Sconfitta! Disfatta!
Tragedia sportiva ... e non solo! Questo il resoconto
stringato della mia partecipazione al Tor de Geants del
settembre scorso. D’altronde se, in una competizione che
concede la media oraria di circa 2,2 Km/h, ci si pone come
unico obiettivo quello di giungere al traguardo, al momento
che si fallisce non penso altre valutazioni siano
oggettivamente sensate. Tengo a sottolinearlo perché
personalmente aborro dall’ormai onnipresente buonismo
auto-assolutorio, o meglio dal suo abuso: per quanto in
giusta misura indispensabile all’umana autostima, trovo
semplicemente vergognoso e moralmente fiaccante lo scaricare
su non meglio precisate cause indipendenti dalla nostra
volontá i propri fallimenti.
Escludendo quindi tanto
la motivazione auto-celebrativa quanto la ricerca di una
piattaforma posticcia di solidarietá su cui mandare in
scena la propria autocommiserazione, perché diavolo sto
rivangando ricordi cosí ancora tragicamente vivi? Non si
tratta né di uno sfogo né di un’autopunizione; semplicemente
ritengo che emozioni tanto forti meritino di esser fissate
prima che svaniscano con la caducitá della memoria .....
per dirla con De Gregori, la guerra é bella anche se fa
male!
Il Tor é il Tor!
Sicuramente il ritiro cui sono stato costretto ha
contribuito a mitizzarlo nel mio personale immaginario, ma
vi posso giurare che anche quello provato fino e persino
durante il tragico momento é stato qualcosa di unico e spero
non irripetibile .... ferale esito a parte.
Il Tor é il Tor! Gli
organizzatori lo sanno bene ..... cosí giá la sera
precedente la partenza, dopo quasi due ore di fila per
ritirare il pettorale, la cena nel palazzetto di Courmayeur
é fatta all’uopo per creare l’atmosfera. Il banchetto di
affiliazione al mammasantissima dei trail prevede una
settantina di tavoli rotondi da dieci posti l’uno,
praticamente al completo. Le epiche immagini delle edizioni
precedenti che scorrono sul grande schermo sono sicuramente
emozionanti .... ma il Tor é il Tor e ha bisogno di ben
altro: eccoci cosí chiamati ad alzarci in piedi e prenderci
per mano ognuno con i propri compagni di tavolo a recitare
un pagano Pater Noster sulle note di “Siamo Soli” di Vasco
Rossi. Ci sono coloro che amano il protagonismo di tali riti
collettivi e coloro, tra cui si annovera il sottoscritto,
che ne sono pudicamente avulsi; fatto sta che
l’ammutinamento non é un’opzione contemplata e cosí , tutti
indistintamente, veniamo iniziati alla setta.
Da adepto al Tor ho una
notte tranquilla e riesco a riposare bene, cosí quando
domenica mattina, rimpinzato di un’abbondante colazione che
mi aiuta a resistere all’altra mezz’ora di fila per la
spunta, mi presento sulla linea di partenza sono piú che
ottimista sotto il sole finalmente splendente dopo la
pioggia del giorno precedente. La partenza va ascritta nelle
cose da ricordare: la piú emozionante cui abbia mai preso
parte, forse seconda soltanto a quella dell’ultratrail del
Monte Bianco. Tutta Courmayeur é riversata sulle strade ad
applaudirci ed incoraggiarci .... fortunatamente non ho mai
provato sulla mia pelle il turbinio di sentimenti di un
migrante che usciva da un porto verso le Americhe o di un
soldato che saliva in treno verso il fronte ma, senza voler
mancare di rispetto a questi veri eroi, lo immagino come
qualcosa di simile.
All’uscita del paese mi
trovo imbottigliato nelle ultime posizioni all’imbocco del
single track con cui cominciamo a salire il Col Arp, che
valico ancora in fila indiana dopo aver ripensato per tutta
la salita alle condizioni cadaveriche in cui versavo l’anno
scorso al 4K, mentre affrontavo lo stesso percorso in senso
contrario durante la seconda notte di gara ...... dando per
scontata una crisi del genere mi autoconvinco che, anche
alla luce dell’esperienza, saró nuovamente in grado di
rigenerarmi catapultandomi in una dimensione al di fuori
della mia limitata fisicitá .
Affronto la facile
discesa verso La Thuile con molta calma e, dopo un breve
ristoro, mi trovo giá notevolmente affaticato sulle dure,
ma non proibitive, rampe che conducono al rifugio Deffeyes,
tanto che prima di giungervi faccio una sosta non
programmata di una ventina di minuti insieme a Enrico,
l’amico trailer romano, con il quale comodamente stesi al
sole su un prato ci godiamo in panorama-vision la splendida
cartolina del laghetto Des Glaciers sormontato dalle
imponenti pendici del Rutor.
Giunti al rifugio la
temperatura, complice anche un vento piuttosto sostenuto,
cala sensibilmente, tanto che insieme a Roberto e Daniela,
foianesi compagni di avventura, decidiamo di indossare
giacca antivento e guanti per affrontare le ultime rampe che
conducono al colle di Passo Alto. Me la cavo abbastanza bene
sulla pietraia che scende verso il ristoro all’alpeggio di
Promoud, dove mi prendo tutto il tempo necessario per
affrontare l’imminente salita del Col de la Crosatie, primo
duro test della gara. Affrontato all’imbrunire con il giusto
passo, cioé lentissimamente, riesco a percorrere tutta
l’erta pietraia con il sentiero che vi si arrampica a ripidi
tornanti senza fermarmi, ma una volta giunti sulla cresta
comincia il bello: le frontali ormai accese di coloro che mi
precedono tracciano una verticale verso il cielo, che
qualcuno alle mie spalle sento paragonare a quella del
Cervino. Per salire gli alti scaloni mi aggrappo a qualsiasi
appiglio allo scopo di scaricare il piú possibile il peso
anche sulle braccia: ciononostante in queste poche centinaia
di metri infernali sono costretto a fermarmi almeno sette od
otto volte per rallentare i battiti di un cuore che sento
scampanare ad ogni passo piú in alto nel petto, come volesse
infine saltarmi fuori dalla gola.
