ULTRA TOUR MONTE ROSA 2018

 

Grächen

Km 170    D+ m 11300

6 - 8  settembre 2018

 

 

MICHELE  ROSATI

   
   

 

R E S U R R E Z I O N E

 

All’expo del Lavaredo Trail 2016 scoprii che nel settembre dell’anno seguente avrebbero organizzato l’edizione zero dell’UTMR: il giro completo del Monte Rosa in tappa unica. Gonfiando un po’ il mio curriculum di esperienze alpine, venni selezionato tra i cinquanta “fortunati” a potervi partecipare, salvo poi esser ripescato al quasi contemporaneo Tor de Geants ma, grazie ad un’apprezzabilissima elasticitá da parte degli organizzatori, riuscii comunque a spostare l’iscrizione all’edizione successiva, nel settembre 2018. Tutto perfetto, non fosse per il ferale esito del suddetto Tor, che gli affezionati lettori ben conoscono, ma soprattutto per il promettente percorso di avvicinamento durante l’anno corrente: cinque ritiri su sei partecipazioni ad ultratrail, quattro dei quali di media difficoltá appena! Dopo un attento esame psico-fisio-motorio delle prestazioni a tal punto fallimentari, l’esperienza maturata ed una certa onestá intellettuale che penso mi riconosciate, hanno portato ad una precisa diagnosi: se fino allo scorso anno andavo piano, da alcuni mesi a questa parte sono un vero e proprio paracarro .... (una piu’ colorita espressione gergale che avevo usato, e’ stata considerata inappropriata dal mio correttore di bozze, alias editore alias Rosati Senior).

Ben piú  problematica si é peró rivelata la terapia: le gare di avvicinamento, come giá detto, sono state un disastro e ad inizio agosto ho persino rischiato di non riuscire a terminare un lungo allenamento autogestito lungo il percorso del vecchio trail del Malandrino, da Prato all’Abetone, in cui ho trascinato Simone Anselmi .... un ragazzo promettente che temo, ahilui, abbia ormai ineluttabilmente imboccato la strada di perdizione dell’ultratrail! Siccome non mi abbatto facilmente, mi sono comunque convinto che il percorso fatto, nonostante tutto, mi avesse portato nella condizione migliore possibile a ridosso della gara: eccomi cosí affrontare determinato le prove di rifinitura di fine agosto ad Abbadia San Salvatore e Campiglia d’Orcia, dove numerosi testimoni mi hanno infatti visto arrancare esanime giá dal quindicesimo Km in poi!   

A dieci giorni dalla partenza dell’UTMR, per la prima volta in vita mia, guardandomi dentro l’anima ho pensato di non aver possibilitá alcuna di terminare questa folle e durissima avventura. C’erano peró in ballo trecento euro di iscrizione e quattro giorni di chalet giá pagati per la vacanza con tutta la famiglia, quindi l’opzione di non presentarsi al via non era tale. Al contempo, per quanto completamente avulso dal far diventare quest’hobby una professione, non sono neppure il tipo da fare una comparsata ad una gara che rappresentava da ormai due anni uno degli obiettivi principali, tra l’altro, visti costi e difficoltá logistiche, molto probabilmente non ripetibile. Non conoscendo i canali giusti per rifornirmi in cosí breve tempo di eritropoietina, ormoni della crescita e quant’altro la sana attivitá sportiva ci mette ormai a disposizione, ho deciso di curare l’aspetto mentale .... ovviamente a modo mio. Vista l’inutilitá di farsi coraggio (di questo ritengo di averne abbastanza da rasentare l’incoscienza) o di autoconvincersi delle proprie possibilitá (era ormai da un anno che il cervello diceva invano alle gambe di andare avanti), mi sono minacciato mettendomi con le spalle al muro: o finisci questa gara oppure, se non sei piú  in grado, la smetti definitivamente con queste ultracavolate!

Ed ecco l’allegra famiglia Rosati partire alla volta della Svizzera il mattino di mercoledí 5 settembre; onestamente mi sento contento e rilassato, nonostante le possibilitá di essere vicini alla fine di una breve ma, almeno per me, decorosa carriera siano piú  che concrete. Addirittura ho il coraggio di chiedere ai ragazzi (... e ce ne vuole, vista la genía da cui provengono!) un vaticinio tranchant se avessi o meno terminato la gara; dopo un breve conciliabolo sul sedile posteriore le piccole sfingi producono il criptico oracolo: “Babbo, se non ti ritiri, ce la fai!” che, buon segno, interpreto in maniera positiva ..... d’altronde ogni orecchio sente soltanto ció che vuol udire!   

