Le Alpi Orobie,
tecnicamente prealpi in quanto frapposte tra pianura Padana
e Valtellina, dove l’Adda le separa dai contrafforti della
catena principale, non hanno nulla di invidiare per
maestositá e bellezza alle Retiche loro sorelle maggiori,
sono anzi teatro di uno spettacolare endurance trail, di
gran lunga il piú duro cui mai abbia mai preso parte e il
cui nome non sembra affatto casuale: OUT oltre ad esserne
l’acronimo (Orobie Ultra Trail) é anche la miglior
caratterizzazione dello stato psichico dei partecipanti che,
soprattutto se non dotati di grosse cilindrate e spiccate
attitudini alpinistiche, devono necessariamente essere FUORI
DI TESTA.
A dir la veritá ci avevo
giá provato l’anno scorso, ma una condizione ancor piú
precaria del solito ed il terreno veramente difficile
avevano fatto sí che fossi fermato al primo cancello orario
della gara. L’insana eccitazione di passaggi adrenalinici
provata in neppure un terzo di gara aveva di gran lunga
sopravanzato la delusione per la scottante debacle e cosí,
fin da subito, mi ero ripromesso di ritentare nel 2017: un
po’, lo confesso, per voglia di riscatto, ma soprattutto per
la trepidante curiositá di scoprire quali eccitanti sorprese
serbasse ancora questo allucinante percorso.
Eccomi cosí la mattina di
venerdí 28 Luglio, a distanza di un anno esatto, di nuovo a
bordo di uno dei quattro autobus che da Bergamo, sede di
arrivo, trasportano i concorrenti a Clusone, dove é posta la
partenza. Giá qui si avverte un’atmosfera particolare: non
siamo neppure trecento partenti a fronte degli oltre
novecento che prenderanno parte alla gara “corta” sugli
ultimi settanta Km del tracciato; drizzando gli orecchi ai
vari dialoghi appare evidente come questa élite sia in gran
parte composta, se non da veloci campioni, perlomeno da
gente con il pelo sullo stomaco, ben avvezza a tutte le
possibili asperitá montane. Nonostante in tale riunione sia
poco piú di un pulcino bagnato, dall’alto dei 40 Km di
esperienza dell’edizione passata faccio da mentore a due
amici abitué dei trail nostrani, il fiorentino Alessandro ed
il romano Enrico, mettendoli in guardia sulle estreme
difficoltá del percorso e la conseguentemente ingannevole
permissivitá dei cancelli orari, ampi solo in apparenza.
Mentre il primo é fisicamente tiratissimo ed appare giá
concentrato per la gara, con Enrico inganniamo l’ora di
attesa a Clusone mangiandoci un energetico e gustoso panino
con bresaola e grana e sorbendo poi un buon caffé
comodamente seduti ad un bar in una delle piazze dell’ameno
borgo.
Quando mancano ormai meno
di venti minuti alla partenza effettuo la punzonatura e mi
metto nuovamente a sedere sotto i portici della pittoresca
piazza dell’Orologio: per esperienza, considerato il tempo
che dovró stare sulle gambe, ogni minuto di carico tolto
agli arti inferiori potrá venire utile. Parte il countdown
sulle note di un pezzo composto appositamente per la gara ed
intitolato “Orobic Path”: magari negli ultimi anni di grandi
trail mi ero abituato un po’ troppo bene tra Vangelis,
Morricone and company, ma questo assolo di violino, nella
sua lugubre disperazione, piú che a intraprendenti
esploratori verso l’affascinante ignoto mi fa pensare ad una
meschina colonna di condannati senza speranza verso i forni
dei lager nazisti ..... data una lucidatina apotropaica alla
bigiotteria di famiglia prendo il via alle dieci in punto,
rigorosamente nelle ultimissime linee.
Fortunatamente lungo il
Km di anello per le vie di Clusone a mettermi di buon umore
ci pensa il calorosissimo tifo delle centinaia di persone
presenti, che sembrano sinceramente coinvolte e partecipi:
veramente una gradita sorpresa rispetto ai tristi standard
italiani ed anche, per quanto rammenti, alla partenza dello
scorso anno .... segno evidente che questa manifestazione
comincia a far breccia ed avere reputazione nella comunitá
locale, condizione fondamentale per il successo.
Ripassati sulla linea di
partenza in piazza dell’Orologio, lasciamo l’abitato
puntando decisamente all’insú: un ripido sentiero prima sul
fianco poi sulla cresta di un avamposto montano, dove si
creano imbottigliamenti snervanti per alcuni ma ristoratori
per il sottoscritto, ci conduce ad un pratone dove in
prossimitá della chiesetta Blum é allestito un punto acqua
non ufficiale, ben gradito sia per la calura affrontata a
quote ancora basse sia soprattutto per l’assembramento di
tifosi che incitano tra urla e campanacci.
