la gara in 4
staffette): decido quindi di arrivare almeno fin lá, tanto
per vedere cosa offre il paesaggio. Dialogando amabilmente
con una veterana degli ultra trail, la grande Marina
Mocellin, il tempo corre via veloce di guado in guado salvo
alcune difficoltá nell’attraversamento del Torrente Verde;
per non bagnarsi i piedi c’é da fare un piccolo salto: io
non so come reagirá la gamba e lei teme che le sue sian
troppo corte .... ad ogni modo, impavido paladino di questa
ballata di trailer un po’ sciancati, allungo la falcata e
fortunatamente arrivo sul masso dell’altra sponda senza
capificcare nell’acqua offrendo poi cavallerescamente aiuto
alla dama.
Ad un certo punto, quasi
inaspettatamente, lasciamo il bosco ed entriamo in un Km di
aspro crinale piuttosto tecnico, che offre meravigliose
vedute della Lunigiana a destra e della Val Taro a sinistra,
fino al passo del Borgallo, dove comincia ahimé una lunga,
interminabile e dolorosa discesa. I primi 4 Km, tra pini
faggi e castagni, riesco a tollerarli riuscendo in qualche
modo a camminare veloce, ma alla fine, su un lungo tratto di
asfalto prima e monotoni campi poi, le fitte diventano
praticamente un patimento continuo e devo rappresentare uno
spettacolo davvero straziante se non un solo trailer dei
tanti che mi raggiungono manca di chiedere notizie sulla mia
salute ... a tutti rispondo pazientemente spiegando come giá
sia partito infortunato, paradossalmente quasi vantandomene
ed ancor piú assurdamente riscuotendo l’ammirazione di
alcuni: ho cosí l’ennesima conferma come i problemi piú
seri, della categoria in genere, siano mentali piuttosto che
fisici!
Al ristoro di Borgo Val
di Taro la gamba sopra l’elastico del calzino é orrendamente
gonfia, sotto é bollita e fa male solo a sfiorare la pelle
con le dita: mi rendo conto che il danno é ormai fatto e che
tanto vale provare a continuare ad arrivare fino a Bardi,
metá gara, dove troveró una borsa con il cambio. Dopo
qualche pezzo di focaccia ed una birretta tonificante,
attraverso il Taro sulla passerella pedonale e mi incammino
lungo il fiume nel senso della corrente. All’imbocco di una
ripida erta su strada in cemento, il senso di rabbioso
auto-biasimo che mi pervade si trasforma in inaspettata
verve agonistica: sfodero le racchette dalla tasca dello
zaino ed allungatele come la spada laser di Obi Wan Kenobi,
approfittando del fatto che in salita non ho dolore,
comincio a spingere come un indemoniato: al ritmo della
marcia imperiale di Star Wars, con ancora indosso la termica
nera del mattino, ho l’incedere minaccioso di Dart Fener nel
riprendere e lasciare sul posto tutti coloro che mi avevano
via via superato dal passo del Borgallo in poi. Questo
exploit mi dá morale e senza troppo dolore cammino di buon
passo tutto il dolce mangia e bevi che conduce al ristoro
del Pradetto, dove una birra tenuta al fresco del ruscello,
salame, focaccia ed una squisita torta di mele fatta in casa
mi ridonano finalmente il buon umore dei tempi migliori.
Riesco cosí a patire di
buon grado la discesa fino al ristoro di Osacca, per poi
caricarmi nuovamente nel successivo strappo in salita. Da
qui in poi c’é un continuo saliscendi, con tratti brevi ma
ripidi sia in salita che in discesa, attraversando ameni
borghi in pietra, antichi lavatoi, sperdute chiese ed
antichi mulini che costellano queste belle vallate
dell’Appennino Emiliano. Visto il mio passo rallentato
quando la strada scende, sono costretto a spingere in salita
e cosí mi trovo a fare per un paio d’ore l’elastico con un
gruppetto di amici che, con passo da veri pellegrini,
corrichiano in discesa dove mi riprendono e rifiatano
allegramente ad ogni scollinamento: vedendomi sempre passare
mulinando le racchette a capo basso, credono di essersi
imbattuti in uno di quegli imperterriti agonisti che
rimangono tali anche navigando nelle piú ignominiose
retrovie .... i soldati giapponesi del Pacifico, come a me
piace chiamarli. Appaiono cosí sorpresi trovandomi seduto al
ristoro a fianco della bella chiesa di Monastero mentre
inzuppo pezzi di focaccia in un abbondante bicchiere di vino
rosso: chiarita la mia infelice situazione, segue un bel
momento di convivialitá.