Sono in cima e, salvo
alcuni tratti iniziali dove ad una delle prime edizioni
perse la vita uno sfortunato cinese, so che adesso mi
attende una facile discesa fino a Planaval, punto di ristoro
praticamente nel fondovalle. Durante i successivi cinque Km
che salgono impercettibilmente costeggiando il torrente
verso Valgrisenche mi sento sempre piú stanco e l’ultimo Km
di salita leggermente piú impegnativa per giungere alla
frazione di Bonne, dove é posta la prima base vita, mi mette
definitivamente al tappeto.
Dopo un’ora steso in
branda con gli occhi chiusi ma senza riuscire a dormire non
sono affatto riposato e, ció che piú mi preoccupa, sento lo
stomaco in disordine, riottoso a mandar giú pasta, formaggio
o qualsiasi altro tipo di alimento. Sono le tre del mattino
e per esperienza so che mettermi nuovamente in cammino in
queste condizioni equivarrebbe ad un suicidio, considerata
anche l’estrema durezza della successiva tappa con altri tre
colli da affrontare, di cui due oltre i tremila metri di
altitudine. Ho un’intuizione probabilmente bollata da molti
nutrizionisti come perniciosa scempiaggine, ma che risulta
geniale per il mio organismo sí libertino nel
gozzovigliare: tracanno tutto di un fiato un boccale di
birra fresca che, dopo aver causato un paio di roboanti
emissioni esogene silenziate a fatica, mi solletica
l’appetito per un abbondante piatto di pasta al pomodoro ed
un paio di uova sode ... piú un’altra birra di puro
accompagnamento.
Le gambe sono ancora
fiacche ma, passati sull’altro versante della valle usando
la diga di Beauregard come ponte, l’agevole salita verso lo
Chalet Epée consente loro di compiere il minimo sindacale e
cosí mi trovo ad affrontare le ultime rampe verso il Col
Fenétre rischiarato da un’algida alba: finalmente mi posso
godere alla luce del sole l’impervia discesa nel canalone
dall’altro lato, che ricordavo dall’anno passato come la
salita forse piú dura di tutto il 4K. Nonostante il passo
piú che cauto, vista la discesa praticamente verticale, in
poco piú di un’ora sono al ristoro di Rhemes Notre Dame,
dove continuo la cura endocrina a base di birra.
Traversata la strada ci
attende senza soluzione di continuitá la salita al primo
tremila di giornata, il Col de Entrelor dal versante che,
percorso in discesa l’anno prima, ricordo assai impegnativo
.... ovviamente in salita si dimostra terribile e mette a
nudo la crisi che giá sentivo latente dalla sera
precedente. Sulle durissime pietraie non c’é verso di andare
avanti ed ogni masso liscio che incontro sul sentiero che vi
si inerpica diviene un comodo letto su cui stendere le
spossate membra. Non mi faccio prendere dal panico e resto
sempre ottimista nell’attendere che la miracolosa
traslazione psico-dimensionale si compia ancora, anche
perché vedo che gli altri non se la passano poi troppo
meglio. In qualche modo, assai malo, raggiungo lo
scollinamento ed intraprendo la discesa, molto piú agevole
seppur lunghissima, fino ad Eaux Rousses dove al ristoro
giungo con circa quattro ore di vantaggio sul cancello
orario, meno di quello che speravo. Mi prendo comunque una
lunga pausa, penso almeno quaranta minuti, disteso su una
comoda sdraio al sole, beccandomi pure una puntura sulla
gamba da una delle numerose api attratte dagli zuccherosi
sali delle borracce. Alla ripartenza mi attende infatti la
scalata alla cima Coppi del Tor, il mitico Col Loson che con
i suoi 3300m capisco da subito essere lo spartiacque della
mia gara: sono giá stanco morto e, nella normale dimensione
corsa trail, ci sono possibilitá praticamente nulle di
valicarlo .... ma ancora non dispero!
La prima parte di salita
nel bosco con cui lasciamo il fondovalle é fortunatamente
abbordabile e mi consente di prendere sempre piú fiducia
nelle mie gambe, che cominciano a girare senza gli eccessivi
sforzi patiti nelle ore precedenti, quasi che il doloroso
siero iniettatomi dall’ape sia stato un doping divino.
Giunti ai 2300m della cappella votiva di Levionaz Desot ci
allontaniamo dalla vallata inoltrandoci nell’omonimo
canalone, che ci porterá al passo dopo ulteriori mille
metri di dislivello. Ecco finalmente il segnale divino che
aspettavo! Un trailer fermo una cinquantina di metri avanti
a me mi fa segno di tacere e guardare sulla destra, dove un
branco di cinque stambecchi ci sta curiosamente osservando;
proseguo facendo meno rumore possibile e, svoltata una curva
con cui scopro un altro versante del pendio, ne scorgo altri
quattro o cinque gruppi, alcuni dei quali sembrano essere
nuclei familiari con i loro piccoli. Parlare di
anti-sindrome di Stendhal in versione naturistica, con
rallentamento dei battiti cardiaci e goduriosa propalazione
di endorfine nell’organismo, sarebbe forse eccessivo, ma non
v’é dubbio che questo emozionante spettacolo ha la forza di
ricordarmi il motivo ultimo per cui, a distanza di un anno
esatto, mi sono preso un’altra settimana di vacanza
“particolare”: godere di queste meravigliose montagne, dei
prodigi della natura tutta e del mio smisurato io che ad
essa appartiene!
Seppur in maniera assai
piú cosciente dell’anno scorso, quando mi risvegliai come
inebetito dopo un micro-sonno forzato sotto la pioggia, sono
finalmente riuscito a cambiare dimensione ed orizzonti,
principalmente nella mia testa, ma é il corpo tutto a
risentirne i benefici effetti: nelle successive due ore
racchetto felicemente in salita senza mai fermarmi, neppure
sulle ultime durissime rampe, salvo una breve sosta
necessaria per indossare la lampada frontale, mangiare un
pezzo di formaggio .... ed elaborare la tattica che mi
consentirá di tornare a guadagnare sui limiti dei cancelli
orari.
