OROBIE ULTRA-TRAIL 2017

 

Bergamo

Km 140    D+ m 9500

28 luglio 2017

MICHELE  ROSATI

   
   

 

DOVE OSANO LE AQUILE

 

Le Alpi Orobie, tecnicamente prealpi in quanto frapposte tra pianura Padana e Valtellina, dove l’Adda le separa dai contrafforti della catena principale, non hanno nulla di invidiare per maestositá e bellezza alle Retiche loro sorelle maggiori, sono anzi teatro di uno spettacolare endurance trail, di gran lunga il piú duro cui mai abbia mai preso parte e il cui nome non sembra affatto casuale: OUT oltre ad esserne l’acronimo (Orobie Ultra Trail) é anche la miglior caratterizzazione dello stato psichico dei partecipanti che, soprattutto se non dotati di grosse cilindrate e spiccate attitudini alpinistiche, devono necessariamente essere FUORI DI TESTA.

A dir la veritá ci avevo giá provato l’anno scorso, ma una condizione ancor piú precaria del solito ed il terreno veramente difficile avevano fatto sí che fossi fermato al primo cancello orario della gara. L’insana eccitazione di passaggi adrenalinici provata in neppure un terzo di gara aveva di gran lunga sopravanzato la delusione per la scottante debacle e cosí, fin da subito, mi ero ripromesso di ritentare nel 2017: un po’, lo confesso, per voglia di riscatto, ma soprattutto per la trepidante curiositá di scoprire quali eccitanti sorprese serbasse ancora questo allucinante percorso.

Eccomi cosí la mattina di venerdí 28 Luglio, a distanza di un anno esatto, di nuovo a bordo di uno dei quattro autobus che da Bergamo, sede di arrivo, trasportano i concorrenti a Clusone, dove é posta la partenza. Giá qui si avverte un’atmosfera particolare: non siamo neppure trecento partenti a fronte degli oltre novecento che prenderanno parte alla gara “corta” sugli ultimi settanta Km del tracciato; drizzando gli orecchi ai vari dialoghi appare evidente come questa élite sia in gran parte composta, se non da veloci campioni, perlomeno da gente con il pelo sullo stomaco, ben avvezza a tutte le possibili asperitá montane. Nonostante in tale riunione sia poco piú di un pulcino bagnato, dall’alto dei 40 Km di esperienza dell’edizione passata faccio da mentore a due amici abitué dei trail nostrani, il fiorentino Alessandro ed il romano Enrico, mettendoli in guardia sulle estreme difficoltá del percorso e la conseguentemente ingannevole permissivitá dei cancelli orari, ampi solo in apparenza. Mentre il primo é fisicamente tiratissimo ed appare giá concentrato per la gara, con Enrico inganniamo l’ora di attesa a Clusone mangiandoci un energetico e gustoso panino con bresaola e grana e sorbendo poi un buon caffé comodamente seduti ad un bar in una delle piazze dell’ameno borgo.

Quando mancano ormai meno di venti minuti alla partenza effettuo la punzonatura e mi metto nuovamente a sedere sotto i portici della pittoresca piazza dell’Orologio: per esperienza, considerato il tempo che dovró stare sulle gambe, ogni minuto di carico tolto agli arti inferiori potrá venire utile. Parte il countdown sulle note di un pezzo composto appositamente per la gara ed intitolato “Orobic Path”: magari negli ultimi anni di grandi trail mi ero abituato un po’ troppo bene tra Vangelis, Morricone and company, ma questo assolo di violino, nella sua lugubre disperazione, piú che a intraprendenti esploratori verso l’affascinante ignoto mi fa pensare ad una meschina colonna di condannati senza speranza verso i forni dei lager nazisti ..... data una lucidatina apotropaica alla bigiotteria di famiglia prendo il via alle dieci in punto, rigorosamente nelle ultimissime linee.

Fortunatamente lungo il Km di anello per le vie di Clusone a mettermi di buon umore ci pensa il calorosissimo tifo delle centinaia di persone presenti, che sembrano sinceramente coinvolte e partecipi: veramente una gradita sorpresa rispetto ai tristi standard italiani ed anche, per quanto rammenti, alla partenza dello scorso anno .... segno evidente che questa manifestazione comincia a far breccia ed avere reputazione nella comunitá locale, condizione fondamentale per il successo.

Ripassati sulla linea di partenza in piazza dell’Orologio, lasciamo l’abitato puntando decisamente all’insú: un ripido sentiero prima sul fianco poi sulla cresta di un avamposto montano, dove si creano imbottigliamenti snervanti per alcuni ma ristoratori per il sottoscritto, ci conduce ad un pratone dove in prossimitá della chiesetta Blum é allestito un punto acqua non ufficiale, ben gradito sia per la calura affrontata a quote ancora basse sia soprattutto per l’assembramento di tifosi che incitano tra urla e campanacci.