Non ho bisogno di alzare
lo sguardo (ne ho impresso il ricordo nella mente dall’anno
precedente) per vedere l’erto pascolo dove, dritto per
dritto, un’infinita colonna di pellegrini si erge a fatica
per guadagnare la cresta ... e che cresta! Nei successivi Km
sembriamo condannati a percorrerla in eterno, tremenda
beatitudine, sospesi tra un ripidissimo crinale erboso a
destra ed il vuoto assoluto sulla Valzurio a sinistra. Da
principio il sentiero é ben tracciato e, se non per la
scivolosa erba tagliata, facilmente percorribile. Man mano
peró che si doppiano le varie punte di questa dorsale che
punta al pizzo della Presolana, l’ambiente diventa sempre
piú roccioso, il fianco destro sempre piú prossimo alla
verticale, che su quello sinistro rimane perfettamente a
piombo. Dopo una breve discesa segue sempre una salita piú
lunga che porta ad un picchettino piú alto e cosí se ne
scoprono all’infinito, dove all’orizzonte va perdendosi la
fila sempre piú sgranata di trailers. Un paio di persone,
probablmente in preda alle vertigini, hanno intanto creato
un tappo e siamo ormai una ventina ad essere accodati; viene
istintivo poggiare le mani sul sentiero e stare con il corpo
il piú possibile a destra, dove per quanto ripido il pendio
non dá il senso del vuoto: per passare rimane quindi
soltanto l’angusta via del cielo che percorro per una
cinquantina di metri saltellando di roccia in roccia sospeso
nel nulla.
Dopo lo scarico di
adrenalina che giustifica pienamente la mia presenza in
questa follia, trovatomi finalmente strada libera e grazie
alla relativa freschezza, mi godo con maggiore prudenza
questo magnifico e sempre piú selvaggio crinale dove, su un
tratto di parete verticale da scalare a quattro zampe,
raggiungo Enrico che, valutando il tratto bello tosto anche
per una sky-marathon, comincia a rendersi conto della
fondatezza delle mie indicazioni.
Quando la cresta sembra
ormai diventare terreno per alpinisti puri, a quasi 2000m di
quota dai 600 della partenza, la lasciamo scendendo a destra
approfittando di un pascolo molto meno ripido dei precedenti
e di un ghiaione che ci fa perdere velocemente quota, da
riguadagnare lungo un sentiero sotto costa che ci porta a
valicarla nuovamente al passo Olone; superato il ristoro al
rifugio Rino Olmo si continua a scendere verso la Valzurio,
che poi cominciamo a risalire dall’altro lato superando il
successivo ristoro alla baita di Pagherola Alta, dove mi
ricarico con del cocomero dolcissimo ed una fonte che butta
acqua gelata. La salita continua poi lunga, ma non
durissima, con la magnifica vista della Presolana cui stiamo
praticamente girando intorno; al passo Scagnello una breve
discesa tra le rocce ci conduce al rifugio Luigi Albani,
dove é previsto il primo ristoro pesante. Un po’ di pasta in
brodo con abbondante formaggio é ció che ci vuole dopo
cinque ore e mezza di gara necessari a percorrere 20Km.
Al prossimo ristoro
mancano 10Km, tre in salita e sette prevalentemente in
discesa a giudicare dall’altimetria: facile direte voi ....
e pure questo é il tratto dove l’anno scorso mi cossi
irrimediabilmente. La prima parte di salita é molto agevole
su uno stradone carrozzabile che porta al rifugio Cima
Bianca, poi ripida lungo la pista da sci fino allo Chalet
dell’Aquila ed infine sentiero single track con cui
raggiungiamo il crinale proprio sotto i contrafforti del
Monte Ferrante. I successivi Km sono ancora immersi in un
ambiente meravigliosamente selvaggio: lungo spettacolari
traversi sottocosta aggiriamo il monte guadando sterminati
ghiaioni e proseguiamo in quota con un dolce saliscendi che
ci porta da un costone all’altro in questo affascinante
paesaggio lunare fin quando, raggiunto l’ennesimo crinalino
da valicare in prossimitá del passo di Petto, dall’altro
lato ci attende la lunga discesa che, dopo un primo tratto
attrezzato con catene, prosegue su un terreno infame di
pietre che sembrano appositamente disposte nella
configurazione piú efficace per ostacolare l’avanzamento. Mi
accodo ad un gruppetto di ragazzi che tiene un buon passo
riuscendo a corricchiare in questo campo minato che sembra
non finire mai; finalmente un tratto agevole, anche se in
leggera salita su un pascolo erboso e di nuovo discesa fino
ad un breve strappo che conduce al passo della Manina, dove
mi fermo a riposare sui gradoni della chiesetta facendo due
chiacciere con i volontari prima di affrontare l’ultimo
tratto di discesa che porta al ristoro di Lizzola, ben
visibile nel fondovalle 500 metri piú in basso.
Quando vi giungo, seppur
non nelle tragiche condizioni in cui versavo l’anno scorso,
sono abbastanza provato e della pasta in brodo mi riesce
sorbire solo quest’ultimo, poiché la prima si ammassa in
bocca senza che riesca a mandarla giú: pessimo segnale.
Tento di riposarmi il piú possibile disteso in terra ad una
decina di metri da Oscar, collega trailer con cui faremo
tratti insieme, che sta rigurgitando anche le budella: dopo
30Km ed otto ore e mezza ci sono giá scene apocalittiche che
normalmente, in questo tipo di gare, avvengono dopo distanze
ben maggiori.
Sento che anche per me é
troppo presto per ripartire, ma rimangono quattro ore e
mezza alla chiusura del cancello orario alla prima base vita
di Valbondione, cui mancano ancora 13Km: vista l’andatura e
le difficoltá del percorso non un gran margine, vi assicuro.
Ripercorso quindi un breve tratto del fondovalle in
direzione opposta da quella cui ero arrivato, comincio a
risalire il torrente sul lato destro (sinistra orografica)
lungo un sentiero che diventa assai ripido superando i salti
che l’acqua compie agevolmente con spettacolari cascatelle.