Valico la vetta del Tor
che é ormai buio pesto e scendo con estrema cautela i primi
ripidissimi tratti piuttosto esposti dell’altro versante
fino a raggiungere il rifugio Sella, dove mi butto su un
comodo letto dormicolando per una mezz’oretta, deciso a
saltare la successiva base vita di Cogne. Alla ripartenza
dopo uno spuntino sono costretto a corricchiare il primo
tratto di discesa, fortunatamente agevole, per riscaldarmi
dal freddo pungente. Trovato l’equilibrio termico me ne
procedo con calma fino a Valnontey da cui, imitando il
valdostano Ivano insieme al quale avevo fatto molti Km
insieme pure l’anno scorso, raggiungo Cogne camminando
agevolmente sulla strada asfaltata deserta piuttosto che sul
sentiero fittizio ad essa parallela, fiducioso di non esser
sgamato da nessun intransigente giudice di gara alla
mezzanotte passata di lunedí . Come programmato sosto a
Cogne soltanto un’oretta, tempo necessario a sistemarmi le
fasciature dei piedi e corroborare il fisico con
un’abbondante cena tardiva o, se preferite, colazione
anticipata.
Mi trovo improvvisamente
con persone che erano arrivate a Cogne perlomeno due o tre
ore prima del sottoscritto e quindi, mentre io cammino
blandamente sull’ampio stradone sterrato che conduce a
Lillaz, faticando a tenere gli occhi aperti, molti di loro
mi superano corricchiando. Ho un improvviso risveglio
entrando nel sentiero che sale deciso verso il ristoro di
Goilles Desot; noto con piacere che riesco a tenere il loro
stesso ritmo e cosí per tutta la successiva salita nel
bosco. Uscendo dagli alberi, l’ampio e lungo vallone in
quota é spazzato da un gelido vento, da cui trovo
felicemente riparo una volta raggiunto il rifugio Sogno; non
vorrei sostarvi troppo a lungo ma sento l’impellente bisogno
di dormire e, appena finito di mangiare, lo faccio
esattamente nel modo per il quale prendevo sempre in giro il
mio povero nonno alla fine del pranzo: gomiti ben piantati
sul tavolo, testa fra le mani e via alla russata libera!
Il pisolino ha la sua
sperata funzione ristoratrice e, senza faticare troppo, mi
godo come una piccola impresa da esploratore gli ultimi
trecento metri di dislivello che portano al colle Fenetre de
Champorcher sotto un’innocua burrasca di acqua gelata ....
proprio come quella che tento invano di bere dal beccuccio
della borraccia. Oltre il valico siamo accolti dall’immensa
vallata che dovremo scendere per i prossimi trenta Km con
gli acceccanti riverberi della neve che nei giorni
precedenti si era giá posata intorno al sentiero. Superato
il lago Miserin me ne scendo tranquillamente per l’agevole
carrozzabile usata dalle jeep dei pastori fino al rifugio di
Dondena dove, sorbendo un buon caffé espresso, noto il nome
sul pettorale di un ragazzone appisolato sulla sedia accanto
alla mia: faccio finalmente conoscenza con Loris, il
milanese che ha portato i colori dei Siena Runners in molti
degli ultratrail cui ho partecipato od avrei voluto; a pelle
capisco giá che si tratta di una persona squisita, come
avró modo di apprezzare in seguito. Belle persone si
riveleranno anche gli amici che sta aspettando, Alessandro,
Stefano e Silvia, questi ultimi due giá compagni di
avventura all’Orobie del Luglio scorso. Si ricrea cosí una
situazione analoga al 4K dell’anno precedente, con questo
quartetto al posto di quello della Valsesia, con cui ci
troveremo spesso sul percorso e praticamente ad ogni
ristoro, scambiando piacevoli battute.
Scendendo
progressivamente di quota il clima diviene sempre piú mite e
comincio a spogliarmi approfittando ben volentieri di
piccole soste steso sulla fresca erbetta degli ameni
pascoli, fin quando la valle si stringe e la discesa si fa
piú ripida per giungere al paese di Chardonney. Sembra
proprio tempo di rimpatriate ed in questo tratto incontro
Maurizio, il giovanile quasi sessantenne con cui eravamo
ripartiti di gran carriera sotto il temporale negli ultimi
Km delle Orobie. Lasciato il ristoro facciamo insieme tutto
il lungo tratto successivo che, inoltrandosi nel bosco con
lunghi tratti rocciosi e spettacolari passerelle esposte sui
profondi orridi solcati da acque ora impetuose e cinque
minuti dopo placidamente adagiate in pozze cristalline , si
rivela ben piú lento del previsto. Ascolto, tutto sommato
con piacere, il monologo di Maurizio, che sente
evidentemente il bisogno di sfogarsi raccontando le sue
vicende personali: penso che anche questa si possa
considerare solidarietá tra trailer. Mentre veniamo
superati da diversi concorrenti che affrontano questi aspri
tratti in discesa ad una velocitá ben maggiore, non pongo
troppo attenzione alle sue parole, che si riveleranno ahimé
assai sagge, sulla necessitá di preservare gambe e giunture
per gli altri duecento e piú Km che ancora ci attendono.
Fatto sta che quando a Pontboset Maurizio trova sua figlia
ed un paio di amici ad attenderlo, aumenta il passo ed io me
ne continuo tranquillamente a scendere verso la vallata
principale della Dora che, completando tutta l’Alta Via
numero 2, attraverso ad Hône raggiungendo la quota piú bassa
della gara, circa 300m. Ritrovata finalmente l’estate,
cammino con calma per il centro di Bard con la testa quasi
sempre volta all’insú per ammirare il maestoso forte e per
il successivo Km che mi conduce alla base vita di Donnas,
calpestando pure lo storico lastricato romano dove incontro
(altra rimpatriata!) Graziano armato di macchina fotografica
che attende Ermanna, con la quale avevamo condiviso
praticamente tutta la seconda metá del 4K lo scorso anno.