Non ho bisogno di alzare lo sguardo (ne ho impresso il ricordo nella mente dall’anno precedente) per vedere l’erto pascolo dove, dritto per dritto, un’infinita colonna di pellegrini si erge a fatica per guadagnare la cresta ... e che cresta! Nei successivi Km sembriamo condannati a percorrerla in eterno, tremenda beatitudine, sospesi tra un ripidissimo crinale erboso a destra ed il vuoto assoluto sulla Valzurio a sinistra. Da principio il sentiero é ben tracciato e, se non per la scivolosa erba tagliata, facilmente percorribile. Man mano peró che si doppiano le varie punte di questa dorsale che punta al pizzo della Presolana, l’ambiente diventa sempre piú roccioso, il fianco destro sempre piú prossimo alla verticale, che su quello sinistro rimane perfettamente a piombo. Dopo una breve discesa segue sempre una salita piú lunga che porta ad un picchettino piú alto e cosí se ne scoprono all’infinito, dove all’orizzonte va perdendosi la fila sempre piú sgranata di trailers. Un paio di persone, probablmente in preda alle vertigini, hanno intanto creato un tappo e siamo ormai una ventina ad essere accodati; viene istintivo poggiare le mani sul sentiero e stare con il corpo il piú possibile a destra, dove per quanto ripido il pendio non dá il senso del vuoto: per passare rimane quindi soltanto l’angusta via del cielo che percorro per una cinquantina di metri saltellando di roccia in roccia sospeso nel nulla.

Dopo lo scarico di adrenalina che giustifica pienamente la mia presenza in questa follia, trovatomi finalmente strada libera e grazie alla relativa freschezza, mi godo con maggiore prudenza questo magnifico e sempre piú selvaggio crinale dove, su un tratto di parete verticale da scalare a quattro zampe, raggiungo Enrico che, valutando il tratto bello tosto anche per una sky-marathon, comincia a rendersi conto della fondatezza delle mie indicazioni.

Quando la cresta sembra ormai diventare terreno per alpinisti puri, a quasi 2000m di quota dai 600 della partenza, la lasciamo scendendo a destra approfittando di un pascolo molto meno ripido dei precedenti e di un ghiaione che ci fa perdere velocemente quota, da riguadagnare lungo un sentiero sotto costa che ci porta a valicarla nuovamente al passo Olone; superato il ristoro al rifugio Rino Olmo si continua a scendere verso la Valzurio, che poi cominciamo a risalire dall’altro lato superando il successivo ristoro alla baita di Pagherola Alta, dove mi ricarico con del cocomero dolcissimo ed una fonte che butta acqua gelata. La salita continua poi lunga, ma non durissima, con la magnifica vista della Presolana cui stiamo praticamente girando intorno; al passo Scagnello una breve discesa tra le rocce ci conduce al rifugio Luigi Albani, dove é previsto il primo ristoro pesante. Un po’ di pasta in brodo con abbondante formaggio é ció che ci vuole dopo cinque ore e mezza di gara necessari a percorrere 20Km.

Al prossimo ristoro mancano 10Km, tre in salita e sette prevalentemente in discesa a giudicare dall’altimetria: facile direte voi .... e pure questo é il tratto dove l’anno scorso mi cossi irrimediabilmente. La prima parte di salita é molto agevole su uno stradone carrozzabile che porta al rifugio Cima Bianca, poi ripida lungo la pista da sci fino allo Chalet dell’Aquila ed infine sentiero single track con cui raggiungiamo il crinale proprio sotto i contrafforti del Monte Ferrante. I successivi Km sono ancora immersi in un ambiente meravigliosamente selvaggio: lungo spettacolari traversi sottocosta aggiriamo il monte guadando sterminati ghiaioni e proseguiamo in quota con un dolce saliscendi che ci porta da un costone all’altro in questo affascinante paesaggio lunare fin quando, raggiunto l’ennesimo crinalino da valicare in prossimitá del passo di Petto, dall’altro lato ci attende la lunga discesa che, dopo un primo tratto attrezzato con catene, prosegue su un terreno infame di pietre che sembrano appositamente disposte nella configurazione piú efficace per ostacolare l’avanzamento. Mi accodo ad un gruppetto di ragazzi che tiene un buon passo riuscendo a corricchiare in questo campo minato che sembra non finire mai; finalmente un tratto agevole, anche se in leggera salita su un pascolo erboso e di nuovo discesa fino ad un breve strappo che conduce al passo della Manina, dove mi fermo a riposare sui gradoni della chiesetta facendo due chiacciere con i volontari prima di affrontare l’ultimo tratto di discesa che porta al ristoro di Lizzola, ben visibile nel fondovalle 500 metri piú in basso.

Quando vi giungo, seppur non nelle tragiche condizioni in cui versavo l’anno scorso, sono abbastanza provato e della pasta in brodo mi riesce sorbire solo quest’ultimo, poiché la prima si ammassa in bocca senza che riesca a mandarla giú: pessimo segnale. Tento di riposarmi il piú possibile disteso in terra ad una decina di metri da Oscar, collega trailer con cui faremo tratti insieme, che sta rigurgitando anche le budella: dopo 30Km ed otto ore e mezza ci sono giá scene apocalittiche che normalmente, in questo tipo di gare, avvengono dopo distanze ben maggiori.

