All’expo del Lavaredo
Trail 2016 scoprii che nel settembre dell’anno seguente
avrebbero organizzato l’edizione zero dell’UTMR: il giro
completo del Monte Rosa in tappa unica. Gonfiando un po’ il
mio curriculum di esperienze alpine, venni selezionato tra i
cinquanta “fortunati” a potervi partecipare, salvo poi esser
ripescato al quasi contemporaneo Tor de Geants ma, grazie ad
un’apprezzabilissima elasticitá da parte degli
organizzatori, riuscii comunque a spostare l’iscrizione
all’edizione successiva, nel settembre 2018. Tutto perfetto,
non fosse per il ferale esito del suddetto Tor, che gli
affezionati lettori ben conoscono, ma soprattutto per il
promettente percorso di avvicinamento durante l’anno
corrente: cinque ritiri su sei partecipazioni ad ultratrail,
quattro dei quali di media difficoltá appena!
Dopo un attento esame
psico-fisio-motorio delle prestazioni a tal punto
fallimentari, l’esperienza maturata ed una certa onestá
intellettuale che penso mi riconosciate, hanno portato
ad una precisa diagnosi: se fino allo scorso anno andavo
piano, da alcuni mesi a
questa parte sono un vero e proprio paracarro .... (una
piu’ colorita espressione gergale che avevo usato, e’
stata considerata inappropriata dal mio correttore di
bozze, alias editore alias Rosati Senior).
Ben piú problematica si é peró rivelata la terapia:
le gare di avvicinamento, come giá detto, sono state un
disastro e ad inizio agosto ho persino rischiato di non
riuscire a terminare un lungo allenamento autogestito lungo
il percorso del vecchio trail del Malandrino, da Prato
all’Abetone, in cui ho trascinato Simone Anselmi .... un
ragazzo promettente che temo, ahilui, abbia ormai
ineluttabilmente imboccato la strada di perdizione dell’ultratrail!
Siccome non mi abbatto facilmente, mi sono comunque convinto
che il percorso fatto, nonostante tutto, mi avesse portato
nella condizione migliore possibile a ridosso della gara:
eccomi cosí affrontare determinato le prove di rifinitura di
fine agosto ad Abbadia San Salvatore e Campiglia d’Orcia,
dove numerosi testimoni mi hanno infatti visto arrancare
esanime giá dal quindicesimo Km in poi!
A dieci giorni dalla
partenza dell’UTMR, per la prima volta in vita mia,
guardandomi dentro l’anima ho pensato di non aver
possibilitá alcuna di terminare questa folle e durissima
avventura. C’erano peró in ballo trecento euro di iscrizione
e quattro giorni di chalet giá pagati per la vacanza con
tutta la famiglia, quindi l’opzione di non presentarsi al
via non era tale. Al contempo, per quanto completamente
avulso dal far diventare quest’hobby una professione, non
sono neppure il tipo da fare una comparsata ad una gara che
rappresentava da ormai due anni uno degli obiettivi
principali, tra l’altro, visti costi e difficoltá
logistiche, molto probabilmente non ripetibile. Non
conoscendo i canali giusti per rifornirmi in cosí breve
tempo di eritropoietina, ormoni della crescita e quant’altro
la sana attivitá sportiva ci mette ormai a disposizione, ho
deciso di curare l’aspetto mentale .... ovviamente a modo
mio. Vista l’inutilitá di farsi coraggio (di questo ritengo
di averne abbastanza da rasentare l’incoscienza) o di
autoconvincersi delle proprie possibilitá (era ormai da un
anno che il cervello diceva invano alle gambe di andare
avanti), mi sono minacciato mettendomi con le spalle al
muro: o finisci questa gara oppure, se non sei piú in
grado, la smetti definitivamente con queste ultracavolate!
Ed ecco l’allegra
famiglia Rosati partire alla volta della Svizzera il mattino
di mercoledí 5 settembre; onestamente mi sento contento e
rilassato, nonostante le possibilitá di essere vicini alla
fine di una breve ma, almeno per me, decorosa carriera siano
piú che concrete. Addirittura ho il coraggio di chiedere ai
ragazzi (... e ce ne vuole, vista la genía da cui
provengono!) un vaticinio tranchant se avessi o meno
terminato la gara; dopo un breve conciliabolo sul sedile
posteriore le piccole sfingi producono il criptico oracolo:
“Babbo, se non ti ritiri, ce la fai!” che, buon segno,
interpreto in maniera positiva ..... d’altronde ogni
orecchio sente soltanto ció che vuol udire!
Il primo pomeriggio siamo
in fila nell’ufficio turistico di Grächen, dov’é allestito
il ritiro del pettorale, previo controllo materiale
obbligatorio: e che controllo! Siamo nel cantone Vallese e
non ci sono dubbi che sia di lingua tedesca; sul pavimento
sono state tirate con il nastro adesivo otto righe, divise
orizzontalmente in una quindicina di settori, uno per ogni
articolo obbligatorio richiesto dal regolamento, compresa la
carta d’identitá: come ai controlli di sicurezza in
aeroporto, via via che se ne libera una, il prossimo della
fila deve svuotare il suo zaino e disporvi le proprie cose,
che vengono controllate con pignoleria dagli addetti i
quali, se tutto é in ordine (tanto per capirsi hanno
controllato pure il materiale di giacche e copri-pantaloni
tramite le etichette), rilasciano una ricevuta con cui
ritirare numero, chip da subito legato al polso e rilevatore
GPS fissato allo zaino .... fortunatamente non mi é giunta
notizia di atleti deportati in campi di lavoro per colpevole
omissione.