Faccio il mio ingresso in
base vita avendo quasi otto ore di vantaggio sul cancello
orario; questo bel tesoretto mi consente di dormire due ore
di profondissimo sonno in branda e guardare con roseo
ottimismo alla prossima tappa, considerata la piú dura di
tutto il Tor: oltre al terreno che ricordo asperrimo, in
questo verso dobbiamo per di piú riguadagnare subito quota,
praticamente dal livello del mare, fino ad oltre duemila
metri, per poi proseguire in un continuo saliscendi che, una
volta giunti a Gressoney, ci avrá fatto compiere seimila
metri di dislivello positivo in poco piú di 50 Km. Mi
incammino nuovamente sul far della sera e, salutato
all’ingresso del ponte romano di Pont Saint Martin dal
caratteristico diavolo che ci incita brandendo il suo
forcone, accendo la frontale intraprendendo le dure rampe,
spesso a scalini, che ci conducono alla chiesa di Notre Dame
de la Guarde dove, ancora salendo, imbocchiamo l’Alta Via
numero 1 con cui faremo ritorno, almeno parte di noi, a
Courmayeur solcando le valli settentrionali della regione.
Mentre scendo per poche
centinaia di metri verso l’abitato di Perloz, mi chiedo se
anche quest’anno la piazza pricipale dove é posto il ristoro
sará animata come l’anno precedente. Percorrendo i
caratteristici vicoli del centro incontro alcune persone che
mi dicono che poco piú avanti c’é la festa ad attendermi,
fin quando il brusio crescente si traforma in nitido suono
di canti e fisarmoniche. Rispetto al passaggio a notte fonda
dell’anno precedente, la fascia serale del primo dopocena
avrá sicuramente avuto il suo influsso, ma oltre al maggior
numero di presenti é lo spirito di queste persone che
sentono il Tor come patrimonio loro e di tutta la Valdaosta
a rendere eccezionale questa festa paesana, di questo stiamo
parlando, ed eternarla nella mia memoria. Accanto al solito
tavolo, sempre ben fornito, con formaggi, salame, biscotti,
crostate, frutta, sali, coca e quant’altro dato
dall’organizzazione, c’é quello paesano ben piú ampio.
Ovviamente non prendo neppure in considerazione il primo e
mi avvento sul secondo: in una mano una focaccia al
gorgonzola che rimpinzo di squisita ricotta e nell’altra un
bicchiere di prosecco con cui accompagno ritmicamente le
note di “Questa é casa mia e qui comando io” cantata da
tutti gli astanti; eccomi poi brandire, insieme a del
formaggio piccante, un bicchiere di bianco con cui tento di
solfeggiare un’incomprensibile canzone in Patois valdostano;
siamo agli squisiti affettati locali e maledico di essere
cosí stonato da non poter neppur tentare di intonare “Sono
una rondine (...e il cuor mi scianguina)” mentre agito in
aria il bicchiere di rosso con le caratteristiche ritmiche
volute dell’allegro andante mosso. Prima di lanciarmi in
arditi giri di liscio con le signore locali, raccolgo gli
ultimi barlumi di luciditá e a malincuore mi metto di nuovo
in cammino ..... dopo la breve discesa per attraversare il
Lys sul fiabesco ponte di Moretta, ci penseranno le
successive rampe verso Sassa a farmi velocemente smaltire i
fumi dell’alcool.
Quando giungo al ristoro
dopo vari Km di erte scalinate stile costa amalfitana sono
abbastanza stremato ed é con piacere che trovo un posto
libero per sdraiarmi in branda dentro una tenda. Come
programmato mi vengono a chiamare dopo quaranta minuti; é
una vera tortura uscire dal calduccio del covile per
immergersi nuovamente nel gelo della notte e soprattutto
affrontare gli ulteriori 800 metri di dislivello, buona
parte dei quali provando a destreggiarsi alla meno peggio
tra i massi che rendono il sentiero una scelta puramente
discrezionale. Giunti sul crinale devo rinunciare per il
secondo anno consecutivo alla vista di Biella e della
pianura circostante, che giá pregustavo come uno sconfinato
bailamme di luci, ermeticamente sigillate peró dentro una
coltre di dense nuvole ormai sotto di noi. In compenso il
rifugio Coda non appare piú una chimera e con un ultimo
sforzo mi trovo al suo interno ancora una volta con i gomiti
piantati sul tavolo ed il capo tra le mani ...
Si riparte finalmente in
discesa, anche se tosta, per poi continuare nel mare di
pietre che sono conscio saranno in nostra compagnia per
molte ore ancora. Nel successivo saliscendi prima del lago
Vargno mi imbatto in un ristoro non previsto in localitá Gouillas.
Una coppia organizza ogni anno, celebrando il Tor di sua
spontanea volontá , questo simposio con specialitá da loro
preparate, come apprendo dai loro racconti ammirato al
limite della commozione, mentre fagocito squisiti salami, un
sublime budino al cioccolato, dolcissime uva e prugne
accompagnati da ottimo prosecco e non posso che sinceramente
perdonare la signora che continua a scusarsi per non aver
trovato i fichi. Ben venga lo spirito vacanziero che sin
dall’inizio mi ero prefissato per quest’avventura, ma
sinceramente il libidinoso godimento sta ormai raggiungendo
livelli neppur sognati!
Arrivo cosí sul far del
giorno al bellissimo, quasi direi lussuoso, rifugio della
Barma, dove approfitto di un comodo letto per un’altra
oretta di sonno. Fatta una robusta colazione con Loris e
compagni, da cui scrocco pure una birra che avevano preso in
piú ( ... ovviamente dopo aver giá tracannato la mia), sono
nuovemente sul sentiero, che presto offre una ben gradita
tregua trasformandosi in un comodo stradone carrozzabile
lungo il quale arriviamo in un paio di Km all’imbocco della
salita per il col di Marmontana. Dalla cima dobbiamo
scendere a capofitto verso il lago Chiaro dove ben si
distinguono i trailers intorno al punto di ristoro
eli-trasportato. Quando vi giungo non dico che ho lo stomaco
ingolfato, ma sinceramente dopo tutti gli stravizi della
notte non ce la faccio a farmi ancora una mangiata .... cosí
prendo solo un piccolo assaggio di carbonada, un sublime
stufato di carne, con appena un dito di barbera.