Il primo pomeriggio siamo in fila nell’ufficio turistico di Grächen, dov’é allestito il ritiro del pettorale, previo controllo materiale obbligatorio: e che controllo! Siamo nel cantone Vallese e non ci sono dubbi che sia di lingua tedesca; sul pavimento sono state tirate con il nastro adesivo otto righe, divise orizzontalmente in una quindicina di settori, uno per ogni articolo obbligatorio richiesto dal regolamento, compresa la carta d’identitá: come ai controlli di sicurezza in aeroporto, via via che se ne libera una, il prossimo della fila deve svuotare il suo zaino e disporvi le proprie cose, che vengono controllate con pignoleria dagli addetti i quali, se tutto é in ordine (tanto per capirsi hanno controllato pure il materiale di giacche e copri-pantaloni tramite le etichette), rilasciano una ricevuta con cui ritirare numero, chip da subito legato al polso e rilevatore GPS fissato allo zaino .... fortunatamente non mi é giunta notizia di atleti deportati in campi di lavoro per colpevole omissione.

La notte successiva é molto breve; tra l’altro dalle una in poi, ogni dieci minuti sono a controllare che ore siano, nonostante avessi rimesso la sveglia alle tre .... inutile nasconderci che questa gara, per quanto giá detto, la sento in maniera particolare. Alle tre e mezzo di giovedí, dopo una colazione che sembra piú  uno spuntino di mezzanotte, sono puntuale in zona partenza nella piazza del paese, tra la folla silenziosamente eccitata sotto un algido cielo stellato. Mentre mi chiedo quale tipo di colonna sonora abbiano scelto per la partenza ad un’ora sí antelucana, ecco che mi rispondono le ieratiche vibrazioni di tre enormi corni alpini azionati dai capaci polmoni di altrettanti vigorosi montanari. Alle quattro in punto, come orologi svizzeri, si parte!

Dopo un breve giro tra le vie del minuscolo paesello, passiamo ancora dalla piazza salutati dagli applausi dei coraggiosi accompagnatori che si sono svegliati a quell’ora (ovviamente la famiglia Rosati se ne é rimasta saggiamente a letto): avverto il lungo e profondo suono dei corni alpini come il fischio di un piroscafo che parte carico di emigranti alla ventura nell’ignoto dell’oceano.

Lasciati alle spalle gli ultimi chalet entriamo nel bosco e vengo subito accolto dal fastidioso pizzico di un’ape, non so se particolarmente mattiniera o nottambula ... diciamo che l’inizio poteva essere comunque migliore. Dopo un po’ di salita il sentiero scorre agevole in falso piano fino a quando non si butta deciso in discesa verso il fondovalle. Il percorso originale sarebbe stato in quota lungo il celebre Europa Weg, ma una frana ci ha costretto a percorrere cinque o sei Km, invero i meno spettacolari, per non dire i piú  brutti, della gara su uno stradone stretto tra la ferrovia e la statale verso Zermatt. Giunto a Randa sul far del giorno, vedo le ultime frontali ancora accese arrampicarsi sul costone della montagna: inizia la rumba!

La salita é molto ripida tra le rocce e le contorte radici delle conifere ma, perlomeno all’inizio, sembro ancora in possesso del mio lento ma inesorabile passo con cui riprendo diversi concorrenti appollaiati sui sassi a rifiatare. Finalmente, un centinaio di metri sopra la mia testa, scorgo la prima grande attrazione del trail: il ponte Charles Kuonen, che con i suoi 494 metri di lunghezza per una luce massima di 85m é il ponte pedonale sospeso piú  lungo al mondo .... Pensare che ha tolto tale record al ponte sospeso delle Ferriere a San Marcello Pistoiese, parte del percorso del Montanaro Trail: certo che con questi benedetti ultra se ne vedono di cose belle! Giá assaporo l’eccitazione di essere cullato dalle oscillazioni da brivido che il continuo passaggio dei trailers sta vistosamente provocando, quando ad una cinquantina di metri dall’imboccarlo scopro con estremo disappunto che coloro che vi stanno entrando provengono da un sentiero che si perde nelle imperscrutabili altezze della montagna. Chiedo immediatamente lumi ai colleghi e scopro (figuratevi voi se avessi ascoltato il briefing pre-gara!) che il primo check-point é rimasto all’EuropaHütte che, non ci fosse stata la frana, avremmo dovuto raggiungere dall’alto della montagna: in conclusione ci sono ancora alcune centinaia di metri di dislivello da salire lungo il sentiero che poi dovremo nuovamente percorrere in discesa.