La notte successiva é
molto breve; tra l’altro dalle una in poi, ogni dieci minuti
sono a controllare che ore siano, nonostante avessi rimesso
la sveglia alle tre .... inutile nasconderci che questa
gara, per quanto giá detto, la sento in maniera particolare.
Alle tre e mezzo di giovedí, dopo una colazione che sembra
piú uno spuntino di mezzanotte, sono puntuale in zona
partenza nella piazza del paese, tra la folla
silenziosamente eccitata sotto un algido cielo stellato.
Mentre mi chiedo quale tipo di colonna sonora abbiano scelto
per la partenza ad un’ora sí antelucana, ecco che mi
rispondono le ieratiche vibrazioni di tre enormi corni
alpini azionati dai capaci polmoni di altrettanti vigorosi
montanari. Alle quattro in punto, come orologi svizzeri, si
parte!
Dopo un breve giro tra le
vie del minuscolo paesello, passiamo ancora dalla piazza
salutati dagli applausi dei coraggiosi accompagnatori che si
sono svegliati a quell’ora (ovviamente la famiglia Rosati se
ne é rimasta saggiamente a letto): avverto il lungo e
profondo suono dei corni alpini come il fischio di un
piroscafo che parte carico di emigranti alla ventura
nell’ignoto dell’oceano.
Lasciati alle spalle gli
ultimi chalet entriamo nel bosco e vengo subito accolto dal
fastidioso pizzico di un’ape, non so se particolarmente
mattiniera o nottambula ... diciamo che l’inizio poteva
essere comunque migliore. Dopo un po’ di salita il sentiero
scorre agevole in falso piano fino a quando non si butta
deciso in discesa verso il fondovalle. Il percorso originale
sarebbe stato in quota lungo il celebre Europa Weg, ma una
frana ci ha costretto a percorrere cinque o sei Km, invero i
meno spettacolari, per non dire i piú brutti, della gara su
uno stradone stretto tra la ferrovia e la statale verso
Zermatt. Giunto a Randa sul far del giorno, vedo le ultime
frontali ancora accese arrampicarsi sul costone della
montagna: inizia la rumba!
La salita é molto ripida
tra le rocce e le contorte radici delle conifere ma,
perlomeno all’inizio, sembro ancora in possesso del mio
lento ma inesorabile passo con cui riprendo diversi
concorrenti appollaiati sui sassi a rifiatare. Finalmente,
un centinaio di metri sopra la mia testa, scorgo la prima
grande attrazione del trail: il ponte Charles Kuonen, che
con i suoi 494 metri di lunghezza per una luce massima di
85m é il ponte pedonale sospeso piú lungo al mondo ....
Pensare che ha tolto tale record al ponte sospeso delle
Ferriere a San Marcello Pistoiese, parte del percorso del
Montanaro Trail: certo che con questi benedetti ultra se ne
vedono di cose belle! Giá assaporo l’eccitazione di essere
cullato dalle oscillazioni da brivido che il continuo
passaggio dei trailers sta vistosamente provocando, quando
ad una cinquantina di metri dall’imboccarlo scopro con
estremo disappunto che coloro che vi stanno entrando
provengono da un sentiero che si perde nelle imperscrutabili
altezze della montagna. Chiedo immediatamente lumi ai
colleghi e scopro (figuratevi voi se avessi ascoltato il
briefing pre-gara!) che il primo check-point é rimasto
all’EuropaHütte che, non ci fosse stata la frana, avremmo
dovuto raggiungere dall’alto della montagna: in conclusione
ci sono ancora alcune centinaia di metri di dislivello da
salire lungo il sentiero che poi dovremo nuovamente
percorrere in discesa.
Al ristoro mi assicuro
che venga registrato il passaggio e rifiato godendomi la
magnifica vista dei ghiacciai del Weisshorn sul prospiciente
versante della Mattertal, sorbendo uno squisito té preparato
con una sapiente miscela di erbe aromatiche. Ridiscendendo
verso il ponte sospeso noto con piacere che ho dietro di me
almeno una trentina di concorrenti; non si tratta né di
agonismo vanaglorioso né di gratuito sadismo: il fatto é che
so per esperienza che rimanere nelle ultimissime retrovie
sin dall’inizio, in questi lunghi trail significa quasi
sempre essere risucchiati nell’impietoso vortice del tempo
massimo. Superato lo spettacolare ponte ha inizio un
continuo saliscendi nel tratto piú spettacolare dell’
Europa Weg. In molti tratti il sentiero é una strettissima
cengia, un’insignificante riga che solca la parete rocciosa
del Mischabel perfettamente in piombo per mille o forse piú
metri, seguendone fedelmente per vari Km il sinuoso
andamento in tutti gli anfratti da cui precipitano fragorose
cascate, talvolta attraversate passando loro dietro, altre
volte con doccia incorporata ed un paio di volte con dei
tunnel artificiali scavati nella roccia viva. Considerata la
mancanza di protezioni, ogni volta che desidero ammirare il
superbo panorama preferisco fermarmi, piuttosto che mettere
un piede in fallo senza possibilitá di salvezza alcuna:
ritornando alla diatriba tra coraggio od incoscienza lascio
giudicare voi, ma ho talmente tanta adrenalina in corpo da
non sentire affatto la fatica. Quando poi, aggirato
l’ennesimo sperone roccioso, si staglia proprio davanti ai
miei occhi sua maestá il Cervino il godimento raggiunge
apici inimagginabili, facendomi dimenticare in un colpo
tutti i dubbi nutriti prima della partenza.
