TOR DES GEANTS 2019

 

 

Courmayer    6 - 15 settembre 2019

MICHELE  ROSATI

   

 

 

ADDIO AI MONTI

 

 

 

 

 

L’ultratrailer Michele Rosati, ammesso non sia ormai divenuto indegno definirlo tale alla luce della sua imbarazzante posizione nelle classifiche internazionali dei punteggi ITRA che da alcuni anni hanno trasformato una romantica accozzaglia di cacciatori di emozioni alla ventura in un’ organizzatissima kermesse semi-professionistica, é morto cinque mesi fa, giustiziato senza pietá alcuna alle 23:16 del 27 Aprile 2019 in via Amiata al Vivo d’Orcia, colpevole di esser giunto al cancello orario del 144esimo Km con ventisei minuti di ritardo. Provó invano ad implorar mercede: il verdetto fu inappellabile! Ed ecco cosí alcune ore piú tardi la decisione, altrettanto inappellabile quanto sofferta, di farla finita per sempre con queste ultra-bischerate. Guai a chi osi dire che mi sono arreso: sono caduto combattendo!

Peró il Tor é il Tor! .... A parte che avevo giá pagato la non trascurabile quota di iscrizione, ma poi diciamoci la veritá: per un tapascione come me, chiudere all’arrivo di Courmayeur, sarebbe stato come Borg che lascia il tennis da numero 1 del mondo!

Trovate le motivazioni, come al solito c’é stato da inventarsi le gambe. Le competizioni trail di allenamento sono state definitivamente cassate da giugno, ormai conclamatasi un’incurabile patologia da ritiro intorno metá gara. Ho provato allora come l’anno scorso a tirar su un autogestito sul percorso del vecchio Malandrino da Prato all’Abetone, ma senza successo; alla fine, partito da casa un torrido venerdí pomeriggio di inizio Agosto, mi sono trovato la mattina seguente, dopo una settantina di Km, a Castiglion d’Orcia con i piedi rovinati che imploravo mia moglie per telefono di venirmi a prendere.

Piú la logica diceva come fosse per me ormai non solo irrealistico, bensí impossibile oltre ogni ragionevole dubbio percorrere piú di duecento miglia con una trentina di Km di dislivello positivo, piú le motivazioni per un’impresa eroica crescevano. I miei iniziali sani propositi decoubertiniani di andare a divertirsi a prescindere dal risultato, per quanto ancora ipocritamente sbandierati non solo agli altri, ma anche a me stesso, avevano ormai lasciato spazio ad un dannunziano “Memento Audere Semper”, se non addirittura ad un gladiatorio e risolutivo “Usque ad Finem”.

L’ultima trovata, penso contro ogni logica di preparazione atletica, é stata quella di immolarmi stoicamente ad una rigida dieta durante l’ultimo mese in cui spesso, complice l’intensa attivitá lavorativa fuori casa, sono riuscito ad impormi una sorta di pseudo ramadan in cui l’unico pasto quotidiano era un’abbondante colazione ….. come poter negare che quella decina di chili persi abbia avuto il suo peso?

Proveniente da Ginevra, casuale méta di lavoro nella prima settimana di settembre, sabato  7 giungo finalmente a Courmayeur per le operazioni di ritiro del pettorale. Prendo parte con rinnovati piacere ed emozione, anche se ormai non piú una sorpresa, alla messianica cena di iniziazione al Tor in cui “Liberi” di Vasco Rossi é cantata da centinaia di vecchi e nuovi adepti che giungono le mani verso il cielo …..  e pensare che quando vado a messa, non troppo spesso invero, provo una vergognosa reticenza a recitare in tal guisa il Padre Nostro! Fasciati con estrema cura e scrupolosa dedizione i piedi, che so giá saranno i veri arbitri della partita, spengo la luce prima delle undici e mi addormento placidamente, assaporando nel calduccio  delle lenzuola quel senso di fiducioso ottimismo che solo i folli sanno avere prima del giorno, anzi la settimana, del giudizio.

La mattina di una frizzante domenica, depositata la sacca che verrá trasportata dall’organizzazione alle sei basi vita lungo il percorso, memore dell’attesa di un’interminabile fila patita due anni fa, giá alle dieci e trenta mi trovo a fare la spunta del chip: un’ora e mezza prima dello start sono tra i primi sulla linea di partenza ... non dico proprio allineato, in quanto mi stravacco immediatamente a terra con la schiena appoggiata alle transenne. Nonostante il sole faccia la sua comparsa a riscaldare l’algido clima, data un’occhiata alle nubi cariche di pioggia e neve che ancora attorniano il Bianco e le altre cime, propendo per tenermi indosso i fuseaux lunghi e la maglia termica.

Alle 11:55, cinque minuti prima del via, incurante da oltre mezz’ora degli scalpitanti aspiranti fenomeni che tentano ad ogni modo di conquistare le prime file, cui oppongo un insormontabile baluardo difensivo con bastoni e zaino a protezione del mio corpo comodamente sdraiato, mi ergo maestoso sugli avamposti e, tanto platealmente quanto provocatoriamente, stiro le membra, mandando giú il primo antidolorifico di una ahimé lunga serie.

É la prima volta in vita mia che ad una manifestazione di tale portata, siamo oltre novecento partenti, mi trovo cosí davanti da poter addirittura vedere i top runner pronti a scattare dal  recinto appositamente allestito per loro. Ormai ho fatto un callo abbastanza spesso a questi eventi e non mi commuovo piú al trito e solenne “Conquest of Paradise” di Vangelis strimpellato in partenza, preferendo anzi canticchiare, seguendone il ritmo con tutto il corpo, l’originale e spensierata “Gloria” di Umberto Tozzi.  Scocca l’ora X e, non imbottigliato come di consueto,  mi trovo sin da subito a correre attraversando il centro di Courmayeur, spinto dalle urla di incitamento ed i campanacci dei favolosi valdostani .... O vittoria o morte!

Arrivati dopo un Km al ponte sulla Dora, quando la strada risale sull’altro lato, comincia a piovigginare e molti si fermano ad indossare le mantelline; conscio che tra poche centinaia di metri entreremo in un fitto bosco di conifere, preferisco non perdere tempo ed evitare ormai fino in fondo gli imbottigliamenti, anche perché con maglia termica e guscio impermeabile sarebbe una sauna. La scelta si rivela azzeccata, in quanto sul single track, imboccato facendo non piú di 15 secondi di fila, la pioggia é impenetrabile al fitto tetto di abeti. La musica cambia quando piú in quota entriamo in degli erti pascoli: l’acqua che cade si fa sempre piú fitta e gelida; siamo ormai abbastanza sgranati ed indosso con sollievo antipioggia e guanti. Davanti a noi le nuvole si fanno sempre piú bianche e la pioggia piú lenta e pesante fino a diventare nevischio prima e candidi fiocchi di neve giá da quota duemila. La decima edizione del Tor ci dá il suo personalissimo benvenuto: copriamo gli ultimi cinquecento metri di dislivello verso il Col D’Arp sotto una fitta nevicata che nemmeno a Natale; sono piú volte costretto a scuotere la neve dalla giacca dove, asciutta e tenace, fa presa come al suolo.  L’interminabile fila di variopinti trailers che piú si sale e piú inesorabilmente si sbianca ricoperta dalla bufera, mi rimanda col pensiero al Guerra e Pace di Tolstoy con le disgraziate campagne di Russia napoleoniche o all’altrettanta rovinosa Operazione Barbarossa del 1941: l’euforico orgoglio del poter dire “io c’ero” si impadronisce di me e non mi fa sentire le pendenze, anche perché onestamente non proibitive, fino allo scollinamento.

La discesa é puro divertimento: a parte un brevissimo tratto iniziale sassoso, sono ampi pascoli che digradano piú o meno ripidi e consentono di camminare o corricchiare ovunque; lascio cosí il sentiero reso sdrucciolevole dalla neve pestata alla volta di una soffice coltre, dove le scarpe affondano leggere e fanno presa senza problemi. Giá al ristoro della baita Youlaz ha smesso di nevicare e di piovere; sull’ultimo tratto del sentiero che scende a La Thuile si mangia addirittura un po’ di polvere. Il ristoro, come previsto, é semplicemente impraticabile, informe calca di concorrenti ed accompagnatori: spintonando artiglio al volo qualcosa da mangiare e me ne riparto praticamente subito, con un fastidio ai piedi di cui ancora non mi preoccupo, visto che le successive ore saranno nuovamente in salita ......