Al ristoro mi assicuro che venga registrato il passaggio e rifiato godendomi la magnifica vista dei ghiacciai del Weisshorn sul prospiciente versante della Mattertal, sorbendo uno squisito té preparato con una sapiente miscela di erbe aromatiche. Ridiscendendo verso il ponte sospeso noto con piacere che ho dietro di me almeno una trentina di concorrenti; non si tratta né di  agonismo vanaglorioso né di gratuito sadismo: il fatto é che so per esperienza che rimanere nelle ultimissime retrovie sin dall’inizio, in questi lunghi trail significa quasi sempre essere risucchiati nell’impietoso vortice del tempo massimo. Superato lo spettacolare ponte ha inizio un continuo saliscendi nel tratto piú  spettacolare dell’ Europa Weg. In molti tratti il sentiero é una strettissima cengia, un’insignificante riga che solca la parete rocciosa del Mischabel perfettamente in piombo per mille o forse piú  metri, seguendone fedelmente per vari Km il sinuoso andamento in tutti gli anfratti da cui precipitano fragorose cascate, talvolta attraversate passando loro dietro, altre volte con doccia incorporata ed un paio di volte con dei tunnel artificiali scavati nella roccia viva. Considerata la mancanza di protezioni, ogni volta che desidero ammirare il superbo panorama preferisco fermarmi, piuttosto che mettere un piede in fallo senza possibilitá di salvezza alcuna: ritornando alla diatriba tra coraggio od incoscienza lascio giudicare voi, ma ho talmente tanta adrenalina in corpo da non sentire affatto la fatica. Quando poi, aggirato l’ennesimo sperone roccioso, si staglia proprio davanti ai miei occhi sua maestá il Cervino il godimento raggiunge apici inimagginabili, facendomi dimenticare in un colpo tutti i dubbi nutriti prima della partenza.

Il parossismo viene interrotto da  una vallata laterale piú  larga che si apre in dolci pascoli su cui é posto il secondo ristoro a Täschalp, per poi riprendere con altri tratti mozzafiato fin quando non comincia definitivamente la lunga discesa verso Zermatt, dove é posto il primo cancello orario cui giungo con un’ora e mezzo di margine. Assediato da un nugolo di vespe attratte dalla coca cola e dagli zuccheri del ristoro, mi cambio la maglietta, mangio un po’ di minestra con del formaggio e del salame e riparto in compagnia di Giorgio, un ragazzo con cui avevo fatto un po’ di strada insieme al Tor dell’anno precedente e che convinco momentaneamente a desistere dal ritiro cui era intenzionato. Come al solito i paesi, soprattutto se grandi ed affollati come Zermatt, sono i luoghi dove é piú  difficile seguire i balisaggi che segnalano il percorso; riusciamo in qualche modo a destreggiarci tra la folla piuttosto VIP, almeno a giudicare dalle bardature, che sembra non curarsi affatto della manifestazione in corso .... ce ne facciamo una ragione ed usciamo finalmente dalle case imboccando il sentiero in salita.

Siamo a 1600m di altitudine ed il clima é torrido, benché ci abbiano avvertito che in quota faccia brutto tempo e sia piuttosto freddo. Per le prime due ore saliamo con passo costante lungo sentieri agevoli anche se talvolta ripidi, incrociando numerosi passeggiatori e virtuosi discesisiti in mountanbike, che pazientemente si fermano ai lati dando la precedenza al nostro lento incedere ... nonostante l’aplomb nordico immagino di aver preso molti piú  accidenti da loro che dagli spazientiti automobilisti italiani durante le corse della domenica.

Mentre il meteo cambia e densi nuvoloni avvolgono ormai il Cervino sulla nostra destra ed il Gornergrat e le punte del Breithorn sul massiccio del Rosa alla nostra sinistra, anche la vegetazione lascia il posto alle aride pietraie mentre arranchiamo sotto i piloni della funivia. Appena comincia a piovere indosso immediatamente giacca e copri pantaloni impermiabili, con un paio di guanti gialli da lavapiatti, magari non troppo professionali, ma che riscuoteranno l’entusiastico consenso di molti miei colleghi per la loro indubbia tenuta all'acqua. Sotto una pioviggine non violenta ma comunque insistente, raggiungo il posto di controllo e ristoro liquido posto all’esterno del rifugio Gandeghütte, ai 3000m di quota. Riparandomi alla meglio sotto una gronda, mi tolgo la maglietta bagnata di sudore ed indosso una maglia termica sotto la giacca e dei guanti piú  caldi sotto quelli da lavapiatti, avendo le mani sí asciutte ma ormai sull’orlo dell’assiderazione. Novello Amundsen, dopo una breve ma infida pietraia, mi trovo cosí a camminare sul ghiacciaio ormai trasformato in pista da sci che, costeggiando i saracchi che scendono dal Breithorn purtroppo confusi nella nebbia, mi porta abbastanza dolcemente all’ultimo ripido strappo per raggiunger il colle del Teodulo, oltre i 3300m di altitudine, dove due volontarie dalle inconfondibili fattezze asiatiche, caritatevoli angeli della tempesta, ci attendono tutte intabarrate con del té caldo, in tale frangente vero e proprio elisir di lunga vita.

Una volta sul versante italiano riconosco immediatamente le piste del Plateau Rosa sopra Cervinia; quando quasi trent’anni fa le solcavo per la prima volta con gli sci, mai e poi mai avrei immaginato che un giorno la demenza senile mi avrebbe portato ad arrancarvi in un plumbeo pomeriggio di fine estate. Il percorso fino al successivo punto di controllo e ristoro del lago Cime Bianche é comunque agevole, sviluppandosi tra le piste e gli impianti di risalita del grande comprensorio. Quando vi giungo, alle 18 e trenta, ha finalmente smesso di piovere e uno dei volontari, un locale di cui penso ci si possa fidare, mi dice che dopo un breve tratto in salita sará tutta discesa facile fino al rifugio Ferraro: un’ora, al massimo un’ora e mezzo dallo scollinamento.