Il parossismo viene
interrotto da una vallata laterale piú larga che si apre
in dolci pascoli su cui é posto il secondo ristoro a
Täschalp, per poi riprendere con altri tratti mozzafiato fin
quando non comincia definitivamente la lunga discesa verso
Zermatt, dove é posto il primo cancello orario cui giungo
con un’ora e mezzo di margine. Assediato da un nugolo di
vespe attratte dalla coca cola e dagli zuccheri del ristoro,
mi cambio la maglietta, mangio un po’ di minestra con del
formaggio e del salame e riparto in compagnia di Giorgio, un
ragazzo con cui avevo fatto un po’ di strada insieme al Tor
dell’anno precedente e che convinco momentaneamente a
desistere dal ritiro cui era intenzionato. Come al solito i
paesi, soprattutto se grandi ed affollati come Zermatt, sono
i luoghi dove é piú difficile seguire i balisaggi che
segnalano il percorso; riusciamo in qualche modo a
destreggiarci tra la folla piuttosto VIP, almeno a giudicare
dalle bardature, che sembra non curarsi affatto della
manifestazione in corso .... ce ne facciamo una ragione ed
usciamo finalmente dalle case imboccando il sentiero in
salita.
Siamo a 1600m di
altitudine ed il clima é torrido, benché ci abbiano
avvertito che in quota faccia brutto tempo e sia piuttosto
freddo. Per le prime due ore saliamo con passo costante
lungo sentieri agevoli anche se talvolta ripidi, incrociando
numerosi passeggiatori e virtuosi discesisiti in
mountanbike, che pazientemente si fermano ai lati dando la
precedenza al nostro lento incedere ... nonostante l’aplomb
nordico immagino di aver preso molti piú accidenti da loro
che dagli spazientiti automobilisti italiani durante le
corse della domenica.
Mentre il meteo cambia e
densi nuvoloni avvolgono ormai il Cervino sulla nostra
destra ed il Gornergrat e le punte del Breithorn sul
massiccio del Rosa alla nostra sinistra, anche la
vegetazione lascia il posto alle aride pietraie mentre
arranchiamo sotto i piloni della funivia. Appena comincia a
piovere indosso immediatamente giacca e copri pantaloni
impermiabili, con un paio di guanti gialli da lavapiatti,
magari non troppo professionali, ma che riscuoteranno
l’entusiastico consenso di molti miei colleghi per la loro
indubbia tenuta all'acqua. Sotto una pioviggine non violenta
ma comunque insistente, raggiungo il posto di controllo e
ristoro liquido posto all’esterno del rifugio Gandeghütte,
ai 3000m di quota. Riparandomi alla meglio sotto una gronda,
mi tolgo la maglietta bagnata di sudore ed indosso una maglia termica
sotto la giacca e dei guanti piú caldi sotto quelli da
lavapiatti, avendo le mani sí asciutte ma ormai sull’orlo
dell’assiderazione. Novello Amundsen, dopo una breve ma
infida pietraia, mi trovo cosí a camminare sul ghiacciaio
ormai trasformato in pista da sci che, costeggiando i
saracchi che scendono dal Breithorn purtroppo confusi nella
nebbia, mi porta abbastanza dolcemente all’ultimo ripido
strappo per raggiunger il colle del Teodulo, oltre i 3300m
di altitudine, dove due volontarie dalle inconfondibili
fattezze asiatiche, caritatevoli angeli della tempesta, ci
attendono tutte intabarrate con del té caldo, in tale
frangente vero e proprio elisir di lunga vita.
Una volta sul versante
italiano riconosco immediatamente le piste del Plateau Rosa
sopra Cervinia; quando quasi trent’anni fa le solcavo per la
prima volta con gli sci, mai e poi mai avrei immaginato che
un giorno la demenza senile mi avrebbe portato ad arrancarvi
in un plumbeo pomeriggio di fine estate. Il percorso fino al
successivo punto di controllo e ristoro del lago Cime
Bianche é comunque agevole, sviluppandosi tra le piste e gli
impianti di risalita del grande comprensorio. Quando vi
giungo, alle 18 e trenta, ha finalmente smesso di piovere e
uno dei volontari, un locale di cui penso ci si possa
fidare, mi dice che dopo un breve tratto in salita sará
tutta discesa facile fino al rifugio Ferraro: un’ora, al
massimo un’ora e mezzo dallo scollinamento.