L’andatura é ormai da crisi completa, con la fatica che ad
ogni passo mi fa chiudere lo stomaco: prima di vomitare, che
spesso rappresenta un punto di difficile ritorno, appena
superato il torrente ed a circa metá salita decido di
fermarmi e riposare prendendomi tutto il tempo necessario;
ormai mi conosco e so benissimo che insistere in queste
condizioni significherebbe doversi fermare molto piú a lungo
poco piú avanti. Vedo cosí sfilare diversi colleghi, tra cui
anche Oscar, tutti inesorabilmente segnati dalla fatica e
con uno in particolare che lamenta dolori alla vescica.
Passa anche un signore fuori gara che, partito in anticipo
da Clusone, percorre il primo tratto di gara in escursione
e, sinceratosi delle mie condizioni, mi offre gentilmente
della frutta che per il momento rifiuto. Dopo una ventina di
minuti, quando sento di esser abbastanza riposato, mi
incammino nuovamente con un passo lentissimo che peró mi
consente di percorrere l’impervia salita senza ulteriori
soste, salvo qualche bevuta di gelida acqua surgiva che
sembra scendere per ogni dove da queste montagne. Supero, a
loro volta fermi a riposare, alcuni di quelli che mi avevano
sfilato e, proprio sullo scollinamento, raggiungo
l’escursionista cui chiedo se abbia sempre le pesche che mi
aveva offerto e che ora finalmente il mio stomaco reclama.
Proprio quando sto per ripartire arriva sulla sommitá anche
il concorrente che si lamentava per la vescica: stravolto
dal dolore, con le mani cinte sul basso ventre, si accascia
in ginocchio e comincia a piangere come un bambino .... una
scena del genere non la vedevo dal 4K dell’anno scorso, ma
dopo 200Km percorsi e non poco piú di 30!
Mentre lo sventurato
viene soccorso dall’escursionista e da un volontario
presente sul passo, mi incammino sull’impegnativa cengia
esposta dove l’anno scorso, scivolando di notte, rischiai
l’osso del collo rimanendo aggrappato sul ciglio sospeso nel
vuoto. Essendo quest’anno partiti due ore prima,
fortunatamente é ancora giorno e, con la necessaria
attenzione, posso godermi il magnifico panorama delle
cascate del Serio che dalla diga, con un triplice salto di
oltre 300 metri, precipita verso Valbondione. Arrivato
all’incrocio con il sentiero principale che sale dal paese,
devo peró imboccarlo in direzione opposta per raggiungere il
ristoro e punto di controllo al rifugio Antonio Curó,
incontrando cosí altri trailer che stanno invece giá
scendendo. La deviazione risulta comunque ben ripagata dalla
bottiglia di birra fresca disponibile al ristoro, che non
esito a tracannare di gusto! Mancano 6Km di discesa agevole
per un dislivello di 1000 metri ed un’ora e tre quarti al
cancello; indossata la luce frontale me ne riparto fiducioso
corricchiando e, percorrendo il tratto a doppio senso,
incontro Enrico che sta salendo verso il rifugio e che
sprono usando il suo caratteristico incitamento in
romanesco: “Dajeeee!”; pur non perdendo il naturale buon
umore, mostra il suo costernato stupore per la durezza della
gara definendola “questo trail inumano”, un’espressione che
rimarrá impressa nella mia mente per il contesto ed il tono
sommessamente disincantato con cui la pronuncia.
Finalmente, a meno di
mezz’ora dal tempo limite, accolto da scroscianti applausi
(immeritati) e calorosi incitamenti (necessari) delle
numerose persone presenti al piccolo luna park allestito
proprio all’esterno del palazzetto, giungo alla base vita di
Valbondione dove, cambiata la maglietta e risistemate le
fasciature delle bitorzolute estremitá podaliche, mi stendo
vicino ad Oscar sui gradoni della palestra, tentando di
recuperare il piú possibile. Nel frattempo, quasi sulla
chiusura del cancello, fa il suo ingresso anche Enrico, con
cui ho giusto il tempo di scambiare due parole perché, ad
un’ora e mezza dalla barriera oraria in uscita, decido che
per me é tempo di ripartire se voglio avere qualche chance
di superare anche le successive. Sono talmente eccitato di
andare a scoprire il tratto a me sconosciuto e considerato
il piú difficile e spettacolare di tutta la gara, da non
avvertire neppure la stanchezza ... ad ogni buon conto
cammino senza forzare i successivi agevoli 5 Km lungo una
pista ciclabile che, costeggiando il Serio, scende
dolcemente a valle, risparmiandomi il piú possibile per lo
spauracchio in arrivo ....
....ed eccomi all’imbocco
della salita del Brunone, agli 800 metri scarsi di
altitudine di Fiumenero. Le prime rampe su un erta
carrozzabile sono abbastanza dure e le numerose frontali di
coloro che tornando a ritroso commentano i passaggi di amici
che erano andati a vedere in quota, ma anche di una decina
di trailer che si ritirano dicendo di averne abbastanza,
sono un’avvisaglia abbastanza preoccupante. Ci vuol comunque
ben altro per scoraggiarmi, anzi sono sempre piú curioso di
scoprire che cosa ci aspetterá mai! In realtá, dopo il primo
strappo, mi trovo a percorrere un lungo tratto non troppo
ripido, costeggiando il torrente avvolto nella tetra
oscuritá dei faggi che la lampada a malapena riesce a
penetrare. Uscito peró dal bosco, il vallone si impenna in
una gola rocciosa, che riesco comunque a percorrere di buon
passo stringendo i denti fino al ristoro allestito tramite
elitrasporto a circa metá salita, dove la gola sembra
aprirsi in una piú ampia conca. I volontari mi informano che
siamo a circa 1500m di quota e che in poco piú di 2Km
arriveremo ai 2300m del rifugio: tanto mi basta per decidere
di stendermi qualche minuto a riposare sorbendo un té caldo
mentre scruto il cielo ammantato di stelle .... che peró si
rivelano non tutte esser tali. Sentendo infatti gli addetti
al ristoro che commentano la spettacolaritá di quel certo
passaggio, mi rendo conto che alcuni di questi astri si
muovono lentamente, evidentemente non in orbita nel
firmamento ma attaccati ad una scura parete rocciosa; dotato
di un certo acume e di uno spiccato senso dell’orientamento,
metto insieme le varie informazioni e comprendo che, se Dio
vorrá, tra qualche ora ci saró anch’io a percorrere quella
prodigiosa ellittica .... non esito cosí un istante a
prendere un altro bicchiere di té e prolungare la sosta!