Anche se con i miei forti dubbi, visti comunque i quasi 14 Km da coprire, considerando che il cancello orario é alle una di notte, riparto dal ristoro con un certo ottimismo convinto di guadagnare ancora ore preziose sul tempo limite, da poter poi sfruttare per riposarsi. In neppure mezz’ora  di agevole salita raggiungo in effetti il colle Superiore Cime Bianche (ancora sui 3000m di quota) e da lí  intraprendo pimpante la discesa, corricchiando sul ripido sentiero che scende a picco verso il Grand Lac, sotto le imponenti falde del ghiacciaio Paradise. Comincia a calare l’oscuritá, ma continuo a correre o comunque camminare celermente nei pezzi piú  disagevoli del sentiero che scende con improvvisi sbalzi seguendo il corso del torrente, dove si succedono tratti ripidi con cascatelle a piccoli pianetti acquitrinosi. Il tempo passa, si fa notte, accendo la frontale, continuo a corricchiare ma non c’e nulla che mi faccia pensare di esser vicino a qualche forma di urbanizzazione. Ad un certo punto mi trovo in un ampio pianoro quasi completamente allagato, dove é sempre piú  difficile districarsi tra fango ed aulenti deiezioni vaccine. Per evitare le une o l’altro faccio piccole deviazioni fino a quando mi rendo conto di non veder piú  segnali; attraverso il mefitico pantano come un vietcong per tornare a quello che sono convinto essere il sentiero principale, ma niente. Qualche centinaio di metri piú  avanti vedo alcuni lumini fermi ed alcuni che tornano indietro, chiaro segnale di smarrimento collettivo. Li raggiungo e cominciamo a discutere sul da farsi, considerando che il sentiero sembra esser quello, ma nell’oscuritá potremmo anche aver perso qualche diramazione laterale. Ad un certo punto un vispo giapponese, indicando un’asticella priva di bandierina conficcata nel terreno, urla soddisfatto della scoperta: “cow!”. Mi vengono subito alla mente numerosi racconti sull’insana cupidigia dei bovidi nei confronti delle segnalazioni fosforescenti e cosí proseguiamo convintamente lungo il sentiero, rassicurati qua e lá da alcune asticelle, tutte rigorosamente prive di bandierina, ancora infitte nel terreno. Superato finalmente un recinto elettrico, le bandierine magicamente ricompaiono e continuiamo ancora compatti in un gruppetto di cinque o sei persone, almeno fin quando il sentiero, se tale si puó chiamare, precipita in un dirupo boschivo tra avviluppati arbusti e scoscese pietraie .... un vero incubo, considerando anche la notte e la stanchezza. Bramoso di arrivare al ristoro che ritengo ormai prossimo, insieme ad un altro trailer continuiamo implacabili come predatori nella jungla, distaccando il resto della compagnia. Giunti su un ampio pascolo in fondo alla valle, il Pian di Verra, si cominciano a vedere alcune luci e mi avvicino speranzoso ad un cartello che finalmente indica il rifugio Ferraro .... ad un’ora e mezzo di cammino! Sono le nove passate e stramaledico il volontario del ristoro precedente e le sue indicazioni: ho poi verificato che il primo ha impiegato un’ora e quaranta a fare questo tratto! L’effetto rebound é devastante e mi sento improvvisamente svuotato di ogni energia; saggiamente decido di riposarmi una decina di minuti intaccando la mia scorta di datteri e formaggio, cosicché intorno alle dieci ed un quarto, dopo pure un tratto in salita, raggiungo il rifugio.

Nonostante il rifornimento sia posto all’esterno, si puó fortunatamente entrare e cosí mi godo il tepore della stufa massaggiandomi i piedi doloranti per una buona mezz’oretta. Con ancora due ore abbondanti di vantaggio sul cancello orario, riparto per affrontare il colle che dalla Val d’Ayas, in cima alla quale mi trovo adesso, mi porterá nella valle del Lys a Gressoney. Quello percorso dal classico Monte Rosa tour sarebbe stato il Bettaforca, ma la gara ci fa percorrere l’assai meno frequentato (e c’é un perché) Rothorn. Mi trovo cosí davanti ad una tipica salita di alta quota della Valdaosta, con un erta ed infinita pietraia che scalo aiutandomi con bastoncini, mani, bestemmie e quant’altro venga utile. Quando peró raggiungo la piramide di sassi che marca il passo la soddisfazione é impagabile e probabilmente, non fosse per la notte ancora un po’ nuvolosa, lo sarebbe anche il panorama. Se la salita é stata ripida, i primi due o trecento metri di dislivello negativo fino al pianoro con gli ameni laghetti di Saler sono praticamente verticali e necessitano estrema cautela e sangue freddo: si ha l’impressione, in caso di caduta, di tuffarcisi direttamente dentro. Il resto della discesa scorre abbastanza facile fino alla cappela di S.Anna, da dove uno stradone sterrato conduce al ristoro di Gressoney in localitá Staffal.