Sulle rampe che costeggiano le cascate del Rutor cerco di amministrarmi al meglio, memore della quasi cotta che vi presi due anni fa; arrivo cosí del mio passo, lento ma costante, al pianoro dei laghetti glaciali tutto sommato in buone condizioni; faccio una decina di minuti di sosta mangiando dei datteri, prima di dare l’assalto alla successiva rampa verso il rifugio Deffeyes, dove riprendo quasi tutti coloro che mi avevano sorpassato di gran carriera all’attacco della salita, un migliaio di metri piú in basso .... uno di questi, meschino, sta addirittura vomitando, immagino per l’eccessivo sforzo: un monito per cui mi impongo una volta di piú di non cadere in tali grossolani errori, che rendono poi il recupero difficile se non impossibile. Un’altra decina di minuti spesi al ristoro per rifocillarsi con del brodo caldo, la cui temperatura é l’unica cosa gradevole, e intraprendo le ultime centinaia di metri di dislivello verso il colle di Passo Alto in un gelo la cui morsa si fa sempre piú serrata, costringendomi ad indossare i guanti di pile al posto di quelli leggeri che avevo.

Nella lunga discesa su pietraia verso il bivacco di Promoud si fa notte, accendo la frontale ed il fastidio ai piedi si trasforma in dolore, costringendomi a cedere il passo ad orde di trailers ancora pimpanti. Al ristoro mi siedo su una panca e tolgo le scarpe per massaggiarmi i piedi; quando mi rialzo per andare a prendere qualcosa da mangiare sono scosso da brividi di freddo e cerco riparo, forzando un po’ l’educata resistenza di alcuni volontari piú integerrimi, nell’area dedicata al servizio, vicino alle pentole sul fuoco. Qui avviene il primo di quegli incontri che rendono il Tor un’esperienza unica, che va oltre il percorso, le salite, le discese, i punteggi ITRA e quei coglioni, non me ne vogliano gli eterni agonisti, che sui loro monitor da casa guardano alle posizioni che perdi o guadagni in classifica senza rendersi conto che tutti quei numerini accesi, anche quelli che hanno giá preso un paio di giorni di vantaggio rispetto agli ultimi, sono poco piú che comparse in uno spettacolo infinitamente piú grande di loro. Una signora di origine australiane, trapiantata in valle da alcuni decenni, decide di essere il mio angelo ristoratore e, dopo avermi rifocillato e scaldato con del minestrone bollente (fatto con le verdure degli orti dei volontari e non con le bustine di glutammato!) in godurioso connubio con la fontina di alpeggio che vi si scioglie filando, apprezzando le mie qualitá di gourmet piuttosto che quelle squisitamente atletiche (e come darle torto!), cala l’asso dalla manica e mi invita ad assaggiare con ben riposto orgoglio gli squisiti porcini sott’olio da lei stessa preparati.  

Indossata una seconda maglia termica piú pesante, figuratevi se dopo tale ristoro la salita al Col della Crosatie possa incutermi timore alcuno! Inesorabile bradipo me la bevo tutta d’un fiato, compresa l’ultima terribile scalinata nella roccia a precipizio sul crinale, dove nel 2017 rischiai piú volte un attacco cardiaco. Sembra proprio che la speranza di trovare una buona forma fisica durante la gara stessa si stia materializzando .... non fosse per i piedi! Conscio della lunga discesa che mi attende fino a Planaval, sul passo mi riparo nel gabbiotto elitrasportato del soccorso alpino, sorbendo del té caldo e un antidolorifico, che mi consente di arrivare al fondovalle camminando tutta la discesa senza eccessivi patimenti. Anche i successivi Km in falso piano lungo il torrente, per quanto noiosi, scorrono via bene e sono tutto sommato ristoratori. Arrivo quindi alla prima base vita di Valgrisenche in buone condizioni e, visto il caotico assembramento, massaggiati i piedi per una buona mezz’ora e cambiati i calzini, dopo un lauto pasto ed un paio di birre, decido di ripartire con ancora piú di quattro ore di vantaggio sul cancello orario.

In base vita aleggiano racconti mitologici di trailers ibernatisi nel successivo colle e trasformatisi in rocce, con temperature prossime allo zero Kelvin .... decido cosí di tirare fuori dal borsone ed indossare, al posto della seconda maglia termica, un ingombrante e caldissimo giaccone di pile che mi ero portato giusto per scrupolo. Visto che i passi vengono dati liberi dal ghiaccio e non si aspettano nuove precipitazioni, bilancio il potenziale peso nello zaino togliendo i ramponcini, mossa di cui non avverto inspiegabilmente l’azzardo: come non sapessi che prima della successiva base vita dovremo passare sul tetto del Tor, ad oltre 3300 metri di quota! All’inizio della salita nel bosco, costeggiando la diga di Beauregard, sento il sudore scendermi lungo la schiena in ebollizione e maledico la mia nuova paura senile per il freddo, visto come questo sia stato sempre un mio fido alleato. Al salire di quota e procedendo in spazi piú aperti, il bollore si trasforma peró in un piacevole tepore che bilancia le taglienti rasoiate inferte dall’aria polare sulle guance e sulle orecchie soprattutto (il cappello, quello no che non riesco proprio a tollerarlo). Arrivo allo chalet Epee sul far del giorno, dove approfitto dell’assito di legno di fronte ai bagni per stendermi e chiudere gli occhi per alcuni istanti, senza peró riuscire a prendere sonno. Proseguo quindi la facile salita verso la Fenetre de Torrent; giunto al passo mi aspetta peró una delle piú ripide discese di tutto il giro, oltre mille metri di dislivello in circa quattro Km .... le mie povere estremitá podaliche sono sempre piú alla frusta ed al ristoro di Rhemes Notre Dame, nel tentativo di dar loro conforto fuori dalle scarpe, sono costretto a camminare scalzo sul pavimento ormai inzaccherato da avanzi di cibo e bicchieri rovesciati. Per fortuna si riparte subito con la salita, forse la piú bastarda di tutto il Tor: il versante ovest del Col Entrelor, milletrecento metri in cinque Km. Ora non voglio dire che non abbia fatto fatica, ma il fatto di essermi fermato una sola volta per mangiare un po’ di frutta secca prima dell’assalto finale al ripidissimo ghiaione, fa sí che sia pervaso dall’ottimismo consapevole di chi si ritrova una forma fisica inaspettata.

Scollinato ai tremila metri di quota, i dodici Km di discesa dall’altro lato, esclusi il breve tratto iniziale fino al Lago Nero e quello finale verso Eaux Rousse, sono facili facili lungo il vallone e mi consentono, stringendo i denti, delle blande corsette. Arrivo al ristoro con ancora le mie cinque ore di margine sul tempo limite; me la prendo comoda facendo conoscenza con Ahmad, un ragazzo malese dall’inglese un po’ stentato che sta concludendo la sua rilassante vacanza europea dopo aver fatto la settimana prima l’UTMB e con Cristiana, distinta signora di Settimo Vittone in versione coniglietta sprint, incuriosita dal mio idioma decontestualizzato (per lei da qui in avanti saró semplicemente il Toscano) e con cui avró da dividere ancora gioie (tante) e dolori (forse ancor di piú) di questo benedetto Tor. Un piatto di pasta e riparto alla scalata dei 3300m del Col Loson. Per quanto lunga é una salita piú dolce della precedente; oltrepassato il tratto boscoso a picco sulla Valsavaranche, in prossimitá del casotto del guardaparco supero il drappello di militari che quest’anno sperimentano il Tor e mi addentro in solitaria nel magnifico vallone di Levionaz, in veritá con la compagnia dei camosci sui pendii piú bassi a sinistra e  degli stambecchi abbarbicati su quelli piú in alto a destra. Sul fare della seconda notte mi fermo per metter su la frontale, mangiare qualcosa ed indossare di nuovo il pile pesante, visto che giá dopo pochi minuti senza muovermi comincio a tremare dal freddo. Mancano le ultime ripide rampe sul ghiaione per giungere al passo; la fatica comincia a farsi sentire e questa volta sono costretto a qualche breve sosta per rifiatare, ma a preoccuparmi maggiormente é la vista dei lumini che mi precedono fermi in un ingorgo a poche decine di metri dallo scollinamento. Vedendo la neve ghiacciata fare la sua comparsa sul sentiero, presagisco con il terrore di chi non ha con sé i ramponcini quale sia il problema: tutti sono seduti a calzarli, mentre io sono costretto ad avvantaggiarmi sperimentando con sollievo che le suole delle scarpe fanno presa negli scalini di ghiaccio ormai creatisi sul sentiero ad opera delle svariate centinaia di piedi che vi sono giá transitati.

Giunto alla piramide che marca lo scollinamento del tetto del Tor, é ancora maggiore il sollievo con cui apprendo la notizia che da questo lato, esposto a sud-est, non c’é ghiaccio. Cionostante sono costretto ad accodarmi ad una comica Cristiana che, pur indossando i ramponcini, sta percorrendo il breve tratto esposto sulla sommitá mano nella mano con un gentilissimo signore del soccorso alpino, che la incoraggia e la rincuora mentre lei procede terrorizzata inarcuando la schiena in avanti e buttando il sedere all’indietro, con un’andatura che mi fa venire alla mente tanto il Totó burattino quanto il Giacomo del trio quando agli albori della carriera imitava il cammello .... sembra rendersene conto visto che, essendo praticamente di casa qui, si raccomanda con tutti di non far trapelare niente a suo marito ed ai conoscenti.