Sento che anche per me é troppo presto per ripartire, ma rimangono quattro ore e mezza alla chiusura del cancello orario alla prima base vita di Valbondione, cui mancano ancora 13Km: vista l’andatura e le difficoltá del percorso non un gran margine, vi assicuro. Ripercorso quindi un breve tratto del fondovalle in direzione opposta da quella cui ero arrivato, comincio a risalire il torrente sul lato destro (sinistra orografica) lungo un sentiero che diventa assai ripido superando i salti che l’acqua compie agevolmente con  spettacolari cascatelle. L’andatura é ormai da crisi completa, con la fatica che ad ogni passo mi fa chiudere lo stomaco: prima di vomitare, che spesso rappresenta un punto di difficile ritorno, appena superato il torrente ed a circa metá salita decido di fermarmi e riposare prendendomi tutto il tempo necessario; ormai mi conosco e so benissimo che insistere in queste condizioni significherebbe doversi fermare molto piú a lungo poco piú avanti. Vedo cosí sfilare diversi colleghi, tra cui anche Oscar, tutti inesorabilmente segnati dalla fatica e con uno in particolare che lamenta dolori alla vescica. Passa anche un signore fuori gara che, partito in anticipo da Clusone, percorre il primo tratto di gara in escursione e, sinceratosi delle mie condizioni, mi offre gentilmente della frutta che per il momento rifiuto. Dopo una ventina di minuti, quando sento di esser abbastanza riposato, mi incammino nuovamente con un passo lentissimo che peró mi consente di percorrere l’impervia salita senza ulteriori soste, salvo qualche bevuta di gelida acqua surgiva che sembra scendere per ogni dove da queste montagne. Supero, a loro volta fermi a riposare, alcuni di quelli che mi avevano sfilato e, proprio sullo scollinamento, raggiungo l’escursionista cui chiedo se abbia sempre le pesche che mi aveva offerto e che ora finalmente il mio stomaco reclama. Proprio quando sto per ripartire arriva sulla sommitá anche il concorrente che si lamentava per la vescica: stravolto dal dolore, con le mani cinte sul basso ventre, si accascia in ginocchio e comincia a piangere come un bambino .... una scena del genere non la vedevo dal 4K dell’anno scorso, ma dopo 200Km percorsi e non poco piú di 30!

Mentre lo sventurato viene soccorso dall’escursionista e da un volontario presente sul passo, mi incammino sull’impegnativa cengia esposta dove l’anno scorso, scivolando di notte, rischiai l’osso del collo rimanendo aggrappato sul ciglio sospeso nel vuoto. Essendo quest’anno partiti due ore prima, fortunatamente é ancora giorno e, con la necessaria attenzione, posso godermi il magnifico panorama delle cascate del Serio che dalla diga, con un triplice salto di oltre 300 metri, precipita verso Valbondione. Arrivato all’incrocio con il sentiero principale che sale dal paese, devo peró imboccarlo in direzione opposta per raggiungere il ristoro e punto di controllo al rifugio Antonio Curó, incontrando cosí altri trailer che stanno invece giá scendendo. La deviazione risulta comunque ben ripagata dalla bottiglia di birra fresca disponibile al ristoro, che non esito a tracannare di gusto! Mancano 6Km di discesa agevole per un dislivello di 1000 metri ed un’ora e tre quarti al cancello; indossata la luce frontale me ne riparto fiducioso corricchiando e, percorrendo il tratto a doppio senso, incontro Enrico che sta salendo verso il rifugio e che sprono usando il suo caratteristico incitamento in romanesco: “Dajeeee!”; pur non perdendo il naturale buon umore, mostra il suo costernato stupore per la durezza della gara definendola “questo trail inumano”, un’espressione che rimarrá impressa nella mia mente per il contesto ed il tono sommessamente disincantato con cui la pronuncia.

Finalmente, a meno di mezz’ora dal tempo limite, accolto da scroscianti applausi (immeritati) e calorosi incitamenti (necessari) delle numerose persone presenti al piccolo luna park allestito proprio all’esterno del palazzetto, giungo alla base vita di Valbondione dove, cambiata la maglietta e risistemate le fasciature delle bitorzolute estremitá podaliche, mi stendo vicino ad Oscar sui gradoni della palestra, tentando di recuperare il piú possibile. Nel frattempo, quasi sulla chiusura del cancello, fa il suo ingresso anche Enrico, con cui ho giusto il tempo di scambiare due parole perché, ad un’ora e mezza dalla barriera oraria in uscita, decido che per me é tempo di ripartire se voglio avere qualche chance di superare anche le successive. Sono talmente eccitato di andare a scoprire il tratto a me sconosciuto e considerato il piú difficile e spettacolare di tutta la gara, da non avvertire neppure la stanchezza ... ad ogni buon conto cammino senza forzare i successivi agevoli 5 Km lungo una pista ciclabile che, costeggiando il Serio, scende dolcemente a valle, risparmiandomi il piú possibile per lo spauracchio in arrivo ....

....ed eccomi all’imbocco della salita del Brunone, agli 800 metri scarsi di altitudine di Fiumenero. Le prime rampe su un erta carrozzabile sono abbastanza dure e le numerose frontali di coloro che tornando a ritroso commentano i passaggi di amici che erano andati a vedere in quota, ma anche di una decina di trailer che si ritirano dicendo di averne abbastanza, sono un’avvisaglia abbastanza preoccupante. Ci vuol comunque ben altro per scoraggiarmi, anzi sono sempre piú curioso di scoprire che cosa ci aspetterá mai! In realtá, dopo il primo strappo, mi trovo a percorrere un lungo tratto non troppo ripido, costeggiando il torrente avvolto nella tetra oscuritá dei faggi che la lampada a malapena riesce a penetrare. Uscito peró dal bosco, il vallone si impenna in una gola rocciosa, che riesco comunque a percorrere di buon passo stringendo i denti fino al ristoro allestito tramite elitrasporto a circa metá salita, dove la gola sembra aprirsi in una piú ampia conca. I volontari mi informano che siamo a circa 1500m di quota e che in poco piú di 2Km arriveremo ai 2300m del rifugio: tanto mi basta per decidere di stendermi qualche minuto a riposare sorbendo un té caldo mentre scruto il cielo ammantato di stelle .... che peró si rivelano non tutte esser tali. Sentendo infatti gli addetti al ristoro che commentano la spettacolaritá di quel certo passaggio, mi rendo conto che alcuni di questi astri si muovono lentamente, evidentemente non in orbita nel firmamento ma attaccati ad una scura parete rocciosa; dotato di un certo acume e di uno spiccato senso dell’orientamento, metto insieme le varie informazioni e comprendo che, se Dio vorrá, tra qualche ora ci saró anch’io a percorrere quella prodigiosa ellittica .... non esito cosí un istante a prendere un altro bicchiere di té e prolungare la sosta!