L’idillio continua fino a
superare l’incredibile spaccatura nella roccia della Crenna
dou Leui che giá mi prefiguro, improvvido ottimista, come
antipasto del passaggio finale sul Malatrá prima
dell’ultima discesa verso Courmayeur. La musica comincia a
cambiare nel petroso mare che devo traversare per giungere
al Passo della Vecchia, da dove intraprendo la lunga discesa
verso Niel giá piuttosto stanco; quando poi cominciamo a
salire e scendere nel bosco con il tempo che passa
inesorabile e mi rendo conto di essermi mangiato buona parte
del vantaggio accumulato sul tempo limite, il barometro
umorale vira decisamente a burrasca, con annesse
imprecazioni verso tutto e tutti. La gioiosa animazione dei
numerosi tifosi presenti al ristoro del paese, che alla fine
raggiungo con solo tre ore di vantaggio rimaste sul cancello
orario, mi tira un po’ su di morale e riparto alla scalata
del Col Lasoney con i calorosi incoraggiamenti di Graziano e
Fabrizio, il trailer abruzzese coadiuvatore
nell’organizzazione del Tuscany Crossing qui in veste di
accompagnatore, che si sono presi amorevolmente cura di me
servendomi gustosa polenta e bevande mentre ero seduto a
riposare.
Raggiunto lo
scollinamento riconosco immediatamente il lungo vallone di
Loo, quest’anno tutto in dolcissima discesa che, per
riguadagnare un po’ di tempo, decido di correre dopo aver
preso un Oki contro il solito mal di piedi ed essermi
riposato per una decina di minuti. Trotterello quindi
tranquillo e beato superando comunque diversi concorrenti
quando alle mie spalle arriva come un fulmine Ermanna,
anch’ella preoccupata per il dissolversi del tesoretto di
tempo sin qui accumulato. Ancora non so e mai lo sapró se é
in questo preciso istante che firmo la mia condanna a morte
... mi piace sperare di averla solo anticipata di qualche
ora o magari tutto sarebbe andato comunque nella stessa
maniera .... fatto sta che sentendomi veramente bene,
complice forse l’antidolorifico, non esito un istante a
prendere la scia della fuoriserie modenese e la tallono fino
al ristoro dove non faccio in tempo neppure a sentire le
festose scampanellate con cui siamo accolti e rifornire le
borracce che lei é giá un centinaio di metri avanti. Eccomi
cosí ripartire a molla per riagganciarla; imbocchiamo
insieme l’ultimo tratto di ripida discesa nel bosco che ci
porterá al fondo valle: se fino a questo momento, correndo
per agevoli pascoli, mi ero forse comunque preservato, con
insana demenza facilmente diagnosticabile col senno di poi,
mi butto giú per il sentiero come fosse l’ultima cosa da
fare prima di morire. L’incipiente oscuritá ci obbliga ad
una sosta per indossare la frontale ed in quel preciso
istante, quasi che la torcia rischiari anche le mie
onnubilate meningi, mi rendo conto che non ha senso
continuare a forzare per guadagnare non piú di venti minuti
sull’arrivo alla base vita di Gressoney e cosí , salutata
Ermanna, riprendo l’abituale andatura turistica e tento di
elaborare una proficua strategia per le tappe venture .....
cosa che avrei dovuto fare sin dalla sommitá del colle, a
prescindere se la mia dissenata condotta di gara durante
l’ultima ora sia stata o meno l’origine dei miei guai.
Raggiunta la strada mi
sento tutto sommato bene e non troppo stanco a differenza di
Noe, un ragazzo messicano che vedo vistosamente sbandare sul
marciapiede un centinaio di metri davanti a me, rischiando
piu volte di finire pericolosamente disteso sulla
carreggiata della statale. Gli urlo a tutta voce di
aspettarmi senza che questi neppure si volti e cosí mi
produco in un ulteriore scatto per andare a sorreggerlo,
convinto che gli sia venuto un coccolone: in realtá é
semplicemente addormentato e sta andando avanti ad occhi
chiusi. Duecento Km di sentieri montani sembrano aver
fiaccato anche il mio naturale egocentrismo, tanto che non
esito un istante a passargli il braccio destro sopra le mie
spalle e portarlo con me guidandolo e sostenendolo: ecco che
ha inizio l’ultima parte della mia gara, costellata da
deamicissiane buone azioni e samaritani soccorsi nei miei
confronti, al cui pensiero mi commuovo ancora .... per
favore non chiedetemi peró di scegliere tra tanta
encomiabile bontá e la soddisfazione di arrivare a
Courmayeur: se una cosa avesse escluso l’altra, molto
probabilmente Noe sarebbe adesso un tatuaggio perfettamente
aderente all’asfalto.
Come una coppia di
caracollanti ubriaconi giungiamo alle porte del paese;
alcune centinaia di metri prima della base vita consegno
l’ingombrante pacco alla moglie ed al fratello che lo
stavano aspettando a gloria i quali, tanta é la foga latina
nel festeggiare il prode salvatore che, per ringraziarmi ed
abbracciarmi, quasi lasciano il meschino piombare a terra.
Ammantato di questa inaspettata aura di santitá, faccio
ingresso nel palazzetto con due ore di vantaggio rimaste sul
cancello orario, quattro se consideriamo quello in uscita.
Valutata la relativa facilitá della tappa seguente fino a
Valtournache, prendo una decisione apparentemente avventata
ma che ancora adesso reputo strategicamente azzeccata,
sicuramente non responsabile del mio cedimento strutturale
prossimo a venire: mi fermo soltanto per un’ora, ossia il
tempo necessario a dar sollievo ai piedi e mangiare un
boccone ... anzi due.
Alle 22 di mercoledí sono
nuovamente in strada, avvolto nelle tenebre di un cielo che
rannuvolandosi non promette nulla di buono. É dura
percorrere da solo gli ampi stradoni che costeggiano il
fiume per un paio forse tre Km rimanendo sveglio; alcune
volte temo di far la fine del messicano, ma mi concentro
sulla luce ben visibile del rifugio Alpenzu, prossimo
ristoro, dove i sempre piú radi lumicini rivelano il
passaggio degli ultimi concorrenti del Tot Dret, il nuovo
fratellino minore del Tor, partiti da Gressoney alle 20.