L’oscuritá, celando in
parte il cammino, aiuta a non demoralizzarsi, ma alzando lo
sguardo al cielo le bandierine catarifrangenti che segnalano
il percorso funzionano sin troppo bene, mostrando una
sbrilluccicosa verticale che punta ad un piú luminescente
astro diverse centinaia di metri in piombo sopra la mia
testa: il rifugio Baroni al Brunone suppongo. La stanchezza
adesso si fa sentire e non riesco a scalare piú di
cento-duecento metri senza esser costretto a sedermi
comodamente su una delle innumerevoli poltrone naturali
offerte da questa sterminata landa rocciosa; ogni volta
spengo la frontale proponendomi di ripartire non piú tardi
della successiva stella cadente che avvisteró .... alle
volte mi sono rimesso in cammino pago soltanto, si fa per
dire, del firmamento sí stupendamente ammantato altre, lo
confesso, ne ho anche aspettati un paio di meteoriti!
I desideri espressi si
sono alla fine avverati ed ecco che, benché stravolto,
faccio ingresso al rifugio, chiedendo all’istante di un
letto per coricarmi. Probabilmente non ci rimango piú di un
quarto d’ora, vuoi perché, carico di adrenalina, di dormire
non se ne parla nemmeno, ma soprattutto sono giá le 4 e
mezza del mattino e devo arrivare al rifugio Calvi, prossimo
cancello a 10Km di distanza, entro le nove. Mentre mangio un
po’ di pasta in brodo fa il suo ingresso Enrico insieme al
gruppo con le scope: anche lui chiede di un letto e mi
confessa, con un po’ di rassegnata amarezza, che non é
affatto convinto di continuare, come in effetti non fará.
Lasciato il rifugio
percorro un centinaio di metri dello stesso sentiero in
direzione opposta ma, al bivio dove si biforca precipitando
sulla sinistra nella valle da dove eravamo giunti, adesso
proseguiamo a dritto imboccando il tratto piú spettacolare
di tutto il tracciato. A differenza di coloro che mi hanno
preceduto, fatta eccezione per i primissimi uomini che lo
hanno affrontato con la luce della sera precedente,
l’atavica lentezza mi permette di percorrere questi due,
forse tre, Km di stretta cengia esposta, quasi tutta
attrezzata con corda, oniricamente immerso nella luce di
un’alba fiabesca. Finalmente sono sull’eterea orbita che
poche ore prima osservavo, impietrito di angoscioso anelito,
dal fondo di quella Valle del Salto che ora sto dominando
mentre pudicamente si sveste dalla leggera bruma del
mattino. Panorami del genere funzionano meglio di qualsiasi
barretta energetica: insieme ad Oscar, ammirato di cotanta
bellezza, me ne vado su questo stretto cordolo a volte in
contropendenza con spavalda sicurezza, i bastoni saldi nella
mano sinistra e la destra pronta ad aggrapparsi alla corda
in caso di necessitá.
Percorriamo tutto
l’anello superiore di questo imponente anfiteatro naturale
fino a superare la gola con il torrente da cui risaliamo,
prima tra le rocce poi tra i pascoli traversando canaloni
ancora ricoperti di neve, fino al bivacco Frattini,
continuando poi per una breve ma ripidissima cresta, dove
distacco Oscar, per poi scendere nel canalone che risale al
passo di Valsecca, cima Coppi della gara con i suoi 2500
metri. Poche decine di metri prima di giungervi, mentre
osservo un gruppo di quattro stambecchi scendere dal costone
della montagna ben piú agilmente del sottoscritto, mi
accorgo di uno che sta brucando un cespuglio a qualche metro
di distanza dal sentiero: riesco ad avvicinarmi fin quasi ad
accarezzarlo quando questo, con un poderoso balzo, decide di
lasciarmi solo a sbrigarmela con le umane fatiche.
Sono ormai preda
dell’estasi da trasverberazione, in erotico congiungimento
con la natura ed immagino di avere dipinta in volto
l’espressione della Santa Teresa del Bernini mentre affronto
la ben piú agevole discesa sull’altro versante,
corricchiando tra le distese erbose che diventano ripide
pietraie nel superare i salti del terreno dove i numerosi
torrenti giocano a formare amene cascate, il cui melodioso
precipitare perpetua in me la mistica beatitudine. Ed ecco
l’empireo! Sull’altra sponda del piccolo Lago Rotondo
avvisto il rifugio Calvi che, dopo metá periplo
dell’incantevole specchio d’acqua, raggiungo con venti
minuti di anticipo sul limite orario.