L’oscuritá, celando in parte il cammino, aiuta a non demoralizzarsi, ma alzando lo sguardo al cielo le bandierine catarifrangenti che segnalano il percorso funzionano sin troppo bene, mostrando una sbrilluccicosa verticale che punta ad un piú luminescente astro diverse centinaia di metri in piombo sopra la mia testa: il rifugio Baroni al Brunone suppongo. La stanchezza adesso  si fa sentire e non riesco a scalare piú di cento-duecento metri senza esser costretto a sedermi comodamente su una delle innumerevoli poltrone naturali offerte da questa sterminata landa rocciosa; ogni volta spengo la frontale proponendomi di ripartire non piú tardi della successiva stella cadente che avvisteró .... alle volte mi sono rimesso in cammino pago soltanto, si fa per dire, del firmamento sí stupendamente ammantato altre, lo confesso, ne ho anche aspettati un paio di meteoriti!

I desideri espressi si sono alla fine avverati ed ecco che, benché stravolto, faccio ingresso al rifugio, chiedendo all’istante di un letto per coricarmi. Probabilmente non ci rimango piú di un quarto d’ora, vuoi perché, carico di adrenalina, di dormire non se ne parla nemmeno, ma soprattutto sono giá le 4 e mezza del mattino e devo arrivare al rifugio Calvi, prossimo cancello a 10Km di distanza, entro le nove. Mentre mangio un po’ di pasta in brodo fa il suo ingresso Enrico insieme al gruppo con le scope: anche lui chiede di un letto e mi confessa, con un po’ di rassegnata amarezza, che non é affatto convinto di continuare, come in effetti non fará. 

Lasciato il rifugio percorro un centinaio di metri dello stesso sentiero in direzione opposta ma, al bivio dove si biforca precipitando sulla sinistra nella valle da dove eravamo giunti, adesso proseguiamo a dritto imboccando il tratto piú spettacolare di tutto il tracciato. A differenza di coloro che mi hanno preceduto, fatta eccezione per i primissimi uomini che lo hanno affrontato con la luce della sera precedente, l’atavica lentezza mi permette di percorrere questi due, forse tre, Km di stretta cengia esposta, quasi tutta attrezzata con corda, oniricamente immerso nella luce di un’alba fiabesca. Finalmente sono sull’eterea orbita che poche ore prima osservavo, impietrito di angoscioso anelito, dal fondo di quella Valle del Salto che ora sto dominando mentre pudicamente si sveste  dalla leggera bruma del mattino. Panorami del genere funzionano meglio di qualsiasi barretta energetica: insieme ad Oscar, ammirato di cotanta bellezza, me ne vado su questo stretto cordolo a volte in contropendenza con spavalda sicurezza, i bastoni saldi nella mano sinistra e la destra pronta ad aggrapparsi alla corda in caso di necessitá.  

Percorriamo tutto l’anello superiore di questo imponente anfiteatro naturale fino a superare la gola con il torrente da cui risaliamo, prima tra le rocce poi tra i pascoli traversando canaloni ancora ricoperti di neve, fino al bivacco Frattini, continuando poi per una breve ma ripidissima cresta, dove distacco Oscar, per poi scendere nel canalone che risale al passo di Valsecca, cima Coppi della gara con i suoi 2500 metri.  Poche decine di metri prima di giungervi, mentre osservo un gruppo di quattro stambecchi scendere dal costone della montagna ben piú agilmente del sottoscritto, mi accorgo di uno che sta brucando un cespuglio a qualche metro di distanza dal sentiero: riesco ad avvicinarmi fin quasi ad accarezzarlo quando questo, con un poderoso balzo, decide di lasciarmi solo a sbrigarmela con le umane fatiche.  

Sono ormai preda dell’estasi da trasverberazione, in erotico congiungimento con la natura ed immagino di avere dipinta in volto l’espressione della Santa Teresa del Bernini mentre affronto la ben piú agevole discesa sull’altro versante, corricchiando tra le distese erbose che diventano ripide pietraie nel superare i salti del terreno dove i numerosi torrenti giocano a formare amene cascate, il cui melodioso precipitare perpetua in me la mistica beatitudine. Ed ecco l’empireo! Sull’altra sponda del piccolo Lago Rotondo avvisto il rifugio Calvi che, dopo metá periplo dell’incantevole specchio d’acqua, raggiungo con venti minuti di anticipo sul limite orario.