Anche se con i miei forti
dubbi, visti comunque i quasi 14 Km da coprire, considerando
che il cancello orario é alle una di notte, riparto dal
ristoro con un certo ottimismo convinto di guadagnare ancora
ore preziose sul tempo limite, da poter poi sfruttare per
riposarsi. In neppure mezz’ora di agevole salita raggiungo
in effetti il colle Superiore Cime Bianche (ancora sui 3000m
di quota) e da lí intraprendo pimpante la discesa,
corricchiando sul ripido sentiero che scende a picco verso
il Grand Lac, sotto le imponenti falde del ghiacciaio
Paradise. Comincia a calare l’oscuritá, ma continuo a
correre o comunque camminare celermente nei pezzi piú
disagevoli del sentiero che scende con improvvisi sbalzi
seguendo il corso del torrente, dove si succedono tratti
ripidi con cascatelle a piccoli pianetti acquitrinosi. Il
tempo passa, si fa notte, accendo la frontale, continuo a
corricchiare ma non c’e nulla che mi faccia pensare di esser
vicino a qualche forma di urbanizzazione. Ad un certo punto
mi trovo in un ampio pianoro quasi completamente allagato,
dove é sempre piú difficile districarsi tra fango ed
aulenti deiezioni vaccine. Per evitare le une o l’altro
faccio piccole deviazioni fino a quando mi rendo conto di
non veder piú segnali; attraverso il mefitico pantano come
un vietcong per tornare a quello che sono convinto essere il
sentiero principale, ma niente. Qualche centinaio di metri
piú avanti vedo alcuni lumini fermi ed alcuni che tornano
indietro, chiaro segnale di smarrimento collettivo. Li
raggiungo e cominciamo a discutere sul da farsi,
considerando che il sentiero sembra esser quello, ma
nell’oscuritá potremmo anche aver perso qualche diramazione
laterale. Ad un certo punto un vispo giapponese, indicando
un’asticella priva di bandierina conficcata nel terreno,
urla soddisfatto della scoperta: “cow!”. Mi vengono subito
alla mente numerosi racconti sull’insana cupidigia dei
bovidi nei confronti delle segnalazioni fosforescenti e cosí
proseguiamo convintamente lungo il sentiero, rassicurati qua
e lá da alcune asticelle, tutte rigorosamente prive di
bandierina, ancora infitte nel terreno. Superato finalmente
un recinto elettrico, le bandierine magicamente ricompaiono
e continuiamo ancora compatti in un gruppetto di cinque o
sei persone, almeno fin quando il sentiero, se tale si puó
chiamare, precipita in un dirupo boschivo tra avviluppati
arbusti e scoscese pietraie .... un vero incubo,
considerando anche la notte e la stanchezza. Bramoso di
arrivare al ristoro che ritengo ormai prossimo, insieme ad
un altro trailer continuiamo implacabili come predatori
nella jungla, distaccando il resto della compagnia. Giunti
su un ampio pascolo in fondo alla valle, il Pian di Verra,
si cominciano a vedere alcune luci e mi avvicino speranzoso
ad un cartello che finalmente indica il rifugio Ferraro ....
ad un’ora e mezzo di cammino! Sono le nove passate e
stramaledico il volontario del ristoro precedente e le sue
indicazioni: ho poi verificato che il primo ha impiegato
un’ora e quaranta a fare questo tratto! L’effetto rebound é
devastante e mi sento improvvisamente svuotato di ogni
energia; saggiamente decido di riposarmi una decina di
minuti intaccando la mia scorta di datteri e formaggio,
cosicché intorno alle dieci ed un quarto, dopo pure un
tratto in salita, raggiungo il rifugio.
Nonostante il
rifornimento sia posto all’esterno, si puó fortunatamente
entrare e cosí mi godo il tepore della stufa massaggiandomi
i piedi doloranti per una buona mezz’oretta. Con ancora due
ore abbondanti di vantaggio sul cancello orario, riparto per
affrontare il colle che dalla Val d’Ayas, in cima alla quale
mi trovo adesso, mi porterá nella valle del Lys a Gressoney.
Quello percorso dal classico Monte Rosa tour sarebbe stato
il Bettaforca, ma la gara ci fa percorrere l’assai meno
frequentato (e c’é un perché) Rothorn. Mi trovo cosí davanti
ad una tipica salita di alta quota della Valdaosta, con un
erta ed infinita pietraia che scalo aiutandomi con
bastoncini, mani, bestemmie e quant’altro venga utile.
Quando peró raggiungo la piramide di sassi che marca il
passo la soddisfazione é impagabile e probabilmente, non
fosse per la notte ancora un po’ nuvolosa, lo sarebbe anche
il panorama. Se la salita é stata ripida, i primi due o
trecento metri di dislivello negativo fino al pianoro con
gli ameni laghetti di Saler sono praticamente verticali e
necessitano estrema cautela e sangue freddo: si ha
l’impressione, in caso di caduta, di tuffarcisi direttamente
dentro. Il resto della discesa scorre abbastanza facile fino
alla cappela di S.Anna, da dove uno stradone sterrato
conduce al ristoro di Gressoney in localitá Staffal.