Lasciato finalmente il fondovalle per imboccare la salita,
noto con crescente ottimismo che sulle rampe durissime,
benché dal fondo facile, riprendo e lentamente distanzio
alcuni concorrenti ripartiti con me dalla base vita e che
piú non avevo visto dal primo giorno di gara. Una mezz’ora
di profondo sonno nel comodo letto del rifugio cui fa
seguito un buon caffé e parte la sfida al Col Pinter, uno
degli ultimi quattro o cinque duri scogli rimasti. Mi trovo
da solo sul sentiero che, tracciando una lunga diagonale
attraverso i pascoli, mi porta sempre piú vicino al limite
delle nubi .... finché non ci sprofondo letteralmente
dentro. All’inizio ho paura di perdere la traccia, ma poi mi
tranquillizzo quando vedo che prestando attenzione riesco a
seguire il sentiero e a scorgere la successiva bandierina
catarifrangente pochi passi dopo aver superato la
precedente. Vuoi per la fantasia stuzzicata dall’esser
sopeso in questa sorta di etereo limbo, vuoi per la
concentrazione che ripongo nel non sbagliar strada, procedo
praticamente senza avvertire la fatica fin quando, come per
miracolo, lascio le nuvole sotto i miei piedi e, novello
Dante uscito a riveder le stelle, scorgo ancora abbastanza
lontano dei lumini che sembrano arrampicarsi quasi in
verticale. Gli ultimi ripidi tratti spazzati dal vento mi
mettono infatti a dura prova, ma riesco comunque a
raggiungere il colle facendo una sola breve sosta; steso a
terra tra i massi il piú possibile al riparo dalle sferzanti
folate, aspetto alcuni minuti perché faccia effetto l’Oki
appena preso allo scopo di rendermi la lunga discesa verso
Champoluc il piú agevole possibile.
In effetti il primo
tratto assai impegnativo, con erti gradoni che scendono un
aspro valloncello detitrico, scorre via liscio e, quando
ormai mi rilasso lungo i tornanti del piú agevole sentiero,
ecco che subitaneamente, insieme al mio ginocchio sinistro,
si incrinano tutti i sogni di gloria che ormai consideravo
quasi certezze. Sento come un pernio inserito all’improvviso
nell’articolazione che mi impedisce assolutamente di
muoverla; istintivamente mi stringo con la mano la parte da
dove ho sentito partire il grippaggio e come per magia il
ginocchio si piega ancora, fatti pochi passi ecco di nuovo
lo stop ed il repentino sblocco e cosí ancora un paio di
volte, fin quando ricomincio a camminare apparentemente
senza problemi. Ormai peró nubi ben piú fosche di quelle che
si ammassano in cielo si addensano nella mia testa: un
dolore di questo tipo, come una vera e propria rottura, non
l’avevo mai avvertito prima e non promette nulla di buono.
Con cautela ma senza ulteriori problemi arrivo alla zona
delle piste da sci di Cuneaz e continuo a scendere fino a
Crest, dove all’esterno del rifugio una volpe ormai
domestica non si cura della mia presenza e continua a
banchettare con dei biscotti lasciati sul tavolo per coloro
che non hanno intenzione di fermarsi e continuare diretti
per Champoluc, a venti minuti di cammino recita un cartello.
Io stesso sono indeciso sul da fare ed alla fine opto per
entrare a prendere qualcosa di caldo, che poi accompagno con
dell’ottimo yougurt e mirtilli freschi.
Quando lascio il rifugio
sono le cinque di giovedí mattina; l’euforia di avere
nuovamente almeno sette ore di margine sul cancello orario,
che chiude alle 13 tra tre km, mi fa dimenticare per un
attimo i miei acciacchi, ma ci pensa la prima rampa in
discesa un po’ piú ripida a pormi ancora innanzi alla cruda
realtá: il ginocchio si blocca una volta, poi una seconda,
poi una terza e non so dire se siano venti o trenta in
totale, con conseguente sbloccaggio sempre piú laborioso e
dispendioso in termini di tempo. Alla fine, invece dei
quaranta minuti preventivati, faccio ingresso al centro
polifunzionale di Champoluc dopo quasi due ore in preda alla
piú nera depressione, con l’ultima vana speranza di trovarvi
un taumaturgico fisioterapista. Mi imbatto invece in un
infermiere che, aprendo le braccia sconsolato, non ha altro
sortilegio da propormi che una pomata antinfiammatoria.
Non sono particolarmente
stanco, ma mi stendo comunque in branda per vedere se un po’
di riposo possa giovare; non provo neppure a chiudere gli
occhi che fissano spalancati l’inespressivo soffitto, mentre
un sordo dolore mi trafigge l’anima e trattengo a stento le
lacrime.
Saluto Ermanna che
intanto é arrivata e sta ripartendo, mi faccio applicare
dell’altra pomata ed esco nel plumbeo mattino per compiere
gli ultimi passi verso il patibolo. Sulla porta mi imbatto
nel fratello e nella moglie di Noe, che me lo vogliono
presentare a tutti i costi, in quanto il sonnambulo non
ricordava ovviamente niente della sera precedente: eccoci
quindi nuovamente a lodi sperticate ed ossequiose
celebrazioni ... manca giusto si inchini a baciarmi la mano
e modificare il nome nel mio pettorale in Sua Ecellenza Don
Michele!
Lungo i tre Km in
leggerissima salita che costeggiano la strada non avverto
nessun dolore, solo un leggero fastidio; stai a vedere che
forse ..... si é rotto davvero! Al primo passo fuori
dall’asfalto sul sentiero, questa volta in salita, ecco il
grippaggio che sembra definitivo in quanto non c’é verso di
sbloccarlo. Mi trascino in qualche modo a sedere sul muretto
al ciglio della strada e, con il ginocchio tra le mani,
tento di elaborare la disfatta che ormai sento inevitabile.