Sul pratone di fronte al
ristoro mi congiungo con la ventina di colleghi distesi a
riposare al tiepido sole; se non proprio beati siamo consci
di aver perlomeno lasciato l’atrocemente splendido inferno
alla volta del salvifico purgatorio. Con un certo
compiaciuto sadismo sembriamo attendere le nove del mattino
per vedere chi ce la fará a raggiungere il rifugio entro il
tempo massimo: ecco arrivare Oscar, due Cechi, Guido con
Marcella giusto a tre minuti dallo scadere ed un po’ piú
tardi, purtroppo fuori tempo massimo, un gruppetto con le
scope. Mentre alcuni si ritirano ed altri sono giá
ripartiti, non mi alzerei mai dalla tenera erbetta fin
quando mi rendo conto di esser rimasto l’ultimo che intende
proseguire e devo fare un fischio alle scope giá incamminate
perché mi aspettino: mi ritrovo cosí ultimo pulito ...
l’unica altra volta che mi era accaduto, ad Amalfi un anno
fa, finí con un triste abbandono.
Questa volta sono peró in
uno stato d’animo completamente diverso ed anche la
condizione fisica é tutto sommato buona; aggiungi il fatto
che le due scope mi incitano a correre questo tratto agevole
su una carrareccia in discesa per guadagnare tempo sulle
successive asperitá, che in meno di un quarto d’ora
raggiungo Oscar proprio nel punto in cui i due Cechi si sono
distesi a riposarsi, obbligando le nostre guardie del corpo
a diventare le loro. Confesso che ció mi toglie un
po’d’ansia, preferendo di gran lunga proseguire del mio
passo senza forzare; per la cronaca non siamo ancora al
settantesimo Km, circa metá gara: l’ultimo cancello orario,
alle 9 di sera, non é poi cosí incombente e sono convinto di
potermi gestire al meglio. Con Oscar passiamo piacevoli
momenti e siamo tutto sommato ottimisti per il prosieguo,
scambiandoci pareri concordi sulla straordinaria bellezza,
proporzionale ahimé alla difficoltá, del tragitto fin qui
percorso quando, terminata la discesa, imbocchiamo la Valle
dei Frati: pur affrontando le prime rampe con assoluta
calma, il mio compagno appare da subito in difficoltá
staccandosi. Raggiunta la diga e superatala, dopo aver
costeggiato il lago su un’aspra pietraia, comincia un
tratto, almeno per me, inaspettatamente durissimo. Di masso
in masso la salita diviene sempre piú ripida fino a
diventare un calvario nell’ultimo Km: il fondo del sentiero
si trasforma in un apparente agevole minuscolo pietrisco,
quasi terra battuta che peró, vista l’eccessiva pendenza,
non permette alle suole delle scarpe di far presa: passato
un certo lasso di tempo a far un piccolo passo avanti ed uno
e mezzo a ritroso, mi rendo conto che tenendo i piedi a
papera, con le punte divergenti, riesco a non scivolare
indietro e cosí, improbabile palmipede alpino, raggiungo un
gruppetto di 5-6 persone trainate dalla locomotiva Marcella.
Finito il tratto piú
duro, tutti piú o meno sconcertati, ci fermiamo a rifiatare
appollaiati sugli enormi massi; volgendo lo sguardo a valle
vedo arrancare i due Cechi ma non scorgo ancora Oscar e le
scope. Mentre gli altri sono giá ripartiti, aspetto la
coppia slava per compiere l’ultimo tratto che, attraversando
una conca in quota, conduce al passo di Aviasco, dove una
comoda discesa ci porta al Lago Colombo che costeggiamo
lungo la riva destra e, attraversata la diga, arriviamo
lungo un terreno piú o meno pianeggiante ai Laghi Gemelli
..... superato l’ulteriore sbarramento raggiungiamo
finalmente il ristoro all’omonimo rifugio, congiungendosi
con il percorso corto che era partito da Carona alle 8 del
mattino. Qui ritrovo Giovanni, compagno di appartamento di
Enrico, presentatomi alla partenza di Clusone. Attese le
scope che mi informano come Oscar purtroppo non ce la
facesse ad andare avanti sulla salita e sia tornato
indietro, me ne riparto costeggiando i laghi sulla destra
(sinistra orografica) e poi per la facile salita che conduce
al passo Gemelli, da dove corro praticamente tutta la
discesa, a tratti piuttosto tecnica, che da 2100m porta ai
1400 del rifugio Alpi Corte. Mentre sorseggio una
corroborante birra media trovo Alessandro, il trailer
fiorentino che era sempre stato piuttosto avanti ma che, mi
confessa, percorse poche centinaia di metri della successiva
salita é tornato indietro deciso ad abbandonare. Non sembra
in cattive condizioni e provo a convincerlo a ripartire,
visto il margine temporale che ancora abbiamo a
disposizione: purtroppo, dicendosi svuotato, conferma la sua
inamovibile decisione. Rimango ancora un buon quarto d’ora a
discorrere con lui e Giovanni che nel frattempo mi ha
raggiunto ed insieme al quale intraprendo la salita
prossima della lista. Nella prima parte, su un comodo
pascolo non ripidissimo, é lui ad aspettarmi e trainarmi;
dopo il passo del Branchino, nel ripido ghiaione che conduce
alla bocchetta di Corna Piana sono invece io a fare il ritmo
con l’inesorabile andatura da trattorino diesel dei tempi
migliori. Superata la sella attraversiamo in quota la valle
del Mandrone, l’ultima selvaggia cartolina di alta montagna
della gara ... almeno quella che ho avuto occasione di
vedere alla luce del giorno.