Per conservarmi le due
ore di margine sul cancello orario, oltre a massaggio dei
piedi e ristoro alimentare, ho quindici minuti di tempo per
una tanto breve quanto intensa dormita sdraiato su un
materasso. Alle quattro del mattino riparto e mi imbatto da
subito in un sentiero che corre sotto la seggiovia del
Gabiet e ne ricalca l’infernale pendenza. Fortunatamente
dopo i primi cinquecento metri di dislivello nel bosco, il
vallone alpino si allarga in infiniti dolci pascoli e, ormai
sul far del giorno, la vista puó correre fino all’ahimé
ancor lontano passo dei Salati, sormontato in prospettiva
dalla Piramide Vincent e sulla sinistra dal Naso del
Lyskamm. Quando sto per imboccare le ultime ripide erte
dello stradone carrozzabile che conduce al passo, comincio
ad essere ripreso dai primi concorrenti del Ultra Tour a
tappe, partiti con la terza frazione alle sei da Gressoney.
Vero che hanno meno di dieci Km nelle gambe, comunque la
velocitá non é doppia, ma almeno tripla considerando che,
seppur camminando nei tratti piú ripidi, mi lasciano
praticamente sul posto .... il bello é che mi fanno pure i
complimenti!
Addirittura zigzagando
sugli ultimi duecento metri come Fantozzi alla coppa Cobram,
giungo finalmente al rifugio sul passo con una cera che non
deve essere delle migliori, visto che il volontario mi
chiede con apprensione se mi senta bene: “Benissimo!”
rispondo tanto per fare lo splendido, tentando pure un
ginnico saltello con tanto di “OP” finale, che rischia di
lasciarmi ripiegato a seggiolina sul posto fino all’arrivo
dell’elisoccorso. Ho lo stomaco talmente chiuso per la
fatica, che devo aspettare un buon quarto d’ora per mandar
giú qualcosa da mangiare.
Mentre il rifugio si sta
affollando con i trailers della corsa a tappe che giungono
sempre piú fitti, entrando in Piemonte comincio
l’interminabile discesa che porta dagli oltre 2900m del
passo agli scarsi 1200m di Alagna. Nonostante la pendenza a
favore accuso l’enorme sforzo patito nella salita precedente
e procedo con una simil specie di corsa che non é neppure un
passo veloce, cosicché vengo raggiunto e superato da quasi
tutti i trailer partiti poche ore prima ed anche da qualche
mio compagno ritardatario. Dopo cinquecento metri di
dislivello negativo saliamo per un centinaio di metri lungo
uno stretto sentiero a mezza costa con cui lasciamo il
vallone di Olen e, attraversato il passo Foric, continuiamo
a scendere per la parallela Val d’Otro. Sto probabilmente
attraversando la crisi piú dura di tutta la gara e ci si
mette pure la sfortuna, con il riaffacciarsi di una piaga
che ormai da anni sembrava debellata: la maledizione delle
racchette! Attraversando una pietraia la destra mi rimane
incastrata, come accaduto altre migliaia di volte, tra i
sassi, solo che questa volta, tirandola via, le faccio
probabilmente fare un piegamento anomalo che la spezza in
due: rimango per qualche secondo come un ebete a fissare i
due mozziconi, uno in mano e l’altro ancora conficcato tra i
sassi. Li raccolgo insieme legati allo zaino e continuo con
l’umore che potete immaginare, rinfrancato ulteriormente
dalla prima caduta dopo quasi cento
Km:
una vigorosa botta sui
sassi con le terga, causata proprio dalla mancanza di appoggio del secondo
bastone, su cui ero ormai totalmente abituato a far
affidamento.
Arrivo al ristoro di
Alagna con ormai soltanto un’ora e mezza di margine sul
cancello orario, stanco e di umor nero per la racchetta
rotta che getto nervosamente a terra. L’atmosfera é
piuttosto pesante, nonostante la gentilezza dei volontari: i
concorrenti del tour a tappe che arrivano adesso vengono
fermati perché fuori tempo massimo e i reduci
dell’ultratrail sono piú o meno nelle mie stesse
condizioni. Come ciliegina sulla torta mi scopro pure sulla
coscia destra, sotto i ciclisti, due dolorosissimi pizzichi
di ragno o altro feroce insetto, che hanno piagato la pelle
in maniera abbastanza ripugnante. Non ho tempo da perdere
per farmi medicare .... poi magari mi vorrebbero pure
fermare e, arrivati a questo punto, neppure sparandomi ci
riuscirebbero!