Sul pratone di fronte al ristoro mi congiungo con la ventina di colleghi distesi a riposare al tiepido sole; se non proprio beati siamo consci di aver perlomeno lasciato l’atrocemente splendido inferno alla volta del salvifico purgatorio. Con un certo compiaciuto sadismo sembriamo attendere le nove del mattino per vedere chi ce la fará a raggiungere il rifugio entro il tempo massimo: ecco arrivare Oscar, due Cechi, Guido con Marcella giusto a tre minuti dallo scadere ed un po’ piú tardi, purtroppo fuori tempo massimo, un gruppetto con le scope. Mentre alcuni si ritirano ed altri sono giá ripartiti, non mi alzerei mai dalla tenera erbetta fin quando mi rendo conto di esser rimasto l’ultimo che intende proseguire e devo fare un fischio alle scope giá incamminate perché mi aspettino: mi ritrovo cosí ultimo pulito ... l’unica altra volta che mi era accaduto, ad Amalfi un anno fa, finí con un triste abbandono. 

Questa volta sono peró in uno stato d’animo completamente diverso ed anche la condizione fisica é tutto sommato buona; aggiungi il fatto che le due scope mi incitano a correre questo tratto agevole su una carrareccia in discesa per guadagnare tempo sulle successive asperitá, che in meno di un quarto d’ora raggiungo Oscar proprio nel punto in cui i due Cechi si sono distesi a riposarsi, obbligando le nostre guardie del corpo a diventare le loro. Confesso che ció mi toglie un po’d’ansia,  preferendo di gran lunga proseguire del mio passo senza forzare; per la cronaca non siamo ancora al settantesimo Km, circa metá gara: l’ultimo cancello orario, alle 9 di sera, non é poi cosí incombente e sono convinto di potermi gestire al meglio. Con Oscar passiamo piacevoli momenti e siamo tutto sommato ottimisti per il prosieguo, scambiandoci pareri concordi sulla straordinaria bellezza, proporzionale ahimé alla difficoltá, del tragitto fin qui percorso quando, terminata la discesa, imbocchiamo la Valle dei Frati: pur affrontando le prime rampe con assoluta calma, il mio compagno appare da subito in difficoltá staccandosi. Raggiunta la diga e superatala, dopo aver costeggiato il lago su un’aspra pietraia, comincia un tratto, almeno per me, inaspettatamente durissimo. Di masso in masso la salita diviene sempre piú ripida fino a diventare un calvario nell’ultimo Km: il fondo del sentiero si trasforma in un apparente agevole minuscolo pietrisco, quasi terra battuta che peró, vista l’eccessiva pendenza, non permette alle suole delle scarpe di far presa: passato un certo lasso di tempo a far un piccolo passo avanti ed uno e mezzo a ritroso, mi rendo conto che tenendo i piedi a papera, con le punte divergenti, riesco a non scivolare indietro e cosí, improbabile palmipede alpino, raggiungo un gruppetto di 5-6 persone trainate dalla locomotiva Marcella.

Finito il tratto piú duro, tutti piú o meno sconcertati, ci fermiamo a rifiatare appollaiati sugli enormi massi; volgendo lo sguardo a valle vedo arrancare i due Cechi ma non scorgo ancora Oscar e le scope. Mentre gli altri sono giá ripartiti, aspetto la coppia slava per compiere l’ultimo tratto che, attraversando una conca in quota, conduce al passo di Aviasco, dove una comoda discesa ci porta al Lago Colombo che costeggiamo lungo la riva destra e, attraversata la diga, arriviamo lungo un terreno piú o meno pianeggiante ai Laghi Gemelli ..... superato l’ulteriore sbarramento raggiungiamo finalmente il ristoro all’omonimo rifugio, congiungendosi con il percorso corto che era partito da Carona alle 8 del mattino. Qui ritrovo Giovanni, compagno di appartamento di Enrico, presentatomi alla partenza di Clusone. Attese le scope che mi informano come Oscar purtroppo non ce la facesse ad andare avanti sulla salita e sia tornato indietro, me ne riparto costeggiando i laghi sulla destra (sinistra orografica) e poi per la facile salita che conduce al passo Gemelli, da dove corro praticamente tutta la discesa, a tratti piuttosto tecnica, che da 2100m porta ai 1400 del rifugio Alpi Corte.  Mentre sorseggio una corroborante birra media trovo Alessandro, il trailer fiorentino che era sempre stato piuttosto avanti ma che, mi confessa, percorse poche centinaia di metri della successiva salita é tornato indietro deciso ad abbandonare. Non sembra in cattive condizioni e provo a convincerlo a ripartire, visto il margine temporale che ancora abbiamo a disposizione: purtroppo, dicendosi svuotato, conferma la sua inamovibile decisione. Rimango ancora un buon quarto d’ora a discorrere con lui e Giovanni che nel frattempo mi ha raggiunto ed insieme al quale intraprendo la  salita prossima della lista. Nella prima parte, su un comodo pascolo non ripidissimo, é lui ad aspettarmi e trainarmi; dopo il passo del Branchino, nel ripido ghiaione che conduce alla bocchetta di Corna Piana sono invece io a fare il ritmo con l’inesorabile andatura da trattorino diesel dei tempi migliori. Superata la sella attraversiamo in quota la valle del Mandrone, l’ultima selvaggia cartolina di alta montagna della gara ... almeno quella che ho avuto occasione di vedere alla luce del giorno.