Per conservarmi le due ore di margine sul cancello orario, oltre a massaggio dei piedi e ristoro alimentare, ho quindici minuti di tempo per una tanto breve quanto intensa dormita sdraiato su un materasso. Alle quattro del mattino riparto e mi imbatto da subito in un sentiero che corre sotto la seggiovia del Gabiet e ne ricalca l’infernale pendenza. Fortunatamente dopo i primi cinquecento metri di dislivello nel bosco, il vallone alpino si allarga in infiniti dolci pascoli e, ormai sul far del giorno, la vista puó correre fino all’ahimé ancor lontano passo dei Salati, sormontato in prospettiva dalla Piramide Vincent e sulla sinistra dal Naso del Lyskamm. Quando sto per imboccare le ultime ripide erte dello stradone carrozzabile che conduce al passo, comincio ad essere ripreso dai primi concorrenti del Ultra Tour a tappe, partiti con la terza frazione alle sei da Gressoney. Vero che hanno meno di dieci Km nelle gambe, comunque la velocitá non é doppia, ma almeno tripla considerando che, seppur camminando nei tratti piú  ripidi, mi lasciano praticamente sul posto .... il bello é che mi fanno pure i complimenti!  

Addirittura zigzagando sugli ultimi duecento metri come Fantozzi alla coppa Cobram, giungo finalmente al rifugio sul passo con una cera che non deve essere delle migliori, visto che il volontario mi chiede con apprensione se mi senta bene: “Benissimo!” rispondo tanto per fare lo splendido, tentando pure un ginnico saltello con tanto di “OP” finale, che rischia di lasciarmi ripiegato a seggiolina sul posto fino all’arrivo dell’elisoccorso. Ho lo stomaco talmente chiuso per la fatica, che devo aspettare un buon quarto d’ora per mandar giú  qualcosa da mangiare.

Mentre il rifugio si sta affollando con i trailers della corsa a tappe che giungono sempre piú  fitti, entrando in Piemonte comincio l’interminabile discesa che porta dagli oltre 2900m del passo agli scarsi 1200m di Alagna. Nonostante la pendenza a favore accuso l’enorme sforzo patito nella salita precedente e procedo con una simil specie di corsa che non é neppure un passo veloce, cosicché vengo raggiunto e superato da quasi tutti i trailer partiti poche ore prima ed anche da qualche mio compagno ritardatario. Dopo cinquecento metri di dislivello negativo saliamo per un centinaio di metri lungo uno stretto sentiero a mezza costa con cui lasciamo il vallone di Olen e, attraversato il passo Foric, continuiamo a scendere per la parallela Val d’Otro. Sto probabilmente attraversando la crisi piú  dura di tutta la gara e ci si mette pure la sfortuna, con il riaffacciarsi di una piaga che ormai da anni sembrava debellata: la maledizione delle racchette! Attraversando una pietraia la destra mi rimane incastrata, come accaduto altre migliaia di volte, tra i sassi, solo che questa volta, tirandola via, le faccio probabilmente fare un piegamento anomalo che la spezza in due: rimango per qualche secondo come un ebete a fissare i due mozziconi, uno in mano e l’altro ancora conficcato tra i sassi. Li raccolgo insieme legati allo zaino e continuo con l’umore che potete immaginare, rinfrancato ulteriormente dalla prima caduta dopo quasi cento Km: una vigorosa botta sui sassi con le terga, causata proprio dalla mancanza di appoggio del secondo bastone, su cui ero ormai totalmente abituato a far affidamento.

Arrivo al ristoro di Alagna con ormai soltanto un’ora e mezza di margine sul cancello orario, stanco e di umor nero per la racchetta rotta che getto nervosamente a terra. L’atmosfera é piuttosto pesante, nonostante la gentilezza dei volontari: i concorrenti del tour a tappe che arrivano adesso vengono fermati perché fuori tempo massimo e i reduci dell’ultratrail sono piú  o meno nelle mie stesse condizioni. Come ciliegina sulla torta mi scopro pure sulla coscia destra, sotto i ciclisti, due dolorosissimi pizzichi di ragno o altro feroce insetto, che hanno piagato la pelle in maniera abbastanza ripugnante. Non ho tempo da perdere per farmi medicare .... poi magari mi vorrebbero  pure fermare e, arrivati a questo punto, neppure sparandomi ci riuscirebbero!