Soffoco le emozioni in una gelida apatia con la quale
annuncio a Graziano, che sta tornando indietro dopo aver
accompagnato per un tratto Ermanna, di come sia costretto a
ritirarmi; lo metto nell’imbarazzante situazione di non
saper cosa dire e me ne dispiaccio ...d’altronde una delle
angariose (se ad un giovane scolaretto l’Accademia della
Crusca ha passato l’aggettivo “petaloso”, da narratore vate
dei trail mi sento autorizzato a creare neologismi miei
propri!) vigliaccherie umane, fine soltanto a se stessa, é
cercar di far provare agli altri la propria disperazione,
pur non avendo ció alcun effetto consolatorio.
Come la spada del samurai
sconfitto estraggo il cellulare dallo zaino e chiamo Monica,
mia moglie, per comunicarle che ho deciso di ritirarmi e che
non si preoccupi se per le prossime ore vedrá il mio
segnale gps fermo nello stesso punto ... con lei non riesco
a mantenere la corazza di apatia e devo spesso interrompere
il racconto degli ultimi accadimenti per non scoppiare a
piangere. Appena finita la telefonata, fortunatamente ben
meno risolutoria del tradizionale harakiri, ecco che mi si
parano davanti due angeli con le fattezze umane di Loris ed
Alessandro per distogliermi dall’insano gesto. Spiego loro
la tragica situazione ed eccoli trasformati in esperti
ortopedici che tentano in ogni modo di rimettermi in piedi
perché, se c’é una cosa di cui sono sicuri, é che questo
ritiro mi fará piú male e per molto piú tempo del
ginocchio .... devo ammettere che Cassandra era in confronto
una dilettante. Dopo vari consulti gli improvvisati luminari
che prendono in considerazione bandelletta, legamenti,
menischi, protusioni ossee e quant’altro, optano per un
bendaggio applicato sapientemente da Alessandro con la
fascia adesiva elastica di Loris, che me ne lascia pure
alcuni scampoli di riserva e mi redarguisce bonariamente in
quanto, se pur fecente parte del materiale obbligatorio, da
sciagurato incosciente quale sono, ne ho una assolutamente
non adatta allo scopo. Prima di proseguire i misericordiosi
missionari mi riforniscono pure di Oki; prendo cosí il
quarto delle ultime sei ore, anche se non é proprio il caso
di dire a stomaco vuoto, decidendo di aspettare una ventina
di minuti prima di provare a ripartire.
É giunta l’ora di
verificare l’effetto delle medicazioni, mi alzo in piedi e
faccio i primi tre passi nell’erba miracolosamente senza
dolori, ma al quarto avverto una fitta tremenda ed il
ginocchio é nuovamente bloccato; stavolta non c’é apatica
rassegnazione che tenga: mi butto in terra, lancio via le
racchette imprecando e scoppio in un pianto di impotente
frustrazione. Ormai sono il protagonista di una fiaba ed
ecco la Fata Turchina che nelle umane sembianze di Mattea,
una trailer con qualche anno di esperienza in piú di me, si
avvicina e con amorevole pacatezza si informa di cosa mi
affligga. Le racconto la mia storia ed ella in pochi minuti,
con quella calma propria dei saggi che comprendono ma non
commiserano, mi dá una lezione di etica dell’ultratrail che
mai dimenticheró; il sottoscritto non é in grado di
esprimere quello che é riuscita lei con la maieutica arte di
Socrate, ma in soldoni il concetto apparentemente banale é
che non bisogna mai arrendersi fin quando non si rischiano
gravi danni.
Alzati e cammina! E cosí
ecco Lazzaro che riesce a muovere nuovamente il ginocchio ed
intraprende, incredulo all’inizio e poi sempre piú
ottimista, la salita che lo conduce ottocento metri piú in
alto al rifugio Gran Tourmalin. Siedo al tavolo con la
santona mangiando di gusto della macedonia di frutta fresca
con spremuta espressa di arance e, dopo il quinto Oki,
riparto con una flebile fiammella di speranza ancora accesa.
Supero senza dolori l’ultima parte sassosa del sentiero che
conduce al Col di Nana e, seppur con estrema cautela,
attraverso agevolmente l’ampia dolce conca che si estende
nel mezzo al nulla dei 2700 metri di quota per portarmi al
Col des Fontaines. Muovo pochi passi nella successiva
discesa ed il ginocchio é una volta ancora dolorosamente
bloccato.
Mi siedo a terra e lo
massaggio per una decina di minuti, ma quando passa Mattea e
senza neppure fermarsi allarga impotente le braccia,
domandando e constatando insieme “Ti é successo di nuovo?”,
capisco in cuor mio che questa volta é finita davvero. Non
voglio peró deluderla e sono deciso a seguire fino in fondo
i suoi precetti. Inviato forse da un divino sceneggiatore
ecco arrivare Noe che, vedendomi fermo a terra con il
ginocchio grippato, avesse potuto mi avrebbe donato il suo
.... ed in qualche modo é quello che fa: dopo avermi
consegnato alcune bustine di balsamo di tigre, un unguento
che spalmato sulla parte dolorante ha a suo dire prodigiosi
effetti, si toglie la ginocchiera e me la porge, dicendomi
che adesso serve a me. Questa volta sono io che vorrei
prostrarmi ai suoi piedi e baciarlo, opto peró alla fine per
un piú sobrio ma comunque calorosissimo abbraccio.