Dopo un paio di Km
tendenzialmente in salita, comincia la temuta discesa fino
al fondo valle dove il Noveglia confluisce nel Ceno. Il
crescente dolore é compensato dalla magnifica vista di Bardi
con l’imponente castello che si erge duecento metri sopra il
fiume dall’altro lato, arroccato su uno scoglio di diaspro
che la luce serotina ammanta di corrusca magia. Superati i
due fiumi lungo i ponti della strada asfaltata, l’erta che
conduce sotto i contrafforti del maniero, incuneandosi con
il suo millenario acciottolato nel vecchio borgo, mi spoglia
di racchette estensibili e maglia termica rivestendomi di
bordone e saio: ho finalmente compenetrato l’essenza del
percorso e dato un senso alla mia presenza sulla via degli
abati.
Al ristoro del 65° Km
recupero la borsa con il cambio e mi tolgo le scarpe per dar
sollievo ai piedi, con il terrore che il gonfiore sopra il
calzino possa scendere al piede impedendomi poi di calzarle
nuovamente: ormai l’idea di rititrarmi neppure mi sfiora.
Sorbito un buon minestrone con riso, indossata maglia calda,
giacca e frontale, lascio Bardi alle 8 di sera e mi
incammino sulle prime rampe che condurranno sulla cima del
monte Lama, il punto piú alto della gara con i suoi quasi
1400m. Come al solito la salita é mia fida alleata e la
percorro a passo sostenuto riprendendo molti concorrenti; mi
ostino a tenere la frontale spenta cercando di abituare la
vista alle tenebre sempre piú scure fin quando, aggirando
una pozza nel centro del sentiero, mi conficco il moncone di
un ramo nel fianco destro: ho fiato giusto per esclamare un
secco epiteto decisamente non confacente al vocabolario di
un abate! Con il bruciore al costato che anestetizza quello
alla gamba, raggiungo comunque di buon passo la tenda con un
punto acqua dove, visto il freddo pungente che mi sta
intorpidendo le mani, mi fermo giusto il tempo per un té
caldo e continuo sui pratoni pelati fino ad arrivare, dopo
un ultimo ripido strappo, alla sommitá del monte; qui un
rigurgito di modernitá con l’abbagliante sbrilluccichio
delle cittadine verso la bassa valle dell’Arda e la pianura,
Salsomaggiore, Fidenza, Fiorenzuola e dintorni immagino.
Nonostante il primo
tratto di discesa sia a dir poco assassino ed anche i
successivi Km di sentieri all’interno del bosco non siano
troppo agevoli, la buona predisposizione d’animo mi consente
di raggiungere il ristoro di Bruzzi, allestito sotto la
veranda della locale trattoria, camminando in maniera meno
sciancata del solito. Qui l’ostessa continua a sviaggiare
con vassoi di ottima coppa e salame cui non offro resistenza
alcuna, completando l’amena parentesi con un buon caffé
espresso. Il responsabile del ristoro, pensando di
incoraggiarmi, mi comunica che a Farini, prossimo check
point della gara al 95° Km, mancano circa 13Km, praticamente
quasi tutti in discesa: vi lascio immaginare il calvario di
esser costretto a camminarli tutti, molti dei quali su
agevoli sterrati ed addirittura tratti asfaltati che
attraversano paesi spettrali nel cuore della notte, mentre
tutte le persone che avevo ripreso da Bardi e probabilmente
altre ancora mi superano nuovamente corricchiando in
scioltezza.
Giunto nello stanzone
della proloco di Farini, mi tolgo le scarpe e mi butto
sdraiato sul pavimento: spossato non tanto per
l’affaticamento quanto per la stanchezza da sonno in sé
(sono infatti le 3 del mattino passate) e soprattutto,
svanita l’eccitazione della notte per boschi che sempre mi
stuzzica, per la frustrazione accumulata dopo venti ore di
invaliditá permanente. Mancano 30Km, in pratica una lunga
salita ed una lunga discesa, ed é evidente che ormai la devo
portare in fondo. Come al solito cerco e trovo conforto nel
cibo: finite tutte le scorte di minestrone, i magnifici
addetti al ristoro improvvisano una succulenta spaghettata
aglio olio e peperoncino, solo leggermente piccante, che
tutti i pellegrini superstiti mostrano di apprezzare.
Intorno alle quattro mi incammino non troppo convinto
risalendo il Nure lungo la sua sponda sinistra, dove un
largo stradone sterrato rifatto ed alcuni palazzi sventrati
sono la terribile testimonianza della rovinosa alluvione del
settembre 2015. Dopo un paio di Km praticamente pianeggianti
comincia la lunga salita che, seppur affrontata piuttosto
svogliatamente, mi consente di riprendere alcune persone,
ripreso a mia volta e superato soltanto da una simpatica
coppia di amiche, un’infermiera ed una dottoressa cui avevo
chiesto consiglio al ristoro e che assai gentilmente, dopo
tutte le raccomandazioni del caso, mi aveva consegnato una
pastiglia di Aulin in previsione dell’ultima, da me
temutissima, discesa.