Riparto con mono racchetta tipo gondoliere di montagna e, attraversato tutto il paese di Alagna, comincio a risalire l’alta Valsesia verso il passo del Turlo. Fortunatamente il nuovo imponente dislivello di 1600m viene quasi interamente coperto da una mirabile opera ingegneristica costruita dagli Alpini del battaglione Intra negli anni ’20: una mulattiera completamente lastricata che sale regolare e, considerando l’ambiente, non troppo ripida. Proprio mentre il tempo sembra volgere al peggio con le prime gocce d’acqua che cadono e minacciosi nuvoloni che scendono dalle cime circostanti, appena entrato nell’invisibile nebbione d’alta quota tutto di un tratto il sole ha il sopravvento e spazza via le nubi, mostrando l’ultimo spettacolare km di tornanti che conducono al valico. Sul passo una stele di travertino ricorda come nell’ VIII anno dell’era fascista gli alpini del IV reggimento completarono l’opera; da lí comincia la discesa, ancor piú  sbalorditiva della salita, con un’infinita serpentina che precipita verso la Valle Anzasca.

L’obiettivo primario é giungere a Macugnaga entro il cancello orario delle 22, costi quel che costi. Il bordo esterno della mulattiera, vale a dire la parte sommitale del contrafforte su cui poggia la strada lato precipizio, é quasi interamente rivestito di lastre di pietra piatte ed ancora regolarmente disposte, dopo quasi cento anni dalla loro stesura. Non soffrendo di vertigini ed abituandomi agli scarichi di adrenalina che gli improvvisi e frequenti movimenti di queste pietre provocano, corro quasi tutta la discesa su questa sottile striscia sospeso nel vuoto. Purtroppo la bella mulattiera svanisce nell’ultimo salto di roccia che precipita in fondo al vallone di  Quarrazza: questo viene superato attraverso un sentiero piuttosto malagevole che scende avviluppato nella folta vegetazione, reso ancor piú  infido dall’acqua dei numerosi torrentelli che spesso lo scelgono come loro letto naturale. Impavido verso la meta continuo la mia disperata corsa fin quando, ormai quasi terminato il tratto ripido, scivolo su un pietrone viscido e con la classica sforbiciata a mezz’aria atterro dolorosamente con il fianco destro proprio sopra la racchetta superstite che, presa a contrasto con il masso e non tarata per tali carichi, si spezza esattamente a metá come aveva fatto alcune ore prima l’altra. Non ho tempo né per imprecare né per piangermi addosso: raccolti i due mozziconi in una mano, continuo ad alternare corsa e camminata veloce sul sentiero che costeggia ormai il torrente a fondovalle, fino a raggiungere il ristoro liquido e posto di controllo a Quarrazza quando sono da poco passate le 19. Mi informano che a Macugnaga, localitá Staffa, mancano circa cinque Km, tutti su comoda strada sterrata e pista ciclabile in saliscendi: in effetti, liberatomi dai resti del bastoncino, impiego circa un’ora di disarmonica corsetta e marcia serrata (dopo oltre 120Km e 40 ore senza dormire non riesco a far meglio della classica donnina con la spesa che sta perdendo l’autobus) per raggiunger il ristoro, proprio mentre luci e lampioni si accendono ad illuminare la mia anima nella seconda notte che sta calando.

Per prima cosa chiedo ai volontari, invero assai poco convintamente, se per caso abbiano un paio di bastoncini da prestarmi per l’ultimo quarto di gara; una ragazza mi informa che un concorrente del tour a tappe arrivato nel pomeriggio le aveva chiesto di portare le proprie all’arrivo di Grächen il giorno seguente, in quanto non aveva intenzione di usarle nell’ultima tappa e che quindi avrei potuto tranquillamente svolgere lo stesso servizio, servendomene al contempo. L’incredibile ed  inaspettato colpo di fortuna mi convince che ormai é fatta; a rimettermi definitivamente di buon umore ci pensano un bel piatto fumante di rigatoni al pomodoro ed un gustoso boccale di birra .... mi prendo addirittura la libertá di telefonare alla consorte per avvertirla del mio ormai piú  che probabile arrivo il pomeriggio seguente.

Decido di ripartire il prima possibile senza provare a dormire (convinto che ci riuscirei anche troppo bene) e cosí verso le nove di sera intraprendo la scalata all’ultima grande salita del tour, scortato dai “miei” bastoncini nuovi fiammanti. La prima parte nel bosco, per quanto a tratti ripida, riesco a percorrerla con continuitá e mi fermo soltanto qualche minuto una volta superato il primo scalone di roccia, seduto su una comoda panchina per godere dello sbrilluccicante presepio che mettono in scena le frazioni del comune diffuso di Macugnaga, degradanti a perdita d’occhio nella valle Anzasca. Purtroppo data l’oscuritá non riesco a distinguere nitidamente l’imponente parete est del Rosa, la piú  grande d’Europa, che ben rammento dai tempi in cui la ammiravo indossando per la prima volta gli sci .... questo sí ormai piú  di trent’anni fa! Sul modello delle tipiche salite valdostane, mi aspettavo a questo punto pendenze piú  dolci lungo i pascoli, ma purtroppo il sentiero si impenna ancor piú  ripido tra le lussureggianti praterie, costringendomi a sempre piú  frequenti soste forzate. Come ormai temevo sono alle prese con un climax ascendente e l’ultimo tratto in quota su pietraia é terribile: il lato positivo é che finalmente vedo le luci del rifugio a meno di un Km .... il lato negativo é che questo Km é in pratica verticale. Non riesco a fare piú  di uno, massimo due minuti di camminata senza poi lasciarmi andare seduto o addirittura sdraiato sui lastroni di roccia per altrettanto tempo, raccogliendo la forza per continuare nell’estatica contemplazione del firmamento farcito di stelle e talvolta guarnito da meteore, nonché nelle piú  prosaiche luminarie della baita che vedo sempre piú vicine .