Giunti insieme al ristoro
di Capanna 2000, Giovanni ed io siamo accolti come dei
vecchi amici dagli splendidi volontari: ci fanno sedere e
gareggiano nel servirci al tavolo con qualsiasi desiderata;
una giovane dottoressa si premura delle nostre condizioni e
ci chiede se abbiamo bisogno di un qualsivoglia intervento
fisio-terapico; é oggettivamente dura abbandonare un
ambiente cosí accogliente ed infatti durante il bivacco ci
raggiungono e ripartono un altro paio di trailer ....
fortunatamente le scope non sono ancora in vista e non ci
sentiamo sotto pressione, anche perché mancano 10Km,
prevalentemente in discesa, alla successiva base vita di
Zambla, dove l’ultimo cancello orario chiude tra circa tre
ore.
In realtá la mia andatura
é piú lenta del previsto, vuoi per un po’ di dolore alle
unghie degli alluci, che dopo tutte queste discese devono
essersi ammaccate, vuoi per una incipiente e direi
giustificata stanchezza sistemica. Giunti ad una malga dove
un simpatico cartello avverte della presenza di un cane
scorbutico cosí come tale il suo padrone, mi arrischio a
salutare il pastore che con le esatte fattezze del nonno di
Heidi se ne sta sulla soglia, ricevendone fortunatamente in
cambio un’amichevole risposta. Finito il primo tratto di
discesa, dobbiamo risalire verso la forcella del monte Grem;
giunto sulla sommitá lascio andare Giovanni per non
rallentarlo ulteriormente e decido di riposare un altro
po’, in modo da affrontare al meglio i circa 800 metri in
picchiata che mi attendono.
Non senza fatica giungo
finalmente a Zambla con ben venti minuti di margine e cerco
subito la zona con le brande per riposarmi; la prima amara
scoperta é che nello zaino non trovo il cerotto che uso per
rifasciarmi i piedi (scopriró di averlo erroneamente riposto
nella sacca che l’organizzazione mi aveva trasportato a
Valbondione e che riavró soltanto all’arrivo) ....
fortunatamente non ho vesciche e per le unghie doloranti
decido di cambiare le scarpe con quelle che avevo messo
nella sacca trasportata qui: purtroppo, essendo lo stesso
modello e lo stesso numero, senza averne un sensibile
giovamento. Quando riesco finalmente a distendermi, passano
meno di dieci minuti che un volontario giunge ad avvertire
Giovanni e me, gli unici rimasti nella palestra, che le
nuove scope stanno ripartendo con gli ultimi intenzionati a
proseguire e vogliono tenerci uniti in quanto sono previsti
forti temporali nella notte e ci aspetta un tratto ancora
tecnicamente impegnativo.
Nella fretta ed al buio,
si é fatta intanto notte, ributto tutto dentro lo zaino alla
bell’ e meglio (imperizia che, vedremo,rischieró di pagar a
caro prezzo) e mi presento in riga alle 21:40 di sabato
sera, dopo quasi 36 ore di gara e circa 100Km percorsi. Ed
ecco il manipolo degli ultimi dei Mohicani: due fresche
scope, la grintosa Marcella, il coriaceo Guido, un austero
polacco, il brillante Giovanni ... e l’ineffabile
sottoscritto. Dopo un tratto su un ampio stradone sterrato
pressoché pianeggiante, imbocchiamo il sentiero sulla
sinistra che ci riporterá ai 1900m del passo della Forca,
proprio quando cominciano a a cadere le prime gocce di
pioggia. Alcuni indossano la giacca impermeabile ma, facendo
ancora piuttosto caldo, preferisco bagnarmi di acqua
piuttosto che di sudore. Marcella viene messa capo cordata e
tiene un ritmo infernale, tanto che le viene chiesto piú
volte di rallentare; in ogni caso ci consente di raggiungere
il culmine relativamente alla svelta, neppure avendo il
tempo di notare la certa pericolositá del sentiero nella sua
parte finale, con tratti che le nostre guide ci dicono
esposti e resi scivolosi dalla pioggia che intanto ha preso
a scendere copiosa.
Continuiamo a scendere
rimanendo in gruppo anche se nella conca dell’Alben
dall’altro lato, fatta eccezione per il primo tratto di
discesa, gli ampi pascoli che attraversiamo non sembrano
troppo difficoltosi. Giunti al ristoro Baita Piazzoli ci
rintaniamo all’interno per trovare rifugio dalla pioggia
ormai scrosciante; avrei voglia di dormire, ma sotto la
giacca ho la maglietta fradicia e gli altri, in primis le
scope cui via radio giungono notizie di concorrenti fermi
nei piú disparati covili per ripararsi dal temporale,
sembrano aver fretta di ripartire. Nonostante comincino i
primi fulmini la visibilitá é buona e ci viene dato il via
libera: notando che l’andatura é molto rallentata per il
terreno sempre piú scivoloso, rompo gli indugi e tento di
avvantaggiarmi. Dopo un paio di scivoloni in questa infida
argilla montana, calibro il passo alle mie possibilitá e
procedo tutto sommato speditamente lungo il continuo
saliscendi di stradelli tra prati erbosi e boscaglia, sotto
un diluvio di proporzioni ormai bibliche, accompagnato dai
rombi dei tuoni che, fortunatamente ancora lontani, arrivano
alcuni secondi dopo il baleno ... fin quando una saetta
bastarda non mi dá neppure il tempo di riavermi
dall’acceccante bagliore che l’assordante boato, arrivato
praticamente in contemporanea, mi fa sobbalzare come un
gatto cui vengono schioccate le dita nelle orecchie mentre
dorme (... reminescenze di studi di zoologia infantile):
quando riatterro il piede sinistro scivola irrimediabilmente
e cado in spaccata da ostacolista trovandomi immerso nella
melma, salvo il gomito che si ferma sbattendo su una roccia
lí divinamente disposta. Le empie invocazioni risuonan piú
forte dei tuoni, anche perché per rialzarmi sono costretto
a rigirarmi a terra su me stesso continuando a introgolarmi
nel fango; quando finalmente mi ergo in piedi sembro Rambo
che appare da sotto la scarpata di fango nella foresta
vietnamita: ma con un’espressione molto piú incazzata!