Giunti insieme al ristoro di Capanna 2000, Giovanni ed io siamo accolti come dei vecchi amici dagli splendidi volontari: ci fanno sedere e gareggiano nel servirci al tavolo con qualsiasi desiderata; una giovane dottoressa si premura delle nostre condizioni e ci chiede se abbiamo bisogno di un qualsivoglia intervento fisio-terapico; é oggettivamente dura abbandonare un ambiente cosí accogliente ed infatti durante il bivacco ci raggiungono e ripartono un altro paio di trailer .... fortunatamente le scope non sono ancora in vista e non ci sentiamo sotto pressione, anche perché mancano 10Km, prevalentemente in discesa, alla successiva base vita di Zambla, dove l’ultimo cancello orario chiude tra circa tre ore.

In realtá la mia andatura é piú lenta del previsto, vuoi per un po’ di dolore alle unghie degli alluci, che dopo tutte queste discese devono essersi ammaccate, vuoi per una incipiente e direi giustificata stanchezza sistemica. Giunti ad una malga dove un simpatico cartello avverte della presenza di un cane scorbutico cosí come tale il suo padrone, mi arrischio a salutare il pastore che con le esatte fattezze del nonno di Heidi se ne sta sulla soglia, ricevendone fortunatamente in cambio un’amichevole risposta. Finito il primo tratto di discesa, dobbiamo risalire verso la forcella del monte Grem; giunto sulla sommitá lascio andare Giovanni per non rallentarlo ulteriormente e decido di riposare un altro  po’, in modo da affrontare al meglio i circa 800 metri in picchiata che mi attendono.

Non senza fatica giungo finalmente a Zambla con ben venti minuti di margine e cerco subito la zona con le brande per riposarmi; la prima amara scoperta é che nello zaino non trovo il cerotto che uso per rifasciarmi i piedi (scopriró di averlo erroneamente riposto nella sacca che l’organizzazione mi aveva trasportato a Valbondione e che riavró soltanto all’arrivo) .... fortunatamente non ho vesciche e per le unghie doloranti decido di cambiare le scarpe con quelle che avevo messo nella sacca trasportata qui: purtroppo, essendo lo stesso modello e lo stesso numero, senza averne un sensibile giovamento. Quando riesco finalmente a distendermi, passano meno di dieci minuti che un volontario giunge ad avvertire Giovanni e me, gli unici rimasti nella palestra, che le nuove scope stanno ripartendo con gli ultimi intenzionati a proseguire e vogliono tenerci uniti in quanto sono previsti forti temporali nella notte e ci aspetta un tratto ancora tecnicamente impegnativo.

Nella fretta ed al buio, si é fatta intanto notte, ributto tutto dentro lo zaino alla bell’ e meglio (imperizia che, vedremo,rischieró di pagar a caro prezzo) e mi presento in riga alle 21:40 di sabato sera, dopo quasi 36 ore di gara e circa 100Km percorsi. Ed ecco il manipolo degli ultimi dei Mohicani: due fresche scope, la grintosa Marcella, il coriaceo Guido, un austero polacco, il brillante Giovanni ... e l’ineffabile sottoscritto. Dopo un tratto su un ampio stradone sterrato pressoché pianeggiante, imbocchiamo il sentiero sulla sinistra che ci riporterá ai  1900m del passo della Forca, proprio quando cominciano a a cadere le prime gocce di pioggia. Alcuni indossano la giacca impermeabile ma, facendo ancora piuttosto caldo, preferisco bagnarmi di acqua piuttosto che di sudore. Marcella viene messa capo cordata e tiene un ritmo infernale, tanto che le viene chiesto piú volte di rallentare; in ogni caso ci consente di raggiungere il culmine relativamente alla svelta, neppure avendo il tempo di notare la certa pericolositá del sentiero nella sua parte finale, con tratti che le nostre guide ci dicono esposti e resi scivolosi dalla pioggia che intanto ha preso a scendere copiosa. 

Continuiamo a scendere rimanendo in gruppo anche se nella conca dell’Alben dall’altro lato, fatta eccezione per il primo tratto di discesa, gli ampi pascoli che attraversiamo non sembrano troppo difficoltosi. Giunti al ristoro Baita Piazzoli ci rintaniamo all’interno per trovare rifugio dalla pioggia ormai scrosciante; avrei voglia di dormire, ma sotto la giacca ho la maglietta fradicia e gli altri, in primis le scope cui via radio giungono notizie di concorrenti fermi nei piú disparati covili per ripararsi dal temporale, sembrano aver fretta di ripartire. Nonostante comincino i primi fulmini la visibilitá é buona e ci viene dato il via libera: notando che l’andatura é molto rallentata per il terreno sempre piú scivoloso, rompo gli indugi e tento di avvantaggiarmi. Dopo un paio di scivoloni in questa infida argilla montana, calibro il passo alle mie possibilitá e procedo tutto sommato speditamente lungo il continuo saliscendi di stradelli tra prati erbosi e boscaglia, sotto un diluvio di proporzioni ormai bibliche, accompagnato dai rombi dei tuoni che, fortunatamente ancora lontani, arrivano alcuni secondi dopo il baleno ... fin quando una saetta bastarda non mi dá neppure il tempo di riavermi dall’acceccante bagliore che l’assordante boato, arrivato praticamente in contemporanea, mi fa sobbalzare come un gatto cui vengono schioccate le dita nelle orecchie mentre dorme (... reminescenze di studi di zoologia infantile): quando riatterro il piede sinistro scivola irrimediabilmente e cado in spaccata da ostacolista trovandomi immerso nella melma, salvo il gomito che si ferma sbattendo su una roccia lí divinamente disposta. Le empie invocazioni risuonan piú forte dei tuoni, anche perché per rialzarmi  sono costretto a rigirarmi a terra su me stesso continuando a introgolarmi nel fango; quando finalmente mi ergo in piedi sembro Rambo che appare da sotto la scarpata di fango nella foresta vietnamita: ma con un’espressione molto piú incazzata!