Riparto con mono
racchetta tipo gondoliere di montagna e, attraversato tutto
il paese di Alagna, comincio a risalire l’alta Valsesia
verso il passo del Turlo. Fortunatamente il nuovo imponente
dislivello di 1600m viene quasi interamente coperto da una
mirabile opera ingegneristica costruita dagli Alpini del
battaglione Intra negli anni ’20: una mulattiera
completamente lastricata che sale regolare e, considerando
l’ambiente, non troppo ripida. Proprio mentre il tempo
sembra volgere al peggio con le prime gocce d’acqua che
cadono e minacciosi nuvoloni che scendono dalle cime
circostanti, appena entrato nell’invisibile nebbione d’alta
quota tutto di un tratto il sole ha il sopravvento e spazza
via le nubi, mostrando l’ultimo spettacolare km di tornanti
che conducono al valico. Sul passo una stele di travertino
ricorda come nell’ VIII anno dell’era fascista gli alpini
del IV reggimento completarono l’opera; da lí comincia la
discesa, ancor piú sbalorditiva della salita, con
un’infinita serpentina che precipita verso la Valle Anzasca.
L’obiettivo primario é
giungere a Macugnaga entro il cancello orario delle 22,
costi quel che costi. Il bordo esterno della mulattiera,
vale a dire la parte sommitale del contrafforte su cui
poggia la strada lato precipizio, é quasi interamente
rivestito di lastre di pietra piatte ed ancora regolarmente
disposte, dopo quasi cento anni dalla loro stesura. Non
soffrendo di vertigini ed abituandomi agli scarichi di
adrenalina che gli improvvisi e frequenti movimenti di
queste pietre provocano, corro quasi tutta la discesa su
questa sottile striscia sospeso nel vuoto. Purtroppo la
bella mulattiera svanisce nell’ultimo salto di roccia che
precipita in fondo al vallone di Quarrazza: questo viene
superato attraverso un sentiero piuttosto malagevole che
scende avviluppato nella folta vegetazione, reso ancor piú
infido dall’acqua dei numerosi torrentelli che spesso lo
scelgono come loro letto naturale. Impavido verso la meta
continuo la mia disperata corsa fin quando, ormai quasi
terminato il tratto ripido, scivolo su un pietrone viscido e
con la classica sforbiciata a mezz’aria atterro
dolorosamente con il fianco destro proprio sopra la
racchetta superstite che, presa a contrasto con il masso e
non tarata per tali carichi, si spezza esattamente a metá
come aveva fatto alcune ore prima l’altra. Non ho tempo né
per imprecare né per piangermi addosso: raccolti i due
mozziconi in una mano, continuo ad alternare corsa e
camminata veloce sul sentiero che costeggia ormai il
torrente a fondovalle, fino a raggiungere il ristoro liquido
e posto di controllo a Quarrazza quando sono da poco passate
le 19. Mi informano che a Macugnaga, localitá Staffa,
mancano circa cinque Km, tutti su comoda strada sterrata e
pista ciclabile in saliscendi: in effetti, liberatomi dai
resti del bastoncino, impiego circa un’ora di disarmonica
corsetta e marcia serrata (dopo oltre 120Km e 40 ore senza
dormire non riesco a far meglio della classica donnina con
la spesa che sta perdendo l’autobus) per raggiunger il
ristoro, proprio mentre luci e lampioni si accendono ad
illuminare la mia anima nella seconda notte che sta calando.
Per prima cosa chiedo ai
volontari, invero assai poco convintamente, se per caso
abbiano un paio di bastoncini da prestarmi per l’ultimo
quarto di gara; una ragazza mi informa che un concorrente
del tour a tappe arrivato nel pomeriggio le aveva chiesto di
portare le proprie all’arrivo di Grächen il giorno seguente,
in quanto non aveva intenzione di usarle nell’ultima tappa e
che quindi avrei potuto tranquillamente svolgere lo stesso
servizio, servendomene al contempo. L’incredibile ed
inaspettato
colpo di fortuna mi convince che ormai é fatta; a
rimettermi definitivamente di buon umore ci pensano un bel
piatto fumante di rigatoni al pomodoro ed un gustoso boccale
di birra .... mi prendo addirittura la libertá di telefonare
alla consorte per avvertirla del mio ormai piú che
probabile arrivo il pomeriggio seguente.
Decido di ripartire il
prima possibile senza provare a dormire (convinto che ci
riuscirei anche troppo bene) e cosí verso le nove di sera
intraprendo la scalata all’ultima grande salita del tour,
scortato dai “miei” bastoncini nuovi fiammanti. La prima
parte nel bosco, per quanto a tratti ripida, riesco a
percorrerla con continuitá e mi fermo soltanto qualche
minuto una volta superato il primo scalone di roccia, seduto
su una comoda panchina per godere dello sbrilluccicante
presepio che mettono in scena le frazioni del comune
diffuso di Macugnaga, degradanti a perdita d’occhio nella
valle Anzasca. Purtroppo data l’oscuritá non riesco a
distinguere nitidamente l’imponente parete est del Rosa, la
piú grande d’Europa, che ben rammento dai tempi in cui la
ammiravo indossando per la prima volta gli sci .... questo
sí ormai piú di trent’anni fa! Sul modello delle tipiche
salite valdostane, mi aspettavo a questo punto pendenze piú
dolci lungo i pascoli, ma purtroppo il sentiero si impenna
ancor piú ripido tra le lussureggianti praterie,
costringendomi a sempre piú frequenti soste forzate. Come
ormai temevo sono alle prese con un climax ascendente e
l’ultimo tratto in quota su pietraia é terribile: il lato
positivo é che finalmente vedo le luci del rifugio a meno di
un Km .... il lato negativo é che questo Km é in pratica
verticale. Non riesco a fare piú di uno, massimo due minuti
di camminata senza poi lasciarmi andare seduto o addirittura
sdraiato sui lastroni di roccia per altrettanto tempo,
raccogliendo la forza per continuare nell’estatica
contemplazione del firmamento farcito di stelle e talvolta
guarnito da meteore, nonché nelle piú prosaiche luminarie
della baita che vedo sempre piú vicine .