Ho in mente di seguire la tattica che due anni fa mi consentí, prima dell’infortunio, di accumulare un bel vantaggio sul tempo limite, vale a dire anticipare una sosta per dormire al rifugio Sella che troveró dopo cinque Km di discesa e fermarmi il meno possibile alla base vita di Cogne, che immagino ancora una volta presa d’assalto. I piedi, forse anestetizzati dal ghiaccio, mi consentono inaspettamente un buon passo ed arrivo alla vista del rifugio abbastanza velocemente, salvo poi patire le pene dell’inferno negli ultimi cinquecento metri di discesa. Prendo immediatamente posto in uno dei letti della camerata messa a disposizione dal gestore, ma non riesco a chiuder occhio per il lancinante dolore ai piedi, soprattutto il destro, che non accenna a diminuire neppure una volta tolte le scarpe. Passo mezz’ora sotto le coperte a massaggiarli senza sensibili miglioramenti ... la protuberanza data dall’alluce valgo non riesco neppure a sfiorarla con le dita, tanto é il dolore. Stringendo i denti e trattenendo a stento le lacrime mi rimetto le scarpe e dopo aver preso qualcosa di caldo, intraprendo la discesa verso Valnontey: cinque Km di puro martirio. Non riesco ad andare avanti: mi butto spesso a terra quando la pena é insopportabile, approfitto di tutte le fonti che trovo per bere, nonostante la temperatura sia sotto lo zero, avvicendandomi in questa digraziata ritirata con il manipolo di soldati che rimane militarescamente unito, scortando i diversi commilitoni che, malgrado la vigoria della giovane etá, scontano probabilmente l’inesperienza a tali sforzi prolungati, con ginocchia e tendini doloranti.

Dovendo mettere meno pressione ai piedi, i tre Km di fondovalle tra Valnontey e Cogne vanno decisamente meglio, ma quando entro in base vita sono terreo e, nonostante tenti di scacciarla con tutte le forze, la ragione tenta di impadronirsi di me insinuando l’allettante ritiro tra i miei pensieri. Malgrado le ormai quaranta ore di gara, ancora non c’é traccia di quella svolta, il cambio di dimensione che nelle passate esperienze mi ha fatto abbandonare la sofferenza del trascendente umano sentire per catapultarmi nell’immanente demenza dell’ultratrailer, che sembra godere e trarre sempre nuova linfa dalla compenetrazione con questa metarealtá che esiste solo per lui. Confesso le mie pene ed i miei timori al solito Graziano, il compagno della solita Ermanna con cui sempre ci troviamo nei soliti ultra trail. Con l’affabile accento emiliano mi chiede, praticamente redarguendomi “Ma non ti ritiri mica eh?”, una di quelle domande retoriche che in latino andavano introdotte con il “num”, prevedendo solo risposta negativa. Ed ecco il miracolo, la transustanziazione della volontá: gli dichiaro solenne che non mi ritireró mai, saranno altri a dovermi fermare, dovendo usare in caso tutte le loro forze. Per paura di non riuscire a rimetterle, non tolgo neppure le scarpe e dopo un lauto pasto, poco prima delle cinque di martedí mattina, sono di nuovo in cammino ... senza ancora aver mai chiuso occhio.

Il buon caffé espresso, offerto come di consueto all’uscita di Cogne da sostenitori “indipendenti” del Tor, mi aiuta a tenere gli occhi aperti nel lungo stradone sterrato che conduce a Champlong e poi nel tratto asfaltato verso Lillaz, dove comincia la ripida salita nel bosco verso il ristoro di Goilles, addobbato a festa dai volontari per celebrare la decima edizione. Mentre mi rifocillo con diverse fette di cocomero si fa giorno; continuo a salire fino ad un altro piacevole incontro con il guardaparco che dal giardino della sua casetta offre ai concorrenti uno squisito té caldo: té vero fatto con le foglie essiccate e la menta raccolta lí intorno, non le polverine dell’organizzazione, come sottolinea orgoglioso. Ne approfitto per fare il bis e scambiare due parole sulla fauna presente nel parco, oltre a quella allogena, fortunatamente non stanziale, di noi ultratrailer.

La temperatura, complici la quota, il vento e l’aria carica di umiditá, si fa di nuovo fredda; l’interno del rifugio Sogno é gremita di compagni di avventura insonnoliti che dormicchiano e si riscaldano ... forse anch’io chiudo gli occhi per qualche minuto abbandonato su un tavolo. Riparto comunque abbastanza presto per coprire gli ultimi trecento metri di dislivello verso la Finestra di Champorcher, prima che la minaccia della pioggia annunciata per la giornata odierna si tramuti in realtá. Il passo ed il primo tratto della discesa seguente é avvolto dalle nubi; mi ritrovo all’improvviso con Cristiana in compagnia di Marco, un suo amico fotografo che da qui in avanti, arrivando sin dove gli é possibile con la sua e-bike, ci raggiungerá in ogni dove con il suo carico di simpatia ed incoraggiamento anche per il sottoscritto “Vai Sorcio, non mollare la Coniglietta, che ti porta fino a Courmayeur!”. All’inizio pensavo mi apostrofasse con “Socio”, ma prestando attenzione mi sono infine convinto di essere per lui un grosso ratto di montagna; non ho capito se tali eptiteti facciano parte di uno slang regionale o di una sua personalissima passione per i roditori, in ogni caso questo zompettante folletto montano mi é simpatico a prima vista .... non fosse altro perché mi ha da subito offerto una squisita crostatina alla marmellata di more, fresca di pasticceria. Usciamo dalle nubi piú o meno in corrispondenza del lago Miserin, da dove comincia un lungo tratto di carrozzabile abbastanza trafficato dalle jeep dei pastori: il marmottino inforca la bicicletta che aveva lasciato al rifugio e ci saluta, la coniglietta se ne va giú a balzi veloci, mentre il talpone toscano cammina piú celermente che puó, tenendo sotto controllo il dolore ai piedi e preservando le ginocchia.

Il ristoro gourmet a Dondena (pastasciutta espressa al pomodoro e sfoglia dolce con le mele), mi dá la carica giusta per continuare l’interminabile discesa: ci restano ancora venticinque Km per raggiungere il fondo valle. Sui dolci pascoli in quota vengo superato da Fausto, vecchia conoscenza del 4K e del Tor di due anni fa, raggiungo a mia volta la coppia di giovanissimi amici Giuseppe e Chiara, con quest’ultima che zoppica vistosamente per un problema al ginocchio .... non le dico niente, ma non oso pensare a come riuscirá a superare l’impervio tratto, conosciuto come la “scaletta”, che troveremo tra breve costeggiando il torrente Ayasse in una stretta gola all’interno della quale precipita con fragorose cascate: lo scenario giá di per sé selvaggio é reso se possibile ancor piú aspro dalle centinaia di alberi abbattuti dalla tempesta di vento dello scorso anno, segati ed accatastati alla meno peggio per liberare il sentiero, le cui protezioni verso il baratro sono state danneggiate in piú punti, rendendo cosí la sede percorribile ancor piú stretta e disagevole. Sugli scalini di roccia, dove il piede appoggia abbastanza piatto, sono comunque a mio agio e me ne scendo veloce quasi corricchiando, raggiungendo velocemente il ristoro di Chardonnay. Stranamente non ho molta fame e ne approfitto principalmente per bere e riposarmi un po’, mentre inaspettatamente giungono anche i due ragazzi, con Chiara che riesce ad andare avanti grazie all’aiuto degli anti-infiammatori e della sua resilienza soprattutto.

Appena ripartito comincia a cadere una pioggerellina insistente che ci accompagnerá per tutto il pomeriggio. Fino a Pont Bosset percorro i sentieri che scendono a tratti molto ripidi nel bosco, ma dal fondo comunque sempre piuttosto agevole, in compagnia di Alessandro, un muscolaio (allevatore di cozze) spezzino, con cui discorriamo amabilmente di quello che ci viene in mente, non necessariamente inerente alla corsa, come vecchi amici che si trovano nello sdruscio cittadino del tardo pomeriggio. Ciononostante la sensazione é quella di non arrivare mai al successivo ristoro, che invano speriamo di trovare ad ogni paesello in cui sempre piú frequentemente ci imbattiamo man mano che scendiamo a valle. Finalmente giuntivi, Alessandro riparte quasi subito con Marcella, un’altra vecchia conoscenza dall’Orobie Ultratrail del 2017, che gli chiede di andare insieme perché ha problemi ad un ginocchio, mentre io ho bisogno di prolungare la sosta per far raffreddare i piedi. A mia volta sollecitato, me ne riparto dopo un po’ con Giuseppe e Chiara, che non ha intenzione alcuna di mollare (tosta la ragazza!). Amabilmente discorrendo sui traballanti ponti sospesi tra i magnifici scorci che gli orridi del torrente offrono, scopro che sono  due amici senza molta esperienza di trail che hanno deciso di provare quest’avventura: beata spensieratezza che mi fa riandare con nostalgia alla gioventú, non soltanto quella anagrafica ma anche e soprattutto quella di ultratrailer, quando fino ad un paio di anni fa prendevo queste sgambatelle (e le portavo a termine!) con l’impertinente audacia di un dilettante allo sbaraglio, mentre ultimamente sono diventato un agguerrito Vietcong che lotta disperatamente per la sopravvivenza (e spesso muore!) .... un altro buon motivo per farla finita, penso malinconicamente.