Giunto in solitaria al ristoro di Barbata, i volontari asseragliati sotto il tendone mi dicono che la gara é momentaneamente interrotta per le avverse condizioni meteo e che per ripartire devo comunque attendere le scope; accetto volentieri l’invito ad aspettare all’interno di una vicina baita, dove al caldo della stufa a legna trovo altri sei concorrenti fermati. La pioggia mi ha rilavato dal fango, ma sono in condizioni comunque pietose: sotto la giacca ho la maglietta completamente fradicia che tolgo e strizzo; vorrei mettermi la termica  ma, aprendo lo zaino, mi rendo conto che nella fretta della partenza dalla base vita di Zambla, dopo averla usata la notte precedente, l’ho riposta non imbustata ed adesso é anch’essa intrisa d’acqua; ho l’opzione di una maglietta asciutta che tengo sempre di scorta dentro un sacco di nylon, ma se la mettessi ora la comprometterei subito con la giacca ancora bagnata al di dentro: nel frattempo é infatti arrivato il manipolo che avevo distanziato e ci informano che chi vuole continuare deve partire adesso. Mi rimetto la giacca sopra la maglietta zuppa e quando, lasciato il tepore della baita, mi ritrovo ancora sotto il diluvio comincio a bettere i denti e tremare come in preda alle convulsioni. Raggiunto il tendone del ristoro trovo il polacco che viene fermato a forza perché sta vomitando e mestamente seduto sulla panca Giovanni, con il quale basta incrociare lo sguardo per capirne immediatamente la drammatica resa ..... tale aggettivo non vuol essere e non é un’iperbole: per quanto si tratti soltanto, alla fin fine, di una competizione podistica amatoriale ed il contesto (un caldo riparo a pochi metri con l’assistenza dei volontari) non abbia alcunché di pericoloso, sia che lo consideriate un atleta, un semplice partecipante o magari un cretino cui tale gara non era stata prescritta dal dottore, per colui che ha dato tutto se stesso svuotandosi completamente per arrivare dove adesso si trova, rappresenta in quel momento, se non fortunatamente l’unica, un’importante ragione di vita!

Malgrado non abbia alcuna intenzione di ritirarmi, mi rendo conto che i brividi di freddo che mi stanno scuotendo sono prossimi a costringermici, quando finalmente ci muoviamo e, per quanto si raccomandino di rimanere uniti, al contempo le scope ci danno il via libera a nostro rischio e pericolo. Sono costretto ad andare il piú forte possibile per riscaldarmi e cosí mi metto in scia di Maurizio e Robin (un olandese) che, fermati per oltre un’ora, scattano subito come lepri. Senza dirci una parola stiamo sempre abbastanza vicini, pensando soltanto ad avanzare il piú velocemente possibile di comune accordo, come un plotoncino di ciclisti in fuga: lungo l’infinito e, almeno potenzialmente, corribile saliscendi in single track nel bosco, ci alterniamo al comando e raggiungiamo intorno alle tre e mezzo del mattino il ristoro sul Monte Poieto, da cui un infida discesa argillosa lungo la pista da sci ci conduce all’abitato di Selvino ed alle sue, confesso ormai agognate, strade asfaltate, lungo le quali siamo superati da Guido che tiene un passo da discreto super maratoneta e che con il suo caratteristico accento lombardo-svizzero mi apostrofa bonariamente: “Uhé Toscana, allora ci vuoi proprio arrivare a Bergamo eh?!”

Intanto sono al ristoro del 115° Km, ha smesso di piovere da un po’ e siamo ormai sotto i 1000m di altitudine: é finalmente l’ora di indossare la maglietta asciutta e togliere quella fradicia insieme alla giacca. Un po’ di formaggio accompagnato con l’ottima birra artigianale aromatizzata al ginger e scatta la missione apparentemente impossibile di percorrere gli ultimi 25Km in tre ore e mezza, cosí da arrivare a Bergamo entro le nove del mattino, ossia le 47 ore di tempo massimo. Lungo la ripida provinciale che si inerpica verso il Monte di Nese la prolungata assenza di sonno presenta il conto e, non riuscendo piú a tenere gli occhi aperti, proseguo a zig zag da un lato all’altro della strada, rischiando persino di finire in fossetta. Al momento di lasciare l’asfalto per imboccare l’ultimo tratto di salita su sentiero, mi rendo conto che non c’e verso di andare avanti cosí: ormai a Bergamo, anche se in ritardo, ci arriveró comunque, ma adesso é ora di dormire!