Sono passate le una del
sabato da pochi minuti quando faccio l’ingresso nel rifugio
Oberto Maroli; con il poco fiato residuo chiedo ad una
volontaria di svegliarmi dopo venti minuti, mentre mi lascio
cadere su un materasso in fondo alla stanza. Quando mi viene
a chiamare poltrisco ancora un po’, ma consultando
l’altimetria fiuto ormai l’impresa e mi ergo deciso sulle
malferme gambe, gozzovigliando di buon grado con zuppa,
formaggio, frutta e quant’altro il menú offra. Giá
informato dai ragazzi del ristoro, appena uscito mi
attendono gli ultimi cinque minuti di tribolazioni per
raggiungere la cresta di confine, arrampicandomi su un
enorme masso su cui sono stati inchiodati dei tronchi e
posto un corrimano che rendono il compito tutto sommato
agevole. Finalmente vedo la Madonna, in questo caso la sua
statua dorata posta sul passo del Monte Moro al confine
italo-svizzero e, rientrando nel Cantone Vallese,
intraprendo la discesa attrezzata sull’altro lato del masso.
Tra la fine di questo e l’inizio della pietraia ci sono
pochi metri con della residua neve ghiacciata che sembra
piuttosto scivolosa; alcune lastre di pietra piatte disposte
all’uopo per attraversarla rappresentano in realtá la piú
infida delle trappole. Con le basse temperature l’umiditá
della notte si é trasformata in una micidiale ed invisibile
pellicola di ghiaccio che le ricopre cosicché, appena
poggiatovi il piede, questo parte via senza controllo e
l’altro, portato per istinto sulla pietra successiva, lo fa
pure con velocitá maggiore: il risultato é una fantastica
rovesciata ad almeno un metro e mezzo di altezza e mentre mi
libro in aria penso agli applausi che, novello Cristiano
Ronaldo, lo Juventus Stadium mi sta per tributare ....
lasciando i bastoni riesco pure a mettere per prime le mani
a terra, ma la schienata sul ghiaccio, fortunatmente
attutita dallo zaino, é comunque apocalittica, tanto che una
delle borracce piccole del marsupio mi vola via e si perde
tra le rocce. Verificata per prima l’integritá delle
racchette, poi delle ossa e fiducioso di non venir
squalificato per avere 1,25 litri di scorta idrica a fronte
dell’1,5 richiesto dal regolamento, mi rimetto in marcia
sulla pietraia in discesa con una cautela che estrema é dir
poco. Riprendo lentamente coraggio, finalmente i sassi
scompaiono ed il sentiero diventa agevole, trasformandosi
poi in uno stradone quasi pianeggiante che costeggia per
vari Km il bacino artificiale del Mattmark. Due notti e
mezzo senza dormire presentano il conto ed in questo lungo
tratto che non necessita particolare attenzione non riesco
piú a tenere gli occhi aperti; visto l’esiguo margine che
mi é rimasto sono peró risoluto nel raggiungere il
successivo ristoro ed ultimo cancello orario della gara:
vengo aiutato dai numerosi rivoli d’acqua gelata che
scendono dalla parete della montagna con cui do inizio ad
un’infinita serie di rinfrescanti abluzioni. Raggiunta la
diga, il sentiero scende nuovamente ripido fino a
raggiungere la strada asfaltata nel fondo valle; seguendola
pericolosamente a zig zag, metá ad occhi aperti e metá ad
occhi chiusi, raggiungo Saas Fee sul far del giorno, pochi
minuti prima delle sette del mattino: a poco piú di venti
Km dal traguardo, ho ancora un’ora di vantaggio sul tempo
limite.
Venti minuti li impiego
per una profonda dormita coperto da un paio di pesanti
coltri nel gelo della tenso-struttura, una decina per farmi
coraggio ad uscire dall’accogliente tepore, altrettanti per
una ricca colazione ed un abbondante caffé solubile che in
condizioni normali avrei rovesciato addosso a chiunque me lo
avesse proposto, ma che vista la situazione sorbisco con
soddisfatta cupidigia ... in conclusione mi rimetto in
marcia con ancora una mezz’oretta di margine.
Percorrendo il lungo
corso del paese al risveglio, con i commercianti che aprono
bottega ed alcuni sparuti villeggianti che danno inizio alla
camminata del giorno, mi godo questo ritorno all’umana
civiltá, destinato ad essere comunque assai effimero.