Giunto in solitaria al
ristoro di Barbata, i volontari asseragliati sotto il
tendone mi dicono che la gara é momentaneamente interrotta
per le avverse condizioni meteo e che per ripartire devo
comunque attendere le scope; accetto volentieri l’invito ad
aspettare all’interno di una vicina baita, dove al caldo
della stufa a legna trovo altri sei concorrenti fermati. La
pioggia mi ha rilavato dal fango, ma sono in condizioni
comunque pietose: sotto la giacca ho la maglietta
completamente fradicia che tolgo e strizzo; vorrei mettermi
la termica ma, aprendo lo zaino, mi rendo conto che nella
fretta della partenza dalla base vita di Zambla, dopo averla
usata la notte precedente, l’ho riposta non imbustata ed
adesso é anch’essa intrisa d’acqua; ho l’opzione di una
maglietta asciutta che tengo sempre di scorta dentro un
sacco di nylon, ma se la mettessi ora la comprometterei
subito con la giacca ancora bagnata al di dentro: nel
frattempo é infatti arrivato il manipolo che avevo
distanziato e ci informano che chi vuole continuare deve
partire adesso. Mi rimetto la giacca sopra la maglietta
zuppa e quando, lasciato il tepore della baita, mi ritrovo
ancora sotto il diluvio comincio a bettere i denti e tremare
come in preda alle convulsioni. Raggiunto il tendone del
ristoro trovo il polacco che viene fermato a forza perché
sta vomitando e mestamente seduto sulla panca Giovanni, con
il quale basta incrociare lo sguardo per capirne
immediatamente la drammatica resa ..... tale aggettivo non
vuol essere e non é un’iperbole: per quanto si tratti
soltanto, alla fin fine, di una competizione podistica
amatoriale ed il contesto (un caldo riparo a pochi metri con
l’assistenza dei volontari) non abbia alcunché di
pericoloso, sia che lo consideriate un atleta, un semplice
partecipante o magari un cretino cui tale gara non era stata
prescritta dal dottore, per colui che ha dato tutto se
stesso svuotandosi completamente per arrivare dove adesso si
trova, rappresenta in quel momento, se non fortunatamente
l’unica, un’importante ragione di vita!
Malgrado non abbia alcuna
intenzione di ritirarmi, mi rendo conto che i brividi di
freddo che mi stanno scuotendo sono prossimi a
costringermici, quando finalmente ci muoviamo e, per quanto
si raccomandino di rimanere uniti, al contempo le scope ci
danno il via libera a nostro rischio e pericolo. Sono
costretto ad andare il piú forte possibile per riscaldarmi e
cosí mi metto in scia di Maurizio e Robin (un olandese) che,
fermati per oltre un’ora, scattano subito come lepri. Senza
dirci una parola stiamo sempre abbastanza vicini, pensando
soltanto ad avanzare il piú velocemente possibile di comune
accordo, come un plotoncino di ciclisti in fuga: lungo
l’infinito e, almeno potenzialmente, corribile saliscendi in
single track nel bosco, ci alterniamo al comando e
raggiungiamo intorno alle tre e mezzo del mattino il ristoro
sul Monte Poieto, da cui un infida discesa argillosa lungo
la pista da sci ci conduce all’abitato di Selvino ed alle
sue, confesso ormai agognate, strade asfaltate, lungo le
quali siamo superati da Guido che tiene un passo da discreto
super maratoneta e che con il suo caratteristico accento
lombardo-svizzero mi apostrofa bonariamente: “Uhé Toscana,
allora ci vuoi proprio arrivare a Bergamo eh?!”
Intanto sono al ristoro
del 115° Km, ha smesso di piovere da un po’ e siamo ormai
sotto i 1000m di altitudine: é finalmente l’ora di indossare
la maglietta asciutta e togliere quella fradicia insieme
alla giacca. Un po’ di formaggio accompagnato con l’ottima
birra artigianale aromatizzata al ginger e scatta la
missione apparentemente impossibile di percorrere gli ultimi
25Km in tre ore e mezza, cosí da arrivare a Bergamo entro le
nove del mattino, ossia le 47 ore di tempo massimo. Lungo la
ripida provinciale che si inerpica verso il Monte di Nese la
prolungata assenza di sonno presenta il conto e, non
riuscendo piú a tenere gli occhi aperti, proseguo a zig zag
da un lato all’altro della strada, rischiando persino di
finire in fossetta. Al momento di lasciare l’asfalto per
imboccare l’ultimo tratto di salita su sentiero, mi rendo
conto che non c’e verso di andare avanti cosí: ormai a
Bergamo, anche se in ritardo, ci arriveró comunque, ma
adesso é ora di dormire!
Mi stendo su un muretto a
bordo strada proprio mentre in auto giunge un volontario;
dopo essersi sincerato delle mie condizioni mi offre,
splendido come gli oltre settecento suoi colleghi, una
coperta e si mette ad aspettare in macchina. Sono trenta
minuti scarsi di sonno profondo che mi rimettono al mondo:
quando riapro gli occhi sta albeggiando e l’addetto cui
riporto la coperta mi dice che, se voglio aspettare un po’,
stanno arrivando le scope con l’ultima concorrente: sette,
otto persone mi hanno quindi superato mentre dormivo.