Giunto alla localitá di
Bolderoni mi godo per alcuni istanti la magnifica alba di un
rosa talmente intenso che ammanta quasi incendiandola tutta
la val Nure e mostra non troppo distante davanti a noi
l’ultimo crinale da valicare. Finita la salita, mi fermo a
riposare per una decina di minuti con un collega presso un
fontone salvo scoprire poi che appena svoltato, dopo 50m,
era allestito un ristoro, dove mi fermo un altro buon quarto
d’ora sorbendo del té caldo. Il fatto che abbia ancora otto
ore a disposizione per fare gli ultimi 17Km, non aiuta a
motivarmi (ne impiegheró ancora 5 alla fine); i tre Km che
su un facilissimo stradone sterrato in falso piano conducono
alla Sella dei Generali lungo il crinale dell’Aserei,
spartiacque tra Nure e Trebbia, sono a dir poco
imbarazzanti: li cammino con passetti parkinsoniani,
oltretutto lenti, ed ogni scusa, dal sistemare lo zaino ai
bisogni corporali, é buona per una pausa.
Mentre il cielo si
rannuvola minacciosamente, ripenso a come me la sia gufata
appena 24 ore prima quando, parlando con la Mocellin della
bella giornata, avevo tracotantemente sbandierato come in
tutte le gare dell’anno in corso non avessi ancora preso una
goccia d’acqua, che puntualmente arriva all’inizio della
discesa: 43 anni e non aver ancora imparato a tacere! Si
tratta comunque di poche stille che non bagnano neppure il
primo tratto di asfalto iniziale ed il sassoso sentiero (un
indicibile tormento con l’antidolorifico appena preso e non
ancora in grado di fare effetto), che inaspettamente e
fortunatamente immette nuovamente in un lungo tratto
asfaltato in cui comincia a manifestarsi il sollievo della
taumaturgica pastiglia. La pioggia si fa piú fitta proprio
quando entro in un ripido e difficile tratturo in discesa,
comunque abbastanza riparato dal fitto castagneto e che, con
l’aulin completamente in circolo, riesco a camminare senza
troppi problemi; faccio l’ingresso a Coli, ultimo ristoro
della gara a 7Km dal traguardo, sotto una pioggia battente
senza ormai nessun trailer in vista, né davanti né dietro.
L’addetto mi offre scherzosamente un passaggio in macchina
all’arrivo ed io lo supplico di non insistere troppo ....
Quando dopo uno strappo
in salita intraprendo l’ultimo tratto di discesa, la
precipitazione assume il carattere di diluvio biblico e,
pensando alla scena del cimitero di Frankenstein Junior, mi
chiedo come potrebbe andare peggio. La risposta non si fa
attendere, con le frecce che indicano di proseguire lungo
quello che mi vien difficile definire sentiero: un ripido
budello con infiniti salti tra rocce che, dilavate dalla
pioggia, risplendono lucenti la loro minacciosa untuositá.
Puntellandomi con i bastoni ed attento a non far compiere
neppure il piú piccolo slittamento alle suole, punito
altresí da lancinanti fitte, mi muovo con l’estrosa perizia
di quegli improbabili escursionisti della domenica che
intraprendono difficili sentieri di alta montagna in camicia
e mocassini all’uscita dal ristorante. In qualche modo vedo
comunque Bobbio sempre piú vicina e riesco finamente a
godermi l’ultimo Km sull’asfalto che costeggia la riva
destra del Trebbia, ma soprattutto attraversando il fiume
sullo stupefacente Ponte Gobbo, 11 arcate e quasi 300m di
lunghezza per questa sinuosa opera ultramillenaria che
permette di valicare il larghissimo greto sottostante con
l’emozionante saliscendi di montagne russe d’antan.
Concludo il mio percorso
espiatorio, abate improbabile ma sicuro penitente, davanti
al porticato dell’abbazia di San Colombano, dove i vincitori
sono in attesa della premiazione: mentre recupero le borse
saluto una raggiante Caterina terza assoluta tra le donne,
giunta circa otto ore prima. Nello stato in cui sono mi
porto via lo zaino del vincitore Fabio di Giacomo (arrivato
da ormai 16 ore!) e quando sono giá alle docce ricevo la
telefonata di Francesco che, resosi conto di quanto
successo, mi avverte dello scambio .... chissá, senza la sua
solerzia, sarei forse oggi in possesso della sacra reliquia,
un potente talismano con cui affrontare i pellegrinaggi
venturi .....
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