Imboccato infatti un sentiero sulla sinistra si comincia a
salire per un bel po’ dentro al bosco fin quando si
ripresenta la situazione del primo giorno di gara: sono in
effetti sull’altro lato del massiccio del Mischabel e sto
percorrendo verso nord la valle di Saas, parallela alla
Mattertal che avevo solcato in direzione opposta verso
Zermatt. Il sentiero diviene una stretta cengia che nei
successivi Km ricalcherá il selvaggio andamento della parete
rocciosa, solcandola a mezza costa. I saliscendi con
passaggi da brivido si alternano senza soluzione di
continuitá (in effetti su quest’ultimo tratto,
apparentemente senza asperitá se si guarda all’altimetria
generale, sono presenti ben 1700m di dislivello positivo):
probabilmente perché meno frequentato del celebre Europa Weg
dall’altro lato si mostra se possibile ancora piú
selvaggio. Ci si imbatte spesso in fondi disastrati
piuttosto difficili da percorrere fin quando mi trovo ad
attraversare un vero e proprio fronte franoso di alcune
centinaia di metri con sassi completamente instabili che
rotolano verso il precipizio: i cartelli avvertono in
diverse lingue di fermarsi ad ascoltare con attenzione che
non ci siano moti franosi in corso prima di attraversare
.... preferisco tapparmi le orecchie e sperare nella buona
sorte! Appena superato incolume questa prova, costretto a
procedere talvolta a quattro zampe, sento alle mie spalle un
sinistro acciottolio sempre piú intenso di sassi rotolanti
ed il mio primo pensiero é di averla scampata bella.
Voltandomi rimango ancor piú basito che se avessi visto
venir giú la montagna: tale Sebastien Chaigneau, mi diranno
poi un ex top runner di livello internazionale, é il primo
dell’ultima frazione del giro a tappe partita da Macugnaga
alle sei del mattino e sta letteralmente correndo
sull’inferno di pietre appena descritto, provocando
praticamente il franare di ogni sasso su cui poggia piedi,
che peró velocissimi sono giá a far rotolare i massi
successivi. Non contento, appena raggiunta l’ancor infida
cengia su cui mi trovo (badate bene che si tratta
pur sempre di una
sconnessa pietraia, per quanto assai piú
stabile), comincia pure a spingere e devo fare alla svelta
per schiacciarmi alla parete rocciosa e lasciar passare
questo treno che ha pure il tempo di salutarmi con un “good
job!”. Il lodevole fairplay del fenomeno suona alle mie
orecchie piú o meno come l’impietoso apostrofare della
Mazzamauro a Fracchia: “Sa cosa le dico, lei non é un
atleta: é una merdaccia!”.
Ció malgrado il mio buon
umore cresce esponenzialmente all’inesorabile avvicinarsi
della meta; l’ultima indicazione per escursionisti,
incontrata poco dopo le undici, annunciava Grächen a quattro
ore di cammino: quindi procedere di buon passo é sufficiente
per arrivare alle tre del pomeriggio, un’ora prima del tempo
massimo. Mi godo cosí i bei panorami sulla vallata in questa
splendida giornata di sole; quando finalmente, lasciando il
costone, attraverso la sommitá del monte ormai degradante,
riconosco immediatamente la Mattertal con il Cervino sullo
sfondo e non posso trattenermi
dal lanciare un pugno chiuso
in aria in segno di successo.
Al ristoro di Hannigalp
un volontario fa per darmi da bere al volo dicendomi che
mancano ormai solo 4Km scarsi di discesa .... appunto, che
fretta c’é? Gli rubo la sedia e sotto l’ombrellone mi godo i
passaggi degli atleti del tour a tappe, incluse le prime due
donne ancora appaiate, sorseggiando l’amata coca cola e
discutendo della bellezza del percorso con le persone dello
staff. Chiamo la moglie per avvertirla dell’ormai imminente
arrivo, ma non é raggiungibile. Raggiunto da un ragazzo di
Singapore con cui eravamo ripartiti insieme da Saas Fee,
decidiamo di andare insieme all’arrivo; lo avverto peró di
non aver la minima intenzione di correre neppure un passo
.... come previsto dopo un po’ si scoccia e mi dice che ha
meno dolore se corre piano piuttosto che se cammina, lo
esorto quindi ad andare che tanto non mi offendo. Anzi, dopo
esser stato praticamente sempre solo per quasi sessanta ore,
non mi va che altre persone disturbino l’animato colloquio
che ho con me stesso, soprattutto adesso che, dopo fasi
alterne tra disperato incoraggiamento e litigiosi rimbrotti,
siamo ai complimenti finali. Quando giungo nella piazza di Grachen mi sono ormai detto tutto, lo psicologo (e ce ne
vorrebbe uno bravo!) direbbe che il successo é
metabolizzato. Per un improvviso guasto si é pure
momentaneamente sgonfiato l’arco di arrivo e devo passargli
a lato: la ragazza che mi infila la medaglia di finisher
mentre alzo le mani al cielo ricevendo calorosi applausi se
ne scusa ripetutamente, ma sinceramente non me ne frega
niente .... l’unica ombra é la mancanza della famiglia ad
attendermi, ma ecco che li vedo arrivare trafelati a
salutarmi ed il trionfo é cosí completo.
Fu vera gloria? Ai
posteri l’ardua sentenza. |