Preferisco continuare del mio passo e, giunto alla forcella
da dove sconfinata si apre la caliginosa vista della Pianura
Padana, non scorgo nessuno davanti e neppure dietro; imbocco
con estrema cautela e lentezza l’ultimo tratto di infame
discesa della gara, abbastanza dolorante ed ormai rassegnato
ad arrivare fuori tempo massimo. Nel punto in cui il
sentiero diventa meno ripido e piú agevole trovo un ristoro:
la donna che due giorni or sono mi aveva ritirato le sacche
per le basi vita, riconoscendomi mi fa i complimenti e mi
comunica che il tempo limite é stato aumentato di ottanta
minuti per via del temporale che ha fermato la gara.
Paradossalmente quest’informazione,
invece di rallentarmi ulteriormente, rimettendomi di buon
umore mi sprona ad aumentare leggermente l’andatura.
Cionostante ad un certo punto ho come la senzazione di
essere braccato e voltandomi scorgo Marcella venir giú a
capo basso per il facile sentiero portandosi dietro le
scope; il terzetto si ferma giusto per rifiatare e, alla mia
sorpresa per l’impegno con cui si stanno prodigando alla
luce dell’estensione del tempo massimo, mi dicono che questa
sará applicata soltanto a coloro che sono stati
effettivamente fermati e non per gli altri: facendo due
conti, i miei 15 massimo 20 minuti di stop a Barbata non
sono assolutamente un margine rassicurante e decido di
unirmi a loro. Eccomi cosí immerso per un’ora abbondante in
una Cavalleria Rusticana in salsa orobica, con Marcella che
corre praticamente sempre ed ovunque; ho addirittura la
sensazione che lo faccia non solo per stare entro il limite
ma anche, guidata dall’innato agonismo femminile, per un
certo desiderio di staccarmi. A mia volta capisco che lei é
la mia ancora di salvezza e che se la lascio andare non
muoveró piú un singolo passo di corsa: si ripropone cosí una
situazione analoga alla prima edizione del Tuscany Crossing
del 2013, quando posavo i piedi lí dove li aveva messi un
secondo prima il vecchio compagno d’avventura Simone Fusi
.... con la differenza che la leprottina siciliana da tergo
offre ben maggiori soddisfazioni rispetto al cinghialotto
nostrano.....
Sono talmente concentrato
nel tallonare passo passo l’indomita trailer che neppure
penso alle mie povere giunture, ognuna delle quali rischia
di saltare ad ogni passo percorso con tanto dissennato
ardore: le fitte di dolore che provengono da ogni parte del
corpo sembrano come annullarsi a vicenda. Entrando in una
ripida discesa asfaltata, ormai preda di completa demenza
prestazionale, do sfogo al parossismo agonistico lasciando
andare giú le gambe senza freni. Pur vedendomi da fuori come
un keniano biondo, penso piuttosto di apparire, agli occhi
dei mattinieri domenicali che incontro via via, come uno di
quei vecchi podisti sciancati che letteralmente si ammazzano
ad ogni gara per entrare in categoria e di cui mi sono
sempre fatto beffe .... perlomeno non occupando la
penultima posizione assoluta, loro!
Fatto sta che, superato
il penultimo ristoro alla Maresana senza praticamente
fermarmi, percorro il successivo tratto con il 24° tempo
assoluto della gara a fronte delle posizioni dalla 120° alla
132° (l’ultima dei classificati) occupate in tutti gli altri
tratti. Dopo aver ripreso altri due concorrenti nella parte
finale della discesa, mi trascino fino all’ultimo ristoro
dove comincia la salita finale, tutta su asfalto anch’essa,
che ci porterá in cima a Bergamo Alta. Vi incontro
tantissimi podisti che, usciti per la sgambatella
domenicale, si complimentano ed incoraggiano per l’ultima
manciata di Km che mi dividono dal traguardo. Purtroppo le
campane della cittá battono inesorabili nove fatidici
rintocchi e l’effetto rebound sul sottoscritto é devastante:
arrivato allo scollinamento mi vengon fuori tutti insieme i
dolori accantonati nelle ultime due ore e per percorrere
quattrocento metri di discesa devo appoggiarmi ai muri delle
case. Mi riprendo peró con gli incitamenti dei molti
presenti davanti alla Porta S.Alessandro, da dove faccio
l’ingresso nella cittá vecchia e, dopo alcuni vicoli e
piazzette, mi ritrovo sul palco dell’arrivo in Piazza
Vecchia, celebrato dallo speaker ed applaudito da una
discreta folla di curiosi che sta aspettando gli ultimi eroi
.... fortunatamente tutti classificati dai benevoli
organizzatori.
In condizioni
semi-cadaveriche sulla navetta che mi trasporta alle docce
del Palanorda a Bergamo Bassa sorrido beffardo con me
stesso, vedendo nel volontario che dopo avermi dato la
coperta all’alba adesso fa pure da autista la faccia di
Sordi nei Nuovi Mostri, mentre a bordo della Rolls Royce
scarrozza per Roma lo sventurato ferito in cerca di un
ospedale e recita il suo monologo perfettamente calzante con
il sottoscritto, sostituendo montagna a mare: “Un giorno
mi sono incazzato e ho detto basta: mi compro una barca e
faccio il giro del mondo e navigo da solo ecco ... e cosí
compii quest’impresa ... giorno e notte tra cielo e mare,
mare e cielo .... solo nell’immensitá del mare, in assoluta
meditazione, a contatto della natura piú pura ... é allora
che capisci: quanto sei stronzo a compiere queste imprese,
che non servono a un cazzo!”
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