Sono passate le una del sabato da pochi minuti quando faccio l’ingresso nel rifugio Oberto Maroli; con il poco fiato residuo chiedo ad una volontaria di svegliarmi dopo venti minuti, mentre mi lascio cadere su un materasso in fondo alla stanza. Quando mi viene a chiamare poltrisco ancora un po’, ma consultando l’altimetria fiuto ormai l’impresa e mi ergo deciso sulle malferme gambe, gozzovigliando di buon grado con zuppa, formaggio, frutta e quant’altro il menú  offra. Giá informato dai ragazzi del ristoro, appena uscito mi attendono gli ultimi cinque minuti di tribolazioni per raggiungere la cresta di confine, arrampicandomi su un enorme masso su cui sono stati inchiodati dei tronchi e posto un corrimano che rendono il compito tutto sommato agevole. Finalmente vedo la Madonna, in questo caso la sua statua dorata posta sul passo del Monte Moro al confine italo-svizzero e, rientrando nel Cantone Vallese, intraprendo la discesa attrezzata sull’altro lato del masso. Tra la fine di questo e l’inizio della pietraia ci sono pochi metri con della residua neve ghiacciata che sembra piuttosto scivolosa; alcune lastre di pietra piatte disposte all’uopo per attraversarla rappresentano in realtá la piú infida delle trappole. Con le basse temperature l’umiditá della notte si é trasformata in una micidiale ed invisibile pellicola di ghiaccio che le ricopre cosicché, appena poggiatovi il piede, questo parte via senza controllo e l’altro, portato per istinto sulla pietra successiva, lo fa pure con velocitá maggiore: il risultato é una fantastica rovesciata ad almeno un metro e mezzo di altezza e mentre mi libro in aria penso agli applausi che, novello Cristiano Ronaldo, lo Juventus Stadium mi sta per tributare .... lasciando i bastoni riesco pure a mettere per prime le mani a terra, ma la schienata sul ghiaccio, fortunatmente attutita dallo zaino, é comunque apocalittica, tanto che una delle borracce piccole del marsupio mi vola via e si perde tra le rocce. Verificata per prima l’integritá delle racchette, poi delle ossa e fiducioso di non venir squalificato per avere 1,25 litri di scorta idrica a fronte dell’1,5 richiesto dal regolamento, mi rimetto in marcia sulla pietraia in discesa con una cautela che estrema é dir poco. Riprendo lentamente coraggio, finalmente i sassi scompaiono ed il sentiero diventa agevole, trasformandosi poi in uno stradone quasi pianeggiante che costeggia per vari Km il bacino artificiale del Mattmark. Due notti e mezzo senza dormire presentano il conto ed in questo lungo tratto che non necessita particolare attenzione non riesco piú  a tenere gli occhi aperti; visto l’esiguo margine che mi é rimasto sono peró risoluto nel raggiungere il successivo ristoro ed ultimo cancello orario della gara: vengo aiutato dai numerosi rivoli d’acqua gelata che scendono dalla parete della montagna con cui do inizio ad un’infinita serie di rinfrescanti abluzioni. Raggiunta la diga, il sentiero scende nuovamente ripido fino a raggiungere la strada asfaltata nel fondo valle; seguendola pericolosamente a zig zag, metá ad occhi aperti e metá ad occhi chiusi, raggiungo Saas Fee sul far del giorno, pochi minuti prima delle sette del mattino: a poco piú  di venti Km dal traguardo, ho ancora un’ora di vantaggio sul tempo limite.

Venti minuti li impiego per una profonda dormita coperto da un paio di pesanti coltri nel gelo della tenso-struttura, una decina per farmi coraggio ad uscire dall’accogliente tepore, altrettanti per una ricca colazione ed un abbondante caffé solubile che in condizioni normali avrei rovesciato addosso a chiunque me lo avesse proposto, ma che vista la situazione sorbisco con soddisfatta cupidigia ... in conclusione mi rimetto in marcia con ancora una mezz’oretta di margine.