Mi stendo su un muretto a bordo strada proprio mentre in auto giunge un volontario; dopo essersi sincerato delle mie condizioni mi offre, splendido come gli oltre settecento suoi colleghi, una coperta e si mette ad aspettare  in macchina. Sono trenta minuti scarsi di sonno profondo che mi rimettono al mondo: quando riapro gli occhi sta albeggiando e l’addetto cui riporto la coperta mi dice che, se voglio aspettare un po’, stanno arrivando le scope con l’ultima concorrente: sette, otto persone mi hanno quindi superato mentre dormivo. Preferisco continuare del mio passo e, giunto alla forcella da dove sconfinata si apre la caliginosa vista della Pianura Padana, non scorgo nessuno davanti e neppure dietro; imbocco con estrema cautela e lentezza l’ultimo tratto di infame discesa della gara, abbastanza dolorante ed ormai rassegnato ad arrivare fuori tempo massimo. Nel punto in cui il sentiero diventa meno ripido e piú agevole trovo un ristoro: la donna che due giorni or sono mi aveva ritirato le sacche per le basi vita, riconoscendomi mi fa i complimenti e  mi comunica che il tempo limite é stato aumentato di ottanta minuti per via del temporale che ha fermato la gara.

Paradossalmente quest’informazione, invece di rallentarmi ulteriormente, rimettendomi di buon umore mi sprona ad aumentare leggermente l’andatura. Cionostante ad un certo punto ho come la senzazione di essere braccato e voltandomi scorgo Marcella venir giú a capo basso per il facile sentiero portandosi dietro le scope; il terzetto si ferma giusto per rifiatare e, alla mia sorpresa per l’impegno con cui si stanno prodigando alla luce dell’estensione del tempo massimo, mi dicono che questa sará applicata soltanto a coloro che sono stati effettivamente fermati e non per gli altri: facendo due conti, i miei 15 massimo 20 minuti di stop a Barbata non sono assolutamente un margine rassicurante e decido di unirmi a loro. Eccomi cosí immerso per un’ora abbondante in una  Cavalleria Rusticana in salsa orobica, con Marcella che corre praticamente sempre ed ovunque; ho addirittura la sensazione che lo faccia non solo per stare entro il limite ma anche, guidata dall’innato agonismo femminile, per un certo desiderio di staccarmi. A mia volta capisco che lei é la mia ancora di salvezza e che se la lascio andare non muoveró piú un singolo passo di corsa: si ripropone cosí una situazione analoga alla prima edizione del Tuscany Crossing del 2013, quando posavo i piedi lí dove li aveva messi un secondo prima il vecchio compagno d’avventura Simone Fusi .... con la differenza che la leprottina siciliana da tergo offre ben maggiori soddisfazioni rispetto al cinghialotto nostrano.....

Sono talmente concentrato nel tallonare passo passo l’indomita trailer che neppure penso alle mie povere giunture, ognuna delle quali rischia di saltare ad ogni passo percorso con tanto dissennato ardore: le fitte di dolore che provengono da ogni parte del corpo sembrano come annullarsi a vicenda. Entrando in una ripida discesa asfaltata, ormai preda di completa demenza prestazionale,  do sfogo al parossismo agonistico lasciando andare giú le gambe senza freni. Pur vedendomi da fuori come un keniano biondo, penso piuttosto di apparire, agli occhi dei mattinieri domenicali che incontro via via, come uno di quei vecchi podisti sciancati che letteralmente si ammazzano ad ogni gara per entrare in categoria e di cui mi sono sempre fatto beffe ....  perlomeno non occupando la penultima posizione assoluta, loro!

Fatto sta che, superato il penultimo ristoro alla Maresana senza praticamente fermarmi, percorro il successivo tratto con il 24° tempo assoluto della gara a fronte delle posizioni dalla 120° alla 132° (l’ultima dei classificati) occupate in tutti gli altri tratti. Dopo aver ripreso altri due concorrenti nella parte finale della discesa, mi trascino fino all’ultimo ristoro dove comincia la salita finale, tutta su asfalto anch’essa, che ci porterá in cima a Bergamo Alta. Vi incontro tantissimi podisti che, usciti per la sgambatella domenicale, si complimentano ed incoraggiano per l’ultima manciata di Km che mi dividono dal traguardo. Purtroppo le campane della cittá battono inesorabili nove fatidici rintocchi e l’effetto rebound sul sottoscritto é devastante: arrivato allo scollinamento mi vengon fuori tutti insieme i dolori accantonati nelle ultime due ore e per percorrere quattrocento metri di discesa devo appoggiarmi ai muri delle case. Mi riprendo peró con gli incitamenti dei molti presenti davanti alla Porta S.Alessandro, da dove faccio l’ingresso nella cittá vecchia e, dopo alcuni vicoli e piazzette, mi ritrovo sul palco dell’arrivo in Piazza Vecchia, celebrato dallo speaker ed applaudito da una discreta folla di curiosi che sta aspettando gli ultimi eroi .... fortunatamente tutti classificati dai benevoli organizzatori.

In condizioni semi-cadaveriche sulla navetta che mi trasporta alle docce del Palanorda a Bergamo Bassa sorrido beffardo con me stesso, vedendo nel volontario che dopo avermi dato la coperta all’alba adesso fa pure da autista la faccia di Sordi nei Nuovi Mostri, mentre a bordo della Rolls Royce  scarrozza per Roma lo sventurato ferito in cerca di un ospedale e recita il suo monologo perfettamente calzante con il sottoscritto, sostituendo montagna a mare: “Un giorno mi sono incazzato e ho detto basta: mi compro una barca e faccio il giro del mondo e navigo da solo ecco ... e cosí compii quest’impresa ... giorno e notte tra cielo e mare, mare e cielo .... solo nell’immensitá del mare, in assoluta meditazione, a contatto della natura piú pura ... é allora che capisci: quanto sei stronzo a compiere queste imprese, che non servono a un cazzo!