Rischio oggettivo di
terapia di gruppo al SERT con il sesto Oki, ginocchiera
stretta sulle carni arroventate dalla pomata del messicano
che sembra essere a base di peperoncino habanero, mi metto
in piedi e tento invano di muovere alcuni passi. Mentre
aspettando un altro miracolo sono costretto a sperimentare
il retrorunning-trail, il divino sceneggiatore vuol chiudere
la tragicommedia con un tocco di grottesca comicitá e mi
manda un dinoccolato giapponese, presunto o millantato
fisiatra non so, che non sa spiccicare una parola di
inglese, ma che in kyotese stretto sembra dirmi “Ghe pensi
mi”. Vi prego di rammentare che tutto ció si svolge in un
ambiente prettamente alpino, dove sono praticamente bloccato
ad oltre 2500m di quota da circa un’ora. Pochi giorni or
sono mi sono imbattuto nuovamente in lui facendo zapping in
TV e riguardando l’esilarante episodio di “Occhio,
Malocchio, Prezzemolo e Finocchio”, dove il grande Renzo
Montagnani cerca di consumare un’unione carnale con una
procace ragazza vestito da giapponese con tanto di fascia da
kamikaze e kimono: “ohohohohsaka!” ed eccomi chino a novanta
gradi con questo che tenta di allungarmi non so quali
muscoli; “tohohohohohshiromifumano!” in piedi con la gamba
stesa incrociata davanti all’altra che devo toccarmi le
punte dei piedi; “banzahhhhhhhiiiii!” il mio grido quando
nella suddetta posizione mi entra con le mani dentro il
femorale (per i malpensanti trattasi di muscolo della
coscia). Mentre l’eco delle mie urla risuona ancora tra le
rocciose vette, lui mi quarda soddisfatto e mi invita a
constatare i miglioramenti: fortunatamente per lui non ce ne
sono di sorta cosicché, dopo l’immancabile inchino di
commiato, non posso dargli dietro e fargli esperire una mia
personalissima massoterapia!
Convinto che se fosse
ancora con me la Fata Turchina approverebbe adesso la mia
resa, estraggo nuovamente la spada per il definitivo
harakiri: con il cellulare compongo il numero
dell’organizzazione per farmi venire a prendere ..... ma
ovviamente non c’é campo. Non ho altra scelta di provare ad
andare avanti da solo, proprio mentre comincia a piovere ...
il divino sceneggiatore comincia a prendersi troppe libertá!
Tra innumerevoli tentativi di riattivare l’articolazione,
dolorosi minuscoli passi in avanti e disperati tentativi di
retro-camminata su sentiero, impiego due ore per avanzare di
quattro forse cinquecento metri trovando finalmente
copertura di rete. Chiamo l’organizzazione e vengo
localizzato tramite il GPS che ho nello zaino; di comune
accordo decidiamo di non allertare l’elisoccorso, visto che
a parte la gamba che non riesco a piegare sto bene e, con
l’aiuto di qualcuno, dovrei farcela a percorrere un paio di
Km fino a Chenel, dove é possibile arrivare in auto. Quando
riaggancio provo, mi vergogno a dirlo, quasi un senso di
liberazione: ho perso, sono stato sconfitto ma piú di cosí
non potevo fare e devo per forza essere in pace con me
stesso ... ma ancor oggi non sono convinto che sia davvero
cosí !
Striscio penosamente
incontro ai miei salvatori, un uomo ed una donna, che
finalmente vedo venirmi incontro un altro paio di ore dopo;
con il loro aiuto, un po’ a gamba zoppa sorreggendomi sulle
spalle di Mario, un po’ in retromarcia guidato dalla ragazza
(mi rendo conto adesso di non averle chiesto il nome),
giungo all’abitato dove mi viene offerta un’ultima
possibilitá che lí per lí non esito a rifiutare, ma che non
ha poi cessato un istante di rimbomabarmi in testa e forse
mai lo fará, almeno fin quando un giorno arriveró forse a
Courmayeur con le mie gambe. Devo decidere se salire in
macchina oppure tentare di continuare a scendere da solo
lungo il sentiero verso la base vita di Valtournanche, tre o
quattro Km avanti e 600 metri di quota piú in basso.
Le mie convinzioni giá si
incrinano quando venti minuti piú tardi, con il sole che fa
nuovamente capolino dopo la pioggia, metto i piedi fuori
dall’auto di fronte alla base vita e con frustrante
meraviglia mi rendo conto che, passate ormai cinque ore dal
grippaggio, riesco nuovamente a piegare il ginocchio. La
prima persona in cui mi imbatto é Fabrizio, il trailer
abruzzese, cui solo ora rammento di aver chiesto la sera
prima a Gressoney di procurarmi l’Oki che stavo terminando:
nonostante il concorrente cui faceva da accompagnatore si
fosse giá ritirato, chissá da quanto é lí ad attendermi
con entrambe le mani piene di dosi, il misericordioso
pusher. Ultimo esempio, ma solo in ordine temporale, della
favolosa solidarietá di cui ho potuto godere nel giorno
della mia agonia sportiva, che ha pero’ coinciso con
emozioni positive parimenti intense, capaci di commuovermi
ad imperitura gratitudine.
Entrando in base vita
insieme ai miei salvatori il chip mi registra regolarmente,
ma loro dicono all’addetto che mi sto ritirando. A questo
punto, ormai fuori tempo perché ne potessi onestamente
usufruire, la beffarda sorte sembra voler darmi un’altra
possibilitá: il cronometrista mi chiede se sono davvero
intenzionato al ritiro, proprio mentre Graziano mi informa
che qui ci sono degli ottimi fisioterapisti ed i due del
soccorso si allontanano, come a lasciarmi appositamente
campo libero, omettendo di dire che ho fatto gli ultimi 4Km
in macchina. Sinceramente la mia esitazione, se poi si puó
definire tale, dura qualche frazione di secondo perché,
ammesso ed assolutamente non concesso, che mi avessero in
qualche modo rimesso in piedi e permesso di continuare,
quale soddisfazione avrei avuto, anche nella piú remota
delle eventualitá , a terminare la gara sapendo di aver
clamorosamente barato? Probabilmente sarebbe andata a finire
anche peggio, trovandomi ancora bloccato nel prossimo colle
con la Fata Turchina Mattea a rimproverarmi della cattiva
azione ed il Grillo Parlante giapponese ad esercitare le sue
atroci manovre sui miei poveri arti.
Dopo 240Km percorsi in
poco piu’ di 100 ore, mi rassegno cosí all’umiliazione delle
forche caudine. Mentre impassibile osservo il giudice
tagliar via impietoso con le forbici l’angolo del pettorale,
avverto una dolorosissima fitta al cuore: me ne é stato
appena asportato un pezzo!
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