Alla fine del bosco, prima di entrare nell’abitato di Hône sulla riva destra della Dora, raggiungiamo Marcella ed Alessandro; ci ridistribuiamo in un terzetto di maschi e in una coppia di donne che, seppur vicini, procedono separatamente mentre oltrepassiamo il fiume e l’autostrada, attraversiamo Bard ed arriviamo finalmente alla base vita, ognuno con le sue pene ma tutti soddisfatti ed orgogliosi di aver raggiunto questo ideale giro di boa: terminata dopo oltre 150Km e quasi cinquantasei ore di cammino l’Alta Via numero 2, da Courmayeur a Donnas, tra poco intraprenderemo il ritorno sull’Alta Via numero 1 dall’altro lato della Valdaosta .... ci attendono ancora quasi 200Km di avventura, in chissá quanto tempo!

Appena ritirata la borsa, mentre quasi tutti optano per doccia e massaggio, vado alla ricerca immediata di una branda che peró non é ahimé disponibile; una vispa volontaria mi fornisce  un materasso ed una coperta e mi invita a cercarmi uno spazio vitale tra i giacigli della camerata .... ora non so quanto si possa definire vitale avere la faccia praticamente sotto i piedi di quello che dorme sul lettino adiacente, preferiti comunque alla testa dell’altro che pare un cingiale inferocito da come russa; in ogni caso le prime due ore di un sonno profondo e ristoratore mi rimettono al mondo. Pasta, uova e patate con la birra fanno il resto ... e non voglio esagerare perché so che il prossimo ristoro sara a Perloz, dove l’ultima volta me ne uscii sovralimentato e praticamente ubriaco. Mi rimetto in marcia sul lungo rettilineo verso Pont Saint Martin poco dopo le ventitré di martedí, con quasi cinque ore di vantaggio sul tempo massimo che sono conscio diminuiranno drasticamente dopo questa tappa, a ragione considerata lo spauracchio del Tor.

Intanto le prime dure scalinate verso la Madonna della Guardia le supero pimpante, cosiccome la successiva rampa al culmine della quale vedo finalmente un centinaio di metri piú in basso le luci di Perloz, il mitico punto di ristoro che questo trailer gourmet attende praticamente sin dalla partenza. Saranno le una di notte e, benché accolto dall’immancabile doppia schiera di campanacci suonati a festa, la piazza é ovviamente deserta. Mancano musica, balli e canti di due anni fa, ma il ristoro paesano é stato lasciato ben fornito dai solerti cittadini. Praticamente nemmeno guardo cosa c’é in quello ufficiale dell’organizzazione e mi dirigo, sotto gli occhi basiti di due colleghi che se ne stanno invece servendo, verso l’angolo sinistro del tendone dove in belle ceste di vimini fanno mostra di sé allettanti focacce al gorgonzola, al formaggio piccante, ricotta ed affettati locali. Chiesto educatamente il permesso ai divertiti volontari, faccio platealmente saltare il tappo ad una bottiglia di prosecco (non ce ne sono di avviate), avvicino una sedia al tavolo e comincia la festa ... riesco pure ad accavallare le gambe senza dolore alcuno, pur di godermi al meglio questo ben di Dio! Per una recrudescenza di pudica decenza, interrompo questo banchetto solitario esattamente a metá bottiglia .... devo aver comunque bevuto meno di due anni fa, visto che alzandomi non mi gira neppure la testa.

Dopo la breve discesa per attraversare il torrente Lys sul fiabesco ponte di Moretta, si ricomincia a salire, prima su asfalto, poi nel bosco ed infine su ripide scalinate tra i prati inframmezzati da sparuti gruppetti di case. Senza mai fermarmi arrivo al ristoro di Sassa, dove cerco di rincantucciarmi il piú possibile sotto il tendone per ripararmi dal freddo, mentre faccio riposare i miei disgraziati piedi. Ho ancora una bella scorta energetica residua dal ristoro precedente, propendo quindi per bevande calde che mi riportino in temperatura, in modo da affrontare al meglio le interminabili lande desolate che mi attendono ...ahi quanto a dir é cosa dura, esta selva selvaggia aspra e forte, che nel pensier rinova la paura!

Anche il successivo tratto di salita fino al Col di Portola scorre via tranquillo; entro cosí nel primo tratto di pietraia infernale: dove non ci sono i sassi, c’é il fango dovuto alla pioggia del giorno precedente; in questo caso le scarpe in goretex, che uso perché le uniche che resistano alla dirompente azione dei miei alluci scalibrati, mi consentono di non perder troppo tempo a scansare le pozze e mantenere al contempo i piedi asciutti. Arrampicatomi finalmente sul crinale rimango a bocca aperta, paralizzato dall’estasi e probabilmente esclamando un ohhhh di estatico stupore: al terzo passaggio, per la prima volta non mi trovo avvolto dalla nebbia, anzi non si vede neppure una nuvola all’orizzonte in questa tersa aurora che abbraccia il Biellese financo alla Lomellina. É troppo per una persona sola e quindi incito Nick, un vigoroso australiano in pantaloncini e maglietta che sta arrancando sugli ultimi scalini di roccia, a raggiungermi al piú presto; quando mi é accanto anche lui spalanca la bocca e solo dopo alcuni lunghi secondi é capace di dire “Thanks for sharing this!”.  Procedendo insieme sul crinale fino al rifugio Coda, ci godiamo tutti i colori del nuovo giorno, dal presago indaco allo speranzoso rosa fino al confortante giallo dell’astro nascente.

Se giovedí, Dio volendo sará gnocchi, il mercoledí é sassi! E giú per le pendici del Mont Mars, giá assaporando il prossimo ristoro non ufficiale di Goillas; il capo famiglia, iniziatore della tradizione e recentemente scomparso, é presente in foto sul tavolo allestito da moglie e figlia all’esterno della loro baita con tanti squisiti manicaretti: buona creanza vuole che mangi e beva alla memoria e contemporaneamente al futuro di questo altro virtuoso esempio dell’ospitalitá valdostana.

Nel tratto successivo che conduce al rifugio della Balma, modificato ripetto all’originale per gli alberi abbattuti dal vento dello scorso anno, vengo raggiunto da Fausto. É un buon Cristo il bancario bolognese ma, a dispetto del suo nome, l’ottimismo non é da annoverare tra le sue doti. Alto e dinoccolato, con la faccia ancor piú scavata del solito dalla fatica di ormai quasi tre giorni di gara, quando questo Lurch degli Addams con il suo tono lento e grave profetizza che non arriveremo mai in tempo a Niel, ho pensato a Cassandra come ad un’allegra birichina. Avendo le mani impegnate dalle racchette, onde evitare ulteriori atti auto lesionistici, non ho potuto espletare i gesti apotropaici del caso; abbiamo cosí continuato insieme fino al rifugio con io che, rassicurando lui, tentavo soprattutto di convincere me stesso. Ormai spaventato dall’infausto oracolo, ho deciso di evitare la sosta sonno originariamente programmata, anche perché, a differenza degli anni scorsi, qui l’accoglienza é un po’ meno calorosa e a chi chiede se ci sono letti per stendersi, viene risposto abbastanza bruscamente che possono farlo sul pavimento nelle stanze adibite al ristoro, vietando in maniera categorica l’accesso alle camere del bellissimo rifugio.

Quando ripartiamo dalla Balma si é aggiunto Luca, un simpatico ragazzo dallo spiccato accento romanesco. Il terzetto dura poco, infatti Fausto, sempre piú convinto di non stare dentro le barriere orarie, decide di corricchiare un tratto a favore prima della successiva salita al Col di Marmontana, che ormai in lontananza gli vedo comunque affrontare con un passo ben piú sostenuto del nostro: altro che cancello penso, se continua cosí arriva a Courmayeur con un giorno di anticipo. Lo rivediamo in partenza dal ristoro del Lago Chiaro, gemma incastonata tra gli aspri picchi rocciosi, mentre Luca ed io vi giungiamo. A nostra volta resi ansiosi dal catastrofismo di chi partecipa per la quarta volta al Tor, riduciamo la sosta al minimo sindacale, anche perché il sottoscritto, nonostante l’abbondanza del ristoro, rimane onestamente un po’ deluso dal non trovarvi, a differenza della precedente partecipazione, la squisita carbonada, una sorta di spezzatino cotto nel vino. Non voglio certo imputare la fatica al mancato apporto calorico, ma una tale delusione gastronomica si ripercuote nella successiva scalata alla Crena du Ley che, complice anche un clima che sta ormai virando verso il caldo, ho la sensazione di affrontare, seppur senza soste, ancor piú lentamente delle salite precedenti. Comunque con Luca ci rassicuriamo a vicenda considerando eccessivo l’allarmismo di Fausto; superata la caratteristica spaccatura nella roccia imbocchiamo il tratto di discesa molto ripido ed il successivo pianoro roccioso verso il Colle della Vecchia, una distesa di massi in cui il sentiero é lasciato alla libera interpretazione.

Giungo al ristoro esausto e quando chiedo ai volontari il tempo stimato per compier i successivi cinque Km e mezzo verso Niel, la loro risposta, forse indottrinati da Fausto che ci ha preceduti, é a dir poco terroristica: tra le tre e le quattro ore! Crollo letteralmente sul piatto di pasta appena preso mentre Luca, ben piú pimpante, si avvia, non prima di avermi immortalato mentre dormo steso su un fianco, con il braccio destro posto a strenua difesa delle penne in bianco: siamo ormai alla beluina sopravvivenza! Dopo questo minisonno e una bustina di Oki sottolingua riparto lento e dolorante, ma miracolo della chimica mi sciolgo nel primo tratto di discesa su mulattiera lastricata, corricchiando sul bordo piatto del contrafforte a lato del precipizio. Ben presto la bella mulattiera si trasforma in un sentiero piuttosto infame, che peró, ormai di slancio, percorro di buon passo cosiccome il successivo saliscendi nel bosco verso Niel, dove incontro molti accompagnatori che vengono a riscontrare i loro assistiti. Dopo un paio di ore, avendone ancora tre abbondanti di margine, sono comodamente seduto al ristoro con un pantagruelico piatto di polenta al sugo ed un boccale di birra: mi sto rimettendo sulla retta via!

 Se il tratto precedente é stato fortunatamente percorso ben piú velocemente del previsto, i successivi tredici Km fino all’agognata base vita saranno peró piú lenti. I quattro Km di aspra salita verso il col di Lasoney sembrano non finire mai; l’incedere, seppur con un‘ unica sosta per indossare la frontale al calare della quarta notte, é sempre piú faticoso .... in qualche modo arrivo comunque al passo, dove dall’altro lato ci attende il lungo vallone di Loo dalla pendenza paradossale per la Valdaosta: poco piú un falso piano. Nel 2017 lo corsi come un disperato in scia ad Ermanna; adesso sto quasi per fermarmi, lasciato praticamente al buio dalle pile scariche della frontale, fin quando giunge Cristiana seguita a ruota da un altro concorrente; pur non correndo, il loro passo é sostenuto e decido quindi di non perdere il treno, accodandomi e sfruttando la loro luce tra i dolci pascoli. All’alpeggio di Ober Loo, nonostante la solita giovialitá dei volontari del ristoro che sparano musica e scampanate di incitamento, sono piuttosto scoraggiato. Sostituisco le batterie della frontale e lascio che Cristiana si avvii con l’altro ragazzo; non ne sono sicuro, ma penso di aver preso anche l’ennesimo antidolorifico, visto che li raggiungo e sorpasso all’imbocco dello scosceso sentiero, che attraverso il bosco conduce al fondovalle e che praticamente percorro tutto di corsa, nonostante due anni fa avessi imputato ad una simile condotta il successivo infortunio. Dopo un paio di Km su asfalto faccio finalmente l’ingresso al palazzetto di Gressoney: delle cinque ore di margine che avevo a Donnas, me ne sono rimaste tre, senza considerare la sosta ancora da quantificare.

A centotrenta Km e passa dall’arrivo le scope non le voglio avere intorno e cosí, malgrado sia stanco ed assonnato, mi fermo per un’ora esatta: giusto il tempo di mangiare qualcosa, massaggiarmi i piedi e, scelto a caso tra i tanti un fortunato accompagnatore, farmi spalmare della crema emolliente sulla schiena, irritata dallo sfregamento dello zaino. Lungo i Km pianeggianti che costeggiano il torrente Lys, solo nelle tenebre, faccio fatica a tenere gli occhi aperti .... sulle rampe in salita che conducono al rifugio Alpenzu ne approfitto per dormire proprio: il sentiero é ripido, ma praticamente é una carrozzabile larga e dal fondo agevole caratterizzato da tratti rettilinei di alcune decine di metri, che mi consentono di chiudere gli occhi per diversi secondi mentre cammino lentamente. A volte riaprendoli spontaneamente in tempo, altre perché le frasche in faccia mi avvertono che sto uscendo di strada, giungo comunque al rifugio. L’orologio segna le tre del mattino di giovedí, orario limite di uscita dalla base vita; dalle finestre si vedono le luci di Gressoney nel fondo valle: questo é il poco ossigeno che mi é rimasto, penso ...

Il caffé doppio ha peró l’effetto sperato; me ne riparto cosí piuttosto pimpante per dare la scalata al Col Pinter, fiducioso di recuperare nuovamente del  tempo nel successivo tratto fino a Valtournenche, la tappa piú breve e forse il piú facile di tutto il Tor. Mentre affronto le prime pendenze non troppo impegnative tra i pascoli, ripenso con una certa preoccupazione allo scollinamento di due anni or sono, quando in discesa ebbi il primo grippaggio del ginocchio che di lí a breve mi avrebbe costretto al ritiro. Sicuramente si tratta di infauste coincidenze, che peró ti fanno apparire come dati di fatto oggettivi le teorie cabalistiche, malgrado tu professi un razionale pensiero positivo: il Col Pinter mi porta iella! Le batterie, pur usate per poche ore, sembrano di nuovo scariche e la luce della frontale diventa sempre piú fioca; essendo solo come un cane preferisco andare avanti a tastoni piuttosto che perdere tempo a cercare ed accendere l’altra torcia o il cellulare per consentire la loro sostituzione: il risultato e che mentre impreco contro mia moglie che evidentemente mi ha comprato delle pile di pessima qualitá (maledetta economia domestica!), smarrisco il sentiero giusto e dopo un lungo loop con dei tratti in discesa mi ritrovo dove ero sicuro di esser giá passato: ormai preda del sonno, non escludo di aver seguito le bandierine che segnano il percorso in senso contrario. Recuperata parzialmente la ragione, con la luce di un concorrente intanto sopraggiunto, sostituisco le batterie e me ne riparto per la seconda volta alla scalata del colle.

Poiché un colpevole ci deve essere ed il sottoscritto é innocente a priori, mentre arranco in salita continuo ad inveire contro l’evidente pessima qualitá del materiale fornitomi dalla consorte, dimentico di come la stessa si fosse immolata la domenica notte prima  che partissi per Ginevra (sono quasi due settimane che manco da casa!) per ricucirmi con della lenza la spallina dello zainetto che si era improvvisamente staccata mentre lo provavo a pieno carico e per rinforzare per sicurezza pure l’altra. Ma lei non pare essersene dimenticata e cosí, telepatica affinitá elettiva dopo diciassette anni di matrimonio, mi trovo ad un certo punto lo zaino di traverso a metá schiena con la spallina ciondoloni. Mancano ormai poche centinaia di metri allo scollinamento e non ho intenzione di fermarmi proprio sulle rampe piú dure, anche perché con la rabbia che ho in corpo la salita vola via agevole. Finalmente appollaiato su un sasso vicino alla piramide che marca i quasi duemilaottocento metri del passo, mentre lego la spallina rotta ad un altro laccio dello zaino per una riparazione tanto grossolana quanto funzionale, enuncio con la bava alla bocca le mie maledizioni contro la pessima acquirente di mini-stilo ed ancor piú inetta rammendatrice, arrivando a condannare senza appelli il ‘68 ed il femminismo tutto, senza i quali le donne sarebbero ancora in grado di cucire come si deve!   

Dopo questa nefanda serie di bestemmie ed invettive la pressione arteriosa si stabilizza e guardando alla riparazione appena effettuata con la tronfia soddisfazione del maschio che sa aggiustare le cose, faccio per indossare lo zaino e testarne la tenuta. Non ci sono parole per descrivere cosa abbia provato quando, estremamente soddisfatto del risultato ed un momento prima di rialzarmi, l’altra spallina si é scucita esattamente allo stesso modo della prima ..... timor panico dell’incommensurabile sovrannaturale rende solo pallidamente l’idea. Le gelide folate di vento evidentemente altro non sono che l’aleggiare dell’uxorio spirito vendicatore cui, come Abramo con Isacco, sono pronto adesso ad offrire in olocausto lo zaino, le racchette e qualsiasi altra cosa mi venga richiesta. Da questo lato non ci sono altri lacci disponibili e cosí, seguendo il buon consiglio di un concorrente intanto sopraggiunto, forse l’angelo di Dio, uso il cordino che diligentemente ho con me per fare una legatura con alcuni ganci. Ormai rassegnato al peggio, riparto a capo basso recitando le litanie di contrizione.

Fortunatamente una nuova alba spazza via le tenebre quando percorro i pascoli e le piste da sci sopra Champoluc, dopo aver superato l’erto vallone detritico in quota con le ginocchia questa volta integre. Malgrado lo zaino un po’ sghembo sulla schiena tipo tracolla, anche l’ultimo tratto di sentiero che scende attraverso il bosco fino al paese scorre via liscio ed é con immenso sollievo che mi getto finalmente in un letto del ristoro avendo nuovamente sette ore di margine. Dopo un’ora e mezzo di profondissimo sonno rinasco a nuova vita e mangio con rinnovato appetito, mentre racconto a Graziano ed Ermanna le disavventure della notte. Percorro i circa quattro Km di fondovalle lungo il torrente Evançon come un leopardiano donzelletto, ricambiando con piacere i calorosi saluti ed incoraggiamenti delle persone che incontro o che addirittura appositamente rallentano con la macchina .... tutto questo inopinato affetto é carburante di primissima qualitá per le mie gambe!

La salita verso il rifugio Grand Tournalin é piuttosto facile anche se, con ancora indosso i fuseuax lunghi, comincio a sudare per il caldo che sembra aver decisamente sconfitto l’incursione polare dei giorni precedenti. Decido comunque di non toglierli, quasi per scaramanzia, perché mi tengano calde e preservino da infortuni le giunture, proprio adesso che sto per raggiungere il punto dove mi arresi definitivamente due anni fa. Lasciato il ristoro mi ritrovo ancora con Cristiana ed il folletto fotografo sul sentiero che in diagonale a mezza costa ci conduce al Col di Nana, per poi attraversare una conca in quota fino al definitivo scollinamento dove, ad inizio discesa, mi sembra di riconoscere il masso su cui rimasi bloccato per ore prima di decidermi a chiamare il soccorso. Mi carezzo istintivamente entrambe le ginocchia, come a raccomandarmi che non facciano ancora brutti scherzi; magari é merito del dolore ai piedi che copre ogni altro acciacco, ma fortunatmente sembra che muscoli, tendini e legamenti si siano docilmente rassegnati all’inumana mole di lavoro loro richiesta.

Alle cinque di giovedí pomeriggio entro di ottimo umore nella base vita di Cretaz, frazione del comune diffuso di Valtournenche: una sensazione ben diversa tendere il polso verso il cronometrista perché ti registri il passaggio piuttosto che per tagliare via il chip, crudele onta del ritirato. Ancor meglio potersi nuovamente stendere in una branda e togliere i pantaloni lunghi che, indossati da oltre quattro giorni, ripongo dentro una busta di nylon nel borsone e non getto via, al solo scopo di evitare una denuncia per illecito smaltimento di rifiuto speciale. Effluvi olfattivi a parte, il mio corpo tutto sente il bisogno di una doccia: considerando le sette ore di margine sto per cedere alla tentazione. Osservando peró i miei poveri piedi e le fasciature alle dita ritorte a martello che, fatte con estrema cura la sera del sabato, sono ancora perfettamente integre, non ho l’ardire di scoprire cosa nascondano e propendo per un sonno ristoratore di almeno due ore ..... ne faró ancora uno in questo Tor, ma ahimé troppo tardi per non vedere cose che voi umani non potete neppure immaginare.

Mentre faccio cena l’impareggiabile Graziano, dopo che a Champoluc era stato fatto partecipe delle mie disavventure sul Pinter, mi rifornisce di alcune pile che, non avendo trovato un negozio aperto, una signora cui aveva chiesto informazioni a riguardo gli ha regalato.  Con ancora tre ore di margine e la compagnia di un gentile volontario che mi scorta per le strade del paese fino all’imbocco del sentiero, riparto fiducioso per la lunga e durissima tappa che mi attende, perdipiú mai effettuata in questo senso ...... tant’é amara che poco é piú morte, ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai, diró de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.

Solo soletto risalgo il pendio della valle lungo il sentiero ben illuminato dalle batterie scroccate, ripensando quando nell’ormai lontano 2016, percorrendolo in senso inverso in occasione del 4K, vi trovai steso a terra dolorante l’allora padre padrone della Valdaosta e ideatore stesso dell’anti-tor Augusto Rollandin, forse proprio all’inizio della sua parabola discendente, mai perdonato da tanti valdostani per l’attentato alla loro corsa .... tutto passa, il Tor resta! Assorbito dai miei pensieri mi ritrovo sotto l’imponente contrafforte della diga di Cignana e di lí a breve a sorbire del caffé caldo all’interno del rifugio Barmasse. Sempre da solo percorro il facile tratto successivo, prima uno sterrato carrozzabile alternato ad un facile sentiero in leggera discesa, poi l’abbordabile salita alla Finestra d’Ersa, un saluto al Cervino che si staglia maestoso nella notte, quindi la discesa a mezza costa e una breve salita al ristoro di Vareton, dove mi riparo per una fugace sosta nella scarna struttura usata normalmente dai cacciatori, che la corrusca fiamma ardente nel camino rende peró oltremodo accogliente.

Con un magnifico chiaro di luna che retroillumina la corona di cime tutto intorno, percorro un lungo arco piú in sali che scendi sulle pendici terminali dell’ampio vallone di Tzan, fino al passo che da esso prende il nome. Mentre tento di ricordare come sia la discesa dall’altro lato, un “ Oh ca..o!” esclamato da chi, precedendomi di una cinquantina di metri, vi si é appena affacciato, mi fa immediatamente tornare in mente la durissima scalata fatta nel 2016 in cordata con i quattro amici della Valsesia, tutti tirati dal conturbante lato B di un’avvenente spagnola. Il ripidissimo ghiaione che precipita nel vallone di Saint Barthélemy é mal sopportato da piedi e ginocchia alla quinta notte di fatica consecutiva. Tutto sommato mi va pure bene, visto i tre o quattro disgraziati che raggiungo e che seppur ormai nel fondovalle pianeggiante, riescono a malapena a trascinarsi dietro ..... uno di loro soprattutto, un asiatico con cui la barriera linguistica sembra dividerci ancor piú mentre mi allontano, chiede disperato dove sia il prossimo punto di ristoro.

Raggiunto finalmente il rifugio Magiá, avverto i volontari delle persone in seria difficoltá che ho superato; mi ringraziano, ma dicono che non spetta a loro muoversi per recuperarli, almeno fino a che non viene attivato ufficialmente il soccorso. Ognun per sé e Dio per tutti, alla faccia della solidarietá tanto sbandierata nei trail. Riparto dopo una buona mezz’ora di riposo senza che i dispersi siano ancora arrivati al rifugio ..... io stesso avverto di essere su un pericoloso crinale, ad un passo dal baratro.

Fortunatamente le ore di riposo di Champoluc e Valtournenche mi preservano ancora lucido nelle successive ore notturne, durante la salita verso l’oratorio di Cuney, il santuario mariano piú alto di Europa, con i suoi duemilaseicento ed oltre metri sul livello del mare. In questo piccolo altipiano a sua volta elevato su dei pianori piú bassi, cinto da picchi rocciosi a volte aspri a volte piú morbidi che si perdono a vista d’occhio oltre l’orizzonte, mi godo un’alba fiabesca: la cartolina forse piú bella di tutto il mio Tor. Non posso fare a meno di celebrare l’estatico misticismo del momento con un tocco tipico del mio essere; non godendo appieno della comunione tra la divinitá del cielo e l’umanitá della terra sorseggiando solo del caffé caldo, lo accompagno con un paio di gotti di squisito genepí artigianale attinto da una bottiglia lasciata all’uopo nell’area ristoro, sentendomi a mia volta sospeso tra la condizione di fedele pellegrino e alcolista mattiniero.

Con la luce del giorno e fors’anche con il genepí, il mio spirito si risveglia e proseguo di buon umore, sebbene ormai ad una lentezza imbarazzante, in un dolce saliscendi in quota fino al bivacco Clermont, da cui si vede a poche centinaia di metri il Col Vessona, ingresso laterale a noi riservato della Valpelline. I volontari stanno sbaraccando le strutture del ristoro, segno che ormai la coda della corsa con le scope non deve esser troppo lontana, ma comunque non mancano di saltarmi in padella un buon piatto di pasta al pomodoro con dei tocchetti di speck, simil matriciana. Dopo lo scollinamento mi attendono i ripidi tornanti che solcano l‘imponente ghiaione fino a raggiunger il torrente, che costeggeró nel mezzo al nulla fino alla sua confluenza nel Buthier per i prossimi dieci Km, praticamente ad Oyace.

La dolcissima pendenza a favore sarebbe l’ideale per una blanda corsetta, ma la condizione delle mie spossate membra non lo é; propendo quindi piú per la scanzonata andatura di un pascoliano Valentino con i piedini rovinati, non dal rovo peró, bensí dall’insano peregrinare verso l’irraggiungibile méta dell’umana soddisfazione. Intento a scegliere i mirtilli piú maturi tra i cespugli lungo il sentiero, mi supera Giuseppe trafelato (la sua amica Chiara é stata costretta ad arrendersi) intimandomi di darmi una mossa se non voglio finire oltre il tempo massimo. Mentre rifaccio tutti i calcoli, che mi confermano la mia buona tabella di marcia, accelero comunque il passo in maniera decisa: all’improvviso ho il chiaro presagio che la battaglia finale debba ancora combattersi, fidandomi piú del giovanile impulso che della navigata esperienza .... d’altronde che senso ha affidarsi alla razionalitá, quando sono cinque giorni che cammini per i monti senza praticamente dormire?   

Arrivo al ristoro a mezzogiorno con tre ore e mezzo di vantaggio sul tempo limite. Originariamente avevo pensato anche di farmi un sonnellino, ma sono sempre piú ansioso di arrivare all’ultima base vita di Ollomont, a tredici Km di distanza .... avessi dormito forse non avrei avuto i successivi mirabili accadimenti da narrare e tutto sarebbe stato piú umano o magari chissá, non sarei mai ripartito oppure arrivato fuori il tempo massimo: mancando il senno neppure con il poi si puó far la storia. Con Fausto ci concediamo l’ultimo desiderio del condannato, mangiando degli spicchi di frutta dopo averli copiosamente ricoperti con la cioccolata ottenuta dai volontari fondendo i quadretti avanzati; dopo questo inusitato momento di spensierata allegria, forse ispirato dalle figure disegnate dal cioccolato o non so da qual altra diavoleria,  inesorabile giunge il vaticinio e l’implacabile aruspico sentenzia che non solo la salita che ci aspetta é molto dura, ma sará pure da affrontare tutta sotto il sole ormai cocente.

Intorno alle una del pomeriggio ci incamminiamo insieme io, Fausto e Cristiana, prosaica versione di Fede, Speranza e Caritá. L’ultimo barlume di coscienza mi dice che una media di tre Km orari mi consentirá di mantenere piú o meno invariato il margine; saggiamente decido quindi di avviarmi lento sin sulle prime rampe del viottolo che sale tra gli assolati pascoli in questo infuocato pomeriggio di metá Settembre, lasciando andare gli altri due, con Fausto che a sua volta distanzia Cristiana .... poi il buio di un’eclissi totale della ragione! Non ho la piú pallida idea di cosa abbia fatto, detto o pensato nei successivi Km. Ho soltanto sprazzi di memoria in cui mi vedo imprecare contro il cancello orario che ormai sono sicuro di non poter piú rispettare, mentre scalo il Col Brison pestando sulle racchette come un indemoniato e sbuffando come una locomotiva al pari di Fantozzi alla Coppa Cobram, con bomba a base di metredina, simpamina, aspirina, franceschina, cocaina e peperoncino di cayenna! Seduto su un masso all’ombra supero Fausto che mi guarda passare attonito .... poche decine di metri e senza forze, né fisiche né tantomeno psichiche, mi butto a terra in posizione fetale. Sento lontane, al di fuori del mio essere, voci premurose che chiedono come mi senta, ma non ho intenzione alcuna né di aprire gli occhi né di abbandonare questa posizione di estrema difesa, fin quando un angelo dalla voce femminile, forse tornato appositamente indietro o forse solo sognato, mi dice che dopo la curva a meno di cento metri c’é un ristoro ... apro gli occhi e non vedo la faccia, ma solo le morbide puppe di questa Santa Veronica china davanti a me: chi sia e financo se realmente sia, é destinato a rimanere uno dei misteri della mia passione. Evidentemente riesco ad alzarmi e raggiungere il rifornimento, poiché la successiva immagine che mi viene alla mente sono Fausto, Cristiana e Benedetta ivi presenti, una bottiglia di acqua su un tavolo che artiglio bramoso, salvo poi crollare nuovamente a terra con gli occhi chiusi ma cosciente dei rumori, in un parossismo scenico di cui provo ancora tremenda vergogna.

Come un bambino che ha perso i genitori ed é preda del panico piú totale, ho bisogno che Cristiana mi tranquillizzi e mi spieghi come ancora ci sia tempo sufficiente a raggiungere il passo e scendere dall’altra parte. Mi incammino docilmente dietro lei e Benedetta, continuando a bofonchiare scuse per il vergognoso spettacolo appena dato, che in tale contesto sembra peró esser apparso loro normale e non danno comunque evidenza di averci badato piú di tanto, forse semplicemente per educazione.

Il primo tratto di discesa dopo lo scollinamento é molto ripido e Cristiana, invitandomi a proseguire, decide di indossare i ramponi per avere una presa maggiore sul terreno. Redentore della mia volontá cosciente, dichiaro solenne e sincero che a questo punto non mi importa alcunché di terminare la gara, ma sento soltanto il bisogno di riaffermare la dignitá cosí ignominiosamente perduta poc’anzi con una meritoria opera di espiazione. Mentre Benedetta si avvia del suo passo, rimango quindi lo sgangherato paladino della mia salvatrice che, come sul Col Loson quattro giorni prima, si esibisce in tragicomiche posture nell’affrontare questi infidi passaggi. Tramite le sue conoscenze, si informa per telefono di cosa ci attenda da qui alla base vita ed una volta raggiunto come previsto un ben piú agevole sentiero, che si trasforma addirittura in strada poderale dopo l’alpeggio di Berrio, eccola di nuovo in versione coniglietta sprint: corricchieremo tutti i successivi Km di discesa, gli ultimi dei quali in compagnia di un suo amico che é venuto a riscontrarla mentre il marito sta approntando medicinali (in caso anche per il sottoscritto) e quant’altro in zona ristoro ..... per la prossima notte mi aspetto pure il settimo cavalleria!

Entriamo in base vita che sono le diciotto passate, a meno di un’ora dalla chiusura del cancello in ingresso e a poco piú di due da quello in uscita. Spendo il tempo per aggiustarmi al meglio le fasciature ai piedi e stare steso su una branda nella tenso-struttura, raggomitalato in una coperta per ripararmi dagli spifferi della notte incipiente. Prima che riesca ad addormentarmi, i volontari giá cominciano ad allertare coloro che hanno intenzione e forza di continuare. Le scope intorno non le voglio: sono un po’ come i condor che volteggiano su chi é prossimo al trapasso. Dopo aver consumato l’ultima cena, quaranta minuti prima dell’ora X, sono di nuovo in cammino: questa volta non solo come mi ero abituato le ultime notti, ma tra una moltitudine di reduci claudicanti e storpi in lenta ritirata.

Si comincia subito a salire verso il Colle Champillon .... non ho molto da raccontare, perché mi ricordo poco e nulla; mi pare di aver provato a stare incollato alla coniglietta sprint con il folletto fotografo che saltellava intorno a suon di scatti e “Vai Sorcio” fino al rifugio Letey. Una foto inviatami da Cristiana, scattata all’interno mentre sorbisco un po’ di pasta in brodo, spiega la situazione meglio di qualsiasi parola: faccia tumefatta dalla stanchezza e bocca semiaperta nella tipica espressione del demente che sa solo ridere di fronte agli stimoli esterni, divenuti per lui incomprensibili.  

Volli, e volli sempre, e fortissimamente volli ..... ma invece di farmi legare alla sedia, mi ritrovo a guardare la piramide che marca i duemilasettecento metri del passo. Sará l’ultimo punto fisso per i successivi cinque Km di discesa, di cui peró ricordo paradossalmente quasi tutto ... e sarebbe stato meglio di no! Sogno o son desto? Questo l’amletico arcano che non riesco a dipanare: un momento corro euforico verso il traguardo che ormai sento a portata di mano, l’attimo successivo mi getto a terra tra le rocce disperato e voglio finalmente risvegliarmi da questa  illusione, a costo di vedere le scope intorno a me o addirittura rendermi conto di non esser mai ripartito dalla base vita. Guardo sempre piú spesso l’orologio: vedere il tempo che scorre é l’estremo appiglio alla realtá .... ma potrei benissimo sognare anche quello. Ci si mette pure la mia presunta perizia geografica a confondermi: vedo le luci di due paesi che non ci dovrebbero essere sotto lo Champillon e che, facendomi propendere per il mondo onirico, mi gettano ancor piú nello sconforto ....ho poi verificato che Etroubles e Saint Oyen devono esser lí da diversi secoli ormai. Chiedo alle persone se siamo sulla discesa del colle o in un sogno ... le stesse che mentre mi passano accanto sdraiato a terra, ormai scocciate di chiedermi se stia bene, rassicurano gli altri che vorrebbero farlo rivelando loro come si tratti solo di un poveraccio catturato dal vortice dell’ossessione che, senza soluzione di continuitá, prima corre e poi si accascia. Tento di spiegare la miserrima condizione in cui verso a coloro con i quali ho piú confidenza, come la vecchia conoscenza Loris Zubelli o il buon Fausto, ma dubito di esser stato sufficientemente chiaro .... d’altronde quale certezza ho che loro stessi non facciano parte della mia immaginazione?

Arrivo cosí a Ponteille Desot dove sul braciere all’esterno della casupola, esattamente come tre anni fa al 4K, ci sono delle costoline ad arrostire; il buon senso della follia lo considera come una prova provata del fatto che stia vivendo un’illusione. Cosí, ormai pacatamente rassegnato, mi rivolgo in questi precisi termini ad un volontario del ristoro: “Non so se sono sveglio o sto sognando. In ogni caso ricordo che dentro la casa, dopo la cucina, c’é una stanza con due letti dove dormii anche tre anni fa. Se fossimo davvero a Ponteille Desot, svegliami per favore un po’ prima che arrivino qui le scope”. Vengo cosí accompagnato ad un soffice letto dal buon uomo, piú esterrefatto del ghisa con Totó e Peppino a Milano (per andare dove dobbiamo andare, per dove dobbiamo andare?).   

“Tra poco le scope saranno qui!” mi sveglia definitivamente da questo incubo. Non so quanto abbia dormito, ma é come se lo avessi fatto per una notte intera. Sono di nuovo in me; prova ne é che, prima di andarmene, chiedo cosa ne sia stato delle costoline che erano sulla brace: purtroppo sono finite, ma le fette di polenta con la fontina che vi si fonde sopra rappresentano un’ottima alternativa.

Felice e beato, con la consapevole spensieratezza del sopravvissuto, alterno camminata veloce e corsetta nel lungo agevole falsopiano, costeggiando le bassi pendici della Valle del Gran San Bernardo attraverso un comodo viottolo erboso nel bosco. Supero diverse persone, molte delle quali in preda a crisi di sonno che ben comprendo; devo addirittura convincere uno che mi sta venendo incontro, probabilmente appena svegliato da un riposino e disorientato, ad invertire la marcia. Sono sicuro di riuscire a scavare un salvifico solco tra me e le scope fin quando il destino mi chiama a continuare la mia opera di espiazione. Mentre la sto superando riconosco e saluto Ermanna, che mi dá una voce di rimando in cui avverto immediatamente qualcosa di strano. Decido di stare un po’ con lei e capisco che é piú meno nello stato di demenza cosciente in cui versavo io stesso poc’anzi. Non riuscendo a camminare dritta si attacca al mio zaino e cosí comincia l’esilarante rientro a casa di due amici dopo l’ubriacatura: ogni tanto si ferma a salutare delle persone che vede soltanto lei e quando le spiego che non c’é nessuno giú risate .... perlomeno ha la sbronza allegra e non piangolina! Dopo aver smentito la presenza di innumerevoli persone, animali e cose decido di stare al gioco e cosí saluto anch’io i personaggi immaginari che incontra ... quando sospettosa mi chiede poi se ci fossero davvero e io non posso fare a meno di ridere svelando la burla, siamo vicendevolmente vittime di un’allegria contagiosa. Ad un certo punto l’appiglio dello zaino non é piú sufficiente a farla stare in piedi e cosí la prendo sottobraccio, rendendo ancor piú comico il nostro incedere.

Il problema é che il tempo passa inesorabile e di strada ne facciamo poca; quando penso di essere abbastanza vicino a Saint Rhemy le dico di chiamare Graziano  per venirci incontro. Passa un’altra buona mezz’ora di psichedelici incontri, Graziano non si vede e nuova telefonata: é sorprendente come le mogli, anche nei momenti in cui lottano per la sopravvivenza e dovrebbero supplicare il loro aiuto, sappiano trovare la sarcastica luciditá per rimproverare i mariti della negligente inefficienza. Appena rialzatici dopo esser caduti entrambi per non esser riuscito a sostenerla, presa a quel punto sottobraccio anche da un altro signore che era venuto a riscontrare suo figlio, ecco finalmente arrivare trafelato Graziano, cui come due carabinieri al giudice consegnamo l’arrestata per ubriachezza molesta .... il magistrato deve aver fatto un buon lavoro, visto che alla fine Ermanna giungerá a Courmayeur prima del sottoscritto.

Nell’immediato, giá superati i trecento Km di gara, ho peró l’occasione di sfoderare la miglior prestazione sul miglio di tutto il mio Tor, percorrendo in meno di dieci minuti la suddetta distanza che, attraversata la statale, mi divide dal ristoro di Bosses. Alle cinque del mattino di sabato, ho quasi cinque ore per giungere in tempo all’ultimo cancello orario posto sul percorso all’alpeggio di Merdeux appena sotto il rifugio Frassati, prossimo punto di rifornimento dove arrivo prima delle nove, dopo aver assistito alla sesta ed ultima alba della corsa in compagnia di Fausto, Cristiana e Marco il fotografo. Nel rifugio, con ormai un buon margine per giungere all’arrivo entro il tempo massimo, c’é lo svacco piú totale, finché Lisa Borzani, plurivincitrice del Tor e qui in veste di volontaria, ci intima in maniera decisa di levarci da tre passi per lasciare il posto ai partecipanti alla 30Km - Passage au Malatrá, che stanno adesso partendo da Saint Rhemy. In particolar modo suggerisce di usare me come treno (e questo la dice lunga sulle condizioni in cui versano le ferrovie italiane!) alla sua amica Benedetta, la testimone della mia sventurata sceneggiata sul Brison del giorno precedente.

Dopo poche centinaia di metri mi rendo conto che la sua andatura é peró lentissima: probabilmente ha il tibiale infiammato e pone estrema cura nel poggiare ad ogni passo tutto il piede sul terreno, senza alzare mai soltanto il tallone. Reduce dalle ore notturne con Ermanna, sento di aver espiato a sufficienza. Vergognandomi non poco, anche se ormai non ho reputazione alcuna da difendere, le faccio capire che giunto a questo punto non voglio correre il rischio di arrivare fuori tempo massimo ...altrimenti, come un burlone ha suggerito tempo fa sul forum di Spirito Trail, il cordino rimastomi dopo la riparazione dello zaino verrá impiegato per fare un cappio da appendere al primo albero!

Lasciata Benedetta, che sará comunque finisher, intraprendo la scalata finale al mitico Col di Malatrá, preso letteralmente d’assalto dai camminatori del sabato e da coloro che vogliono assistere al passaggio della baby sorellina del Tor appena partita. Dopo aver superato l’ultimo ripidissimo tratto con l’aiuto delle corde fisse, il sogno di ogni gigante é godersi la vista del Monte Bianco che finalmente appare attraverso la stretta spaccatura nella roccia a quasi tremila metri di quota. Sia per il fisiologico bisogno di rifiatare, sia per la ferrea volontá di immortalare questo momento ad imperitura memoria, non prendo minimamente in considerazione il volontario che si sgola perché nessuno si fermi nell’angusto passaggio intralciando la circolazione, anzi io stesso intimo a coloro che provengono da entrambi i versanti di fermarsi per permettermi di essere fotografato con il mio cellulare, da solo e senza intrusi.

Il declivio sull’altro versante é piú dolce. Riesco a percorrerlo prima che arrivino i primi concorrenti del trail corto, di cui mi godo tutta l’incredibile discesa comodamente disteso al ristoro allestito sul fondo del vallone: il tratto percorso da me in quasi venti minuti viene completato dal primo in circa tre; dopo un po’ arrivano il secondo ed il terzo con quest’ultimo che taglia il sentiero balzando direttamente di roccia in roccia come uno stambecco, in maniera non regolamentare penso: quando sono piú vicini capisco che si tratta di un amico dell’altro che gli sta facendo un filmato con il cellulare. Preferisco non soffermarmi oltre sull’impietoso confronto e comincio a risalire la breve e non troppo ripida pietraia che conduce al Passo Entre Deus Sauts, con cui lascio il vallone di Malatrá ed entro in quello dell’Arminaz, da percorrere in discesa fino all’imbocco della balconata sospesa sulla Val Ferret. In questi pochi Km che mi separano dall’ultimo rifornimento al rifugio Bertone ammiro l’imponente bellezza della parete meridionale del Bianco e dei suoi ghiacciai, compreso quello di Planpincieux salito agli onori della cronaca per la velocitá del suo movimento a valle, in effetti ben piú sostenuta della mia.

Al rifugio Bertone soltanto sei Km di discesa mi separano dalla fine ... la fine vera, quella che non mi sento ancora pronto a raggiungere e rimando ancora per un po’. Prima sveglio, appisolato poi, ripercorro sognando gli ultimi sette anni di insane avventure al cospetto di sua maestá il Bianco .... chissá se anche il buon Manzoni non riusciva piú a raggiungere la cima del Resegone per colpa dei suoi alluci valghi, quando scrisse l’addio ai monti nei Promessi Sposi.

 

     
 

 

TOR DES GEANTS 2019:  LA CLASSIFICA