Percorrendo il lungo corso del paese al risveglio, con i commercianti che aprono bottega ed alcuni sparuti villeggianti che danno inizio alla camminata del giorno, mi godo questo ritorno all’umana civiltá, destinato ad essere comunque assai effimero. Imboccato infatti un sentiero sulla sinistra si comincia a salire per un bel po’ dentro al bosco fin quando si ripresenta la situazione del primo giorno di gara: sono in effetti sull’altro lato del massiccio del Mischabel e sto percorrendo verso nord la valle di Saas, parallela alla Mattertal che avevo solcato in direzione opposta verso Zermatt. Il sentiero diviene una stretta cengia che nei successivi Km ricalcherá il selvaggio andamento della parete rocciosa, solcandola a mezza costa. I saliscendi con passaggi da brivido si alternano senza soluzione di continuitá (in effetti su quest’ultimo tratto, apparentemente senza asperitá se si guarda all’altimetria generale, sono presenti ben 1700m di dislivello positivo): probabilmente perché meno frequentato del celebre Europa Weg dall’altro lato si mostra se possibile ancora piú  selvaggio. Ci si imbatte spesso in fondi disastrati piuttosto difficili da percorrere fin quando mi trovo ad attraversare un vero e proprio fronte franoso di alcune centinaia di metri con sassi completamente instabili che rotolano verso il precipizio: i cartelli avvertono in diverse lingue di fermarsi ad ascoltare con attenzione che non ci siano moti franosi in corso prima di attraversare .... preferisco tapparmi le orecchie e sperare nella buona sorte! Appena superato incolume questa prova, costretto a procedere talvolta a quattro zampe, sento alle mie spalle un sinistro acciottolio sempre piú  intenso di sassi rotolanti ed il mio primo pensiero é di averla scampata bella. Voltandomi rimango ancor piú  basito che se avessi visto venir giú  la montagna: tale Sebastien Chaigneau, mi diranno poi un ex top runner di livello internazionale, é il primo dell’ultima frazione del giro a tappe partita da Macugnaga alle sei del mattino e sta letteralmente correndo sull’inferno di pietre appena descritto, provocando praticamente il franare di ogni sasso su cui poggia piedi, che peró velocissimi sono giá a far rotolare i massi successivi. Non contento, appena raggiunta l’ancor infida cengia su cui mi trovo (badate bene che si tratta pur sempre di una sconnessa pietraia, per quanto assai piú  stabile), comincia pure a spingere e devo fare alla svelta per schiacciarmi alla parete rocciosa e lasciar passare questo treno che ha pure il tempo di salutarmi con un “good job!”. Il lodevole fairplay del fenomeno suona alle mie orecchie piú  o meno come l’impietoso apostrofare della Mazzamauro a Fracchia: “Sa cosa le dico, lei non é un atleta: é una merdaccia!”.

Ció malgrado il mio buon umore cresce esponenzialmente all’inesorabile avvicinarsi della meta; l’ultima indicazione per escursionisti, incontrata poco dopo le undici, annunciava Grächen a quattro ore di cammino: quindi procedere di buon passo é sufficiente per arrivare alle tre del pomeriggio, un’ora prima del tempo massimo. Mi godo cosí i bei panorami sulla vallata in questa splendida giornata di sole; quando finalmente, lasciando il costone, attraverso la sommitá del monte ormai degradante, riconosco immediatamente la Mattertal con il Cervino sullo sfondo e non posso trattenermi dal lanciare un pugno chiuso in aria in segno di successo.

Al ristoro di Hannigalp un volontario fa per darmi da bere al volo dicendomi che mancano ormai solo 4Km scarsi di discesa .... appunto, che fretta c’é? Gli rubo la sedia e sotto l’ombrellone mi godo i passaggi degli atleti del tour a tappe, incluse le prime due donne ancora appaiate, sorseggiando l’amata coca cola e discutendo della bellezza del percorso con le persone dello staff. Chiamo la moglie per avvertirla dell’ormai imminente arrivo, ma non é raggiungibile. Raggiunto da un ragazzo di Singapore con cui eravamo ripartiti insieme da Saas Fee, decidiamo di andare insieme all’arrivo; lo avverto peró di non aver la minima intenzione di correre neppure un passo .... come previsto dopo un po’ si scoccia e mi dice che ha meno dolore se corre piano piuttosto che se cammina, lo esorto quindi ad andare che tanto non mi offendo. Anzi, dopo esser stato praticamente sempre solo per quasi sessanta ore, non mi va che altre persone disturbino l’animato colloquio che ho con me stesso, soprattutto adesso che, dopo fasi alterne tra disperato incoraggiamento e litigiosi rimbrotti, siamo ai complimenti finali. Quando giungo nella piazza di Grachen mi sono ormai detto tutto, lo psicologo (e ce ne vorrebbe uno bravo!) direbbe che il successo é metabolizzato. Per un improvviso guasto si é pure momentaneamente sgonfiato l’arco di arrivo e devo passargli a lato: la ragazza che mi infila la medaglia di finisher mentre alzo le mani al cielo ricevendo calorosi applausi se ne scusa ripetutamente, ma sinceramente non me ne frega niente .... l’unica ombra é la mancanza della famiglia ad attendermi, ma ecco che li vedo arrivare trafelati a salutarmi ed il trionfo é cosí completo.

Fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza.