L’ultratrailer Michele Rosati, ammesso non sia ormai
divenuto indegno definirlo tale alla luce della sua
imbarazzante posizione nelle classifiche internazionali dei
punteggi ITRA che da alcuni anni hanno trasformato una
romantica accozzaglia di cacciatori di emozioni alla ventura
in un’ organizzatissima kermesse semi-professionistica, é
morto cinque mesi fa, giustiziato senza pietá alcuna alle
23:16 del 27 Aprile 2019 in via Amiata al Vivo d’Orcia,
colpevole di esser giunto al cancello orario del 144esimo Km
con ventisei minuti di ritardo. Provó invano ad implorar
mercede: il verdetto fu inappellabile! Ed ecco cosí alcune
ore piú tardi la decisione, altrettanto inappellabile quanto
sofferta, di farla finita per sempre con queste
ultra-bischerate. Guai a chi osi dire che mi sono arreso:
sono caduto combattendo!
Peró il Tor
é il Tor! .... A parte che avevo giá pagato la non
trascurabile quota di iscrizione, ma poi diciamoci la
veritá: per un tapascione come me, chiudere all’arrivo di
Courmayeur, sarebbe stato come Borg che lascia il tennis da
numero 1 del mondo!
Trovate le
motivazioni, come al solito c’é stato da inventarsi le
gambe. Le competizioni trail di allenamento sono state
definitivamente cassate da giugno, ormai conclamatasi
un’incurabile patologia da ritiro intorno metá gara. Ho
provato allora come l’anno scorso a tirar su un autogestito
sul percorso del vecchio Malandrino da Prato all’Abetone, ma
senza successo; alla fine, partito da casa un torrido
venerdí pomeriggio di inizio Agosto, mi sono trovato la
mattina seguente, dopo una settantina di Km, a Castiglion
d’Orcia con i piedi rovinati che imploravo mia moglie per
telefono di venirmi a prendere.
Piú la
logica diceva come fosse per me ormai non solo irrealistico,
bensí impossibile oltre ogni ragionevole dubbio percorrere
piú di duecento miglia con una trentina di Km di dislivello
positivo, piú le motivazioni per un’impresa eroica
crescevano. I miei iniziali sani propositi decoubertiniani
di andare a divertirsi a prescindere dal risultato, per
quanto ancora ipocritamente sbandierati non solo agli altri,
ma anche a me stesso, avevano ormai lasciato spazio ad un
dannunziano “Memento Audere Semper”, se non addirittura ad
un gladiatorio e risolutivo “Usque ad Finem”.
L’ultima
trovata, penso contro ogni logica di preparazione atletica,
é stata quella di immolarmi stoicamente ad una rigida dieta
durante l’ultimo mese in cui spesso, complice l’intensa
attivitá lavorativa fuori casa, sono riuscito ad impormi una
sorta di pseudo ramadan in cui l’unico pasto quotidiano era
un’abbondante colazione ….. come poter negare che quella
decina di chili persi abbia avuto il suo peso?
Proveniente
da Ginevra, casuale méta di lavoro nella prima settimana di
settembre, sabato 7 giungo finalmente a Courmayeur per le
operazioni di ritiro del pettorale. Prendo parte con
rinnovati piacere ed emozione, anche se ormai non piú una
sorpresa, alla messianica cena di iniziazione al Tor in cui
“Liberi” di Vasco Rossi é cantata da centinaia di vecchi e
nuovi adepti che giungono le mani verso il cielo ….. e
pensare che quando vado a messa, non troppo spesso invero,
provo una vergognosa reticenza a recitare in tal guisa il
Padre Nostro! Fasciati con estrema cura e scrupolosa
dedizione i piedi, che so giá saranno i veri arbitri della
partita, spengo la luce prima delle undici e mi addormento
placidamente, assaporando nel calduccio delle lenzuola quel
senso di fiducioso ottimismo che solo i folli sanno avere
prima del giorno, anzi la settimana, del giudizio.
La mattina
di una frizzante domenica, depositata la sacca che verrá
trasportata dall’organizzazione alle sei basi vita lungo il
percorso, memore dell’attesa di un’interminabile fila patita
due anni fa, giá alle dieci e trenta mi trovo a fare la
spunta del chip: un’ora e mezza prima dello start sono tra i
primi sulla linea di partenza ... non dico proprio
allineato, in quanto mi stravacco immediatamente a terra con
la schiena appoggiata alle transenne. Nonostante il sole
faccia la sua comparsa a riscaldare l’algido clima, data
un’occhiata alle nubi cariche di pioggia e neve che ancora
attorniano il Bianco e le altre cime, propendo per tenermi
indosso i fuseaux lunghi e la maglia termica.
Alle 11:55,
cinque minuti prima del via, incurante da oltre mezz’ora
degli scalpitanti aspiranti fenomeni che tentano ad ogni
modo di conquistare le prime file, cui oppongo un
insormontabile baluardo difensivo con bastoni e zaino a
protezione del mio corpo comodamente sdraiato, mi ergo
maestoso sugli avamposti e, tanto platealmente quanto
provocatoriamente, stiro le membra, mandando giú il primo
antidolorifico di una ahimé lunga serie.
É la prima
volta in vita mia che ad una manifestazione di tale portata,
siamo oltre novecento partenti, mi trovo cosí davanti da
poter addirittura vedere i top runner pronti a scattare dal
recinto appositamente allestito per loro. Ormai ho fatto un
callo abbastanza spesso a questi eventi e non mi commuovo
piú al trito e solenne “Conquest of Paradise” di Vangelis
strimpellato in partenza, preferendo anzi canticchiare,
seguendone il ritmo con tutto il corpo, l’originale e
spensierata “Gloria” di Umberto Tozzi. Scocca l’ora X e,
non imbottigliato come di consueto, mi trovo sin da subito
a correre attraversando il centro di Courmayeur, spinto
dalle urla di incitamento ed i campanacci dei favolosi
valdostani .... O vittoria o morte!
Arrivati
dopo un Km al ponte sulla Dora, quando la strada risale
sull’altro lato, comincia a piovigginare e molti si fermano
ad indossare le mantelline; conscio che tra poche centinaia
di metri entreremo in un fitto bosco di conifere, preferisco
non perdere tempo ed evitare ormai fino in fondo gli
imbottigliamenti, anche perché con maglia termica e guscio
impermeabile sarebbe una sauna. La scelta si rivela
azzeccata, in quanto sul single track, imboccato facendo non
piú di 15 secondi di fila, la pioggia é impenetrabile al
fitto tetto di abeti. La musica cambia quando piú in quota
entriamo in degli erti pascoli: l’acqua che cade si fa
sempre piú fitta e gelida; siamo ormai abbastanza sgranati
ed indosso con sollievo antipioggia e guanti. Davanti a noi
le nuvole si fanno sempre piú bianche e la pioggia piú lenta
e pesante fino a diventare nevischio prima e candidi fiocchi
di neve giá da quota duemila. La decima edizione del Tor ci
dá il suo personalissimo benvenuto: copriamo gli ultimi
cinquecento metri di dislivello verso il Col D’Arp sotto una
fitta nevicata che nemmeno a Natale; sono piú volte
costretto a scuotere la neve dalla giacca dove, asciutta e
tenace, fa presa come al suolo. L’interminabile fila di
variopinti trailers che piú si sale e piú inesorabilmente si
sbianca ricoperta dalla bufera, mi rimanda col pensiero al
Guerra e Pace di Tolstoy con le disgraziate campagne di
Russia napoleoniche o all’altrettanta rovinosa Operazione
Barbarossa del 1941: l’euforico orgoglio del poter dire “io
c’ero” si impadronisce di me e non mi fa sentire le
pendenze, anche perché onestamente non proibitive, fino allo
scollinamento.
La discesa
é puro divertimento: a parte un brevissimo tratto iniziale
sassoso, sono ampi pascoli che digradano piú o meno ripidi e
consentono di camminare o corricchiare ovunque; lascio cosí
il sentiero reso sdrucciolevole dalla neve pestata alla
volta di una soffice coltre, dove le scarpe affondano
leggere e fanno presa senza problemi. Giá al ristoro della
baita Youlaz ha smesso di nevicare e di piovere; sull’ultimo
tratto del sentiero che scende a La Thuile si mangia
addirittura un po’ di polvere. Il ristoro, come previsto, é
semplicemente impraticabile, informe calca di concorrenti ed
accompagnatori: spintonando artiglio al volo qualcosa da
mangiare e me ne riparto praticamente subito, con un
fastidio ai piedi di cui ancora non mi preoccupo, visto che
le successive ore saranno nuovamente in salita ......
Sulle rampe
che costeggiano le cascate del Rutor cerco di amministrarmi
al meglio, memore della quasi cotta che vi presi due anni
fa; arrivo cosí del mio passo, lento ma costante, al pianoro
dei laghetti glaciali tutto sommato in buone condizioni;
faccio una decina di minuti di sosta mangiando dei datteri,
prima di dare l’assalto alla successiva rampa verso il
rifugio Deffeyes, dove riprendo quasi tutti coloro che mi
avevano sorpassato di gran carriera all’attacco della
salita, un migliaio di metri piú in basso .... uno di
questi, meschino, sta addirittura vomitando, immagino per
l’eccessivo sforzo: un monito per cui mi impongo una volta
di piú di non cadere in tali grossolani errori, che rendono
poi il recupero difficile se non impossibile. Un’altra
decina di minuti spesi al ristoro per rifocillarsi con del
brodo caldo, la cui temperatura é l’unica cosa gradevole, e
intraprendo le ultime centinaia di metri di dislivello verso
il colle di Passo Alto in un gelo la cui morsa si fa sempre
piú serrata, costringendomi ad indossare i guanti di pile al
posto di quelli leggeri che avevo.
Nella lunga
discesa su pietraia verso il bivacco di Promoud si fa notte,
accendo la frontale ed il fastidio ai piedi si trasforma in
dolore, costringendomi a cedere il passo ad orde di trailers
ancora pimpanti. Al ristoro mi siedo su una panca e tolgo le
scarpe per massaggiarmi i piedi; quando mi rialzo per andare
a prendere qualcosa da mangiare sono scosso da brividi di
freddo e cerco riparo, forzando un po’ l’educata resistenza
di alcuni volontari piú integerrimi, nell’area dedicata al
servizio, vicino alle pentole sul fuoco. Qui avviene il
primo di quegli incontri che rendono il Tor un’esperienza
unica, che va oltre il percorso, le salite, le discese, i
punteggi ITRA e quei coglioni, non me ne vogliano gli eterni
agonisti, che sui loro monitor da casa guardano alle
posizioni che perdi o guadagni in classifica senza rendersi
conto che tutti quei numerini accesi, anche quelli che hanno
giá preso un paio di giorni di vantaggio rispetto agli
ultimi, sono poco piú che comparse in uno spettacolo
infinitamente piú grande di loro. Una signora di origine
australiane, trapiantata in valle da alcuni decenni, decide
di essere il mio angelo ristoratore e, dopo avermi
rifocillato e scaldato con del minestrone bollente (fatto
con le verdure degli orti dei volontari e non con le bustine
di glutammato!) in godurioso connubio con la fontina di
alpeggio che vi si scioglie filando, apprezzando le mie
qualitá di gourmet piuttosto che quelle squisitamente
atletiche (e come darle torto!), cala l’asso dalla manica e
mi invita ad assaggiare con ben riposto orgoglio gli
squisiti porcini sott’olio da lei stessa preparati.
Indossata
una seconda maglia termica piú pesante, figuratevi se dopo
tale ristoro la salita al Col della Crosatie possa incutermi
timore alcuno! Inesorabile bradipo me la bevo tutta d’un
fiato, compresa l’ultima terribile scalinata nella roccia a
precipizio sul crinale, dove nel 2017 rischiai piú volte un
attacco cardiaco. Sembra proprio che la speranza di trovare
una buona forma fisica durante la gara stessa si stia
materializzando .... non fosse per i piedi! Conscio della
lunga discesa che mi attende fino a Planaval, sul passo mi
riparo nel gabbiotto elitrasportato del soccorso alpino,
sorbendo del té caldo e un antidolorifico, che mi consente
di arrivare al fondovalle camminando tutta la discesa senza
eccessivi patimenti. Anche i successivi Km in falso piano
lungo il torrente, per quanto noiosi, scorrono via bene e
sono tutto sommato ristoratori. Arrivo quindi alla prima
base vita di Valgrisenche in buone condizioni e, visto il
caotico assembramento, massaggiati i piedi per una buona
mezz’ora e cambiati i calzini, dopo un lauto pasto ed un
paio di birre, decido di ripartire con ancora piú di quattro
ore di vantaggio sul cancello orario.
In base
vita aleggiano racconti mitologici di trailers ibernatisi
nel successivo colle e trasformatisi in rocce, con
temperature prossime allo zero Kelvin .... decido cosí di
tirare fuori dal borsone ed indossare, al posto della
seconda maglia termica, un ingombrante e caldissimo giaccone
di pile che mi ero portato giusto per scrupolo. Visto che i
passi vengono dati liberi dal ghiaccio e non si aspettano
nuove precipitazioni, bilancio il potenziale peso nello
zaino togliendo i ramponcini, mossa di cui non avverto
inspiegabilmente l’azzardo: come non sapessi che prima della
successiva base vita dovremo passare sul tetto del Tor, ad
oltre 3300 metri di quota! All’inizio della salita nel
bosco, costeggiando la diga di Beauregard, sento il sudore
scendermi lungo la schiena in ebollizione e maledico la mia
nuova paura senile per il freddo, visto come questo sia
stato sempre un mio fido alleato. Al salire di quota e
procedendo in spazi piú aperti, il bollore si trasforma peró
in un piacevole tepore che bilancia le taglienti rasoiate
inferte dall’aria polare sulle guance e sulle orecchie
soprattutto (il cappello, quello no che non riesco proprio a
tollerarlo). Arrivo allo chalet Epee sul far del giorno,
dove approfitto dell’assito di legno di fronte ai bagni per
stendermi e chiudere gli occhi per alcuni istanti, senza
peró riuscire a prendere sonno. Proseguo quindi la facile
salita verso la Fenetre de Torrent; giunto al passo mi
aspetta peró una delle piú ripide discese di tutto il giro,
oltre mille metri di dislivello in circa quattro Km .... le
mie povere estremitá podaliche sono sempre piú alla frusta
ed al ristoro di Rhemes Notre Dame, nel tentativo di dar
loro conforto fuori dalle scarpe, sono costretto a camminare
scalzo sul pavimento ormai inzaccherato da avanzi di cibo e
bicchieri rovesciati. Per fortuna si riparte subito con la
salita, forse la piú bastarda di tutto il Tor: il versante
ovest del Col Entrelor, milletrecento metri in cinque Km.
Ora non voglio dire che non abbia fatto fatica, ma il fatto
di essermi fermato una sola volta per mangiare un po’ di
frutta secca prima dell’assalto finale al ripidissimo
ghiaione, fa sí che sia pervaso dall’ottimismo consapevole
di chi si ritrova una forma fisica inaspettata.
Scollinato
ai tremila metri di quota, i dodici Km di discesa dall’altro
lato, esclusi il breve tratto iniziale fino al Lago Nero e
quello finale verso Eaux Rousse, sono facili facili lungo il
vallone e mi consentono, stringendo i denti, delle blande
corsette. Arrivo al ristoro con ancora le mie cinque ore di
margine sul tempo limite; me la prendo comoda facendo
conoscenza con Ahmad, un ragazzo malese dall’inglese un po’
stentato che sta concludendo la sua rilassante vacanza
europea dopo aver fatto la settimana prima l’UTMB e con
Cristiana, distinta signora di Settimo Vittone in versione
coniglietta sprint, incuriosita dal mio idioma
decontestualizzato (per lei da qui in avanti saró
semplicemente il Toscano) e con cui avró da dividere ancora
gioie (tante) e dolori (forse ancor di piú) di questo
benedetto Tor. Un piatto di pasta e riparto alla scalata dei
3300m del Col Loson. Per quanto lunga é una salita piú dolce
della precedente; oltrepassato il tratto boscoso a picco
sulla Valsavaranche, in prossimitá del casotto del
guardaparco supero il drappello di militari che quest’anno
sperimentano il Tor e mi addentro in solitaria nel magnifico
vallone di Levionaz, in veritá con la compagnia dei camosci
sui pendii piú bassi a sinistra e degli stambecchi
abbarbicati su quelli piú in alto a destra. Sul fare della
seconda notte mi fermo per metter su la frontale, mangiare
qualcosa ed indossare di nuovo il pile pesante, visto che
giá dopo pochi minuti senza muovermi comincio a tremare dal
freddo. Mancano le ultime ripide rampe sul ghiaione per
giungere al passo; la fatica comincia a farsi sentire e
questa volta sono costretto a qualche breve sosta per
rifiatare, ma a preoccuparmi maggiormente é la vista dei
lumini che mi precedono fermi in un ingorgo a poche decine
di metri dallo scollinamento. Vedendo la neve ghiacciata
fare la sua comparsa sul sentiero, presagisco con il terrore
di chi non ha con sé i ramponcini quale sia il problema:
tutti sono seduti a calzarli, mentre io sono costretto ad
avvantaggiarmi sperimentando con sollievo che le suole delle
scarpe fanno presa negli scalini di ghiaccio ormai creatisi
sul sentiero ad opera delle svariate centinaia di piedi che
vi sono giá transitati.
Giunto alla
piramide che marca lo scollinamento del tetto del Tor, é
ancora maggiore il sollievo con cui apprendo la notizia che
da questo lato, esposto a sud-est, non c’é ghiaccio.
Cionostante sono costretto ad accodarmi ad una comica
Cristiana che, pur indossando i ramponcini, sta percorrendo
il breve tratto esposto sulla sommitá mano nella mano con un
gentilissimo signore del soccorso alpino, che la incoraggia
e la rincuora mentre lei procede terrorizzata inarcuando la
schiena in avanti e buttando il sedere all’indietro, con
un’andatura che mi fa venire alla mente tanto il Totó
burattino quanto il Giacomo del trio quando agli albori
della carriera imitava il cammello .... sembra rendersene
conto visto che, essendo praticamente di casa qui, si
raccomanda con tutti di non far trapelare niente a suo
marito ed ai conoscenti.
Ho in mente
di seguire la tattica che due anni fa mi consentí, prima
dell’infortunio, di accumulare un bel vantaggio sul tempo
limite, vale a dire anticipare una sosta per dormire al
rifugio Sella che troveró dopo cinque Km di discesa e
fermarmi il meno possibile alla base vita di Cogne, che
immagino ancora una volta presa d’assalto. I piedi, forse
anestetizzati dal ghiaccio, mi consentono inaspettamente un
buon passo ed arrivo alla vista del rifugio abbastanza
velocemente, salvo poi patire le pene dell’inferno negli
ultimi cinquecento metri di discesa. Prendo immediatamente
posto in uno dei letti della camerata messa a disposizione
dal gestore, ma non riesco a chiuder occhio per il
lancinante dolore ai piedi, soprattutto il destro, che non
accenna a diminuire neppure una volta tolte le scarpe. Passo
mezz’ora sotto le coperte a massaggiarli senza sensibili
miglioramenti ... la protuberanza data dall’alluce valgo non
riesco neppure a sfiorarla con le dita, tanto é il dolore.
Stringendo i denti e trattenendo a stento le lacrime mi
rimetto le scarpe e dopo aver preso qualcosa di caldo,
intraprendo la discesa verso Valnontey: cinque Km di puro
martirio. Non riesco ad andare avanti: mi butto spesso a
terra quando la pena é insopportabile, approfitto di tutte
le fonti che trovo per bere, nonostante la temperatura sia
sotto lo zero, avvicendandomi in questa digraziata ritirata
con il manipolo di soldati che rimane militarescamente
unito, scortando i diversi commilitoni che, malgrado la
vigoria della giovane etá, scontano probabilmente
l’inesperienza a tali sforzi prolungati, con ginocchia e
tendini doloranti.
Dovendo
mettere meno pressione ai piedi, i tre Km di fondovalle tra
Valnontey e Cogne vanno decisamente meglio, ma quando entro
in base vita sono terreo e, nonostante tenti di scacciarla
con tutte le forze, la ragione tenta di impadronirsi di me
insinuando l’allettante ritiro tra i miei pensieri. Malgrado
le ormai quaranta ore di gara, ancora non c’é traccia di
quella svolta, il cambio di dimensione che nelle passate
esperienze mi ha fatto abbandonare la sofferenza del
trascendente umano sentire per catapultarmi nell’immanente
demenza dell’ultratrailer, che sembra godere e trarre sempre
nuova linfa dalla compenetrazione con questa metarealtá che
esiste solo per lui. Confesso le mie pene ed i miei timori
al solito Graziano, il compagno della solita Ermanna con cui
sempre ci troviamo nei soliti ultra trail. Con l’affabile
accento emiliano mi chiede, praticamente redarguendomi “Ma
non ti ritiri mica eh?”, una di quelle domande retoriche che
in latino andavano introdotte con il “num”, prevedendo solo
risposta negativa. Ed ecco il miracolo, la
transustanziazione della volontá: gli dichiaro solenne che
non mi ritireró mai, saranno altri a dovermi fermare,
dovendo usare in caso tutte le loro forze. Per paura di non
riuscire a rimetterle, non tolgo neppure le scarpe e dopo un
lauto pasto, poco prima delle cinque di martedí mattina,
sono di nuovo in cammino ... senza ancora aver mai chiuso
occhio.
Il buon
caffé espresso, offerto come di consueto all’uscita di Cogne
da sostenitori “indipendenti” del Tor, mi aiuta a tenere gli
occhi aperti nel lungo stradone sterrato che conduce a
Champlong e poi nel tratto asfaltato verso Lillaz, dove
comincia la ripida salita nel bosco verso il ristoro di
Goilles, addobbato a festa dai volontari per celebrare la
decima edizione. Mentre mi rifocillo con diverse fette di
cocomero si fa giorno; continuo a salire fino ad un altro
piacevole incontro con il guardaparco che dal giardino della
sua casetta offre ai concorrenti uno squisito té caldo: té
vero fatto con le foglie essiccate e la menta raccolta lí
intorno, non le polverine dell’organizzazione, come
sottolinea orgoglioso. Ne approfitto per fare il bis e
scambiare due parole sulla fauna presente nel parco, oltre a
quella allogena, fortunatamente non stanziale, di noi
ultratrailer.
La
temperatura, complici la quota, il vento e l’aria carica di
umiditá, si fa di nuovo fredda; l’interno del rifugio Sogno
é gremita di compagni di avventura insonnoliti che
dormicchiano e si riscaldano ... forse anch’io chiudo gli
occhi per qualche minuto abbandonato su un tavolo. Riparto
comunque abbastanza presto per coprire gli ultimi trecento
metri di dislivello verso la Finestra di Champorcher, prima
che la minaccia della pioggia annunciata per la giornata
odierna si tramuti in realtá. Il passo ed il primo tratto
della discesa seguente é avvolto dalle nubi; mi ritrovo
all’improvviso con Cristiana in compagnia di Marco, un suo
amico fotografo che da qui in avanti, arrivando sin dove gli
é possibile con la sua e-bike, ci raggiungerá in ogni dove
con il suo carico di simpatia ed incoraggiamento anche per
il sottoscritto “Vai Sorcio, non mollare la Coniglietta, che
ti porta fino a Courmayeur!”. All’inizio pensavo mi
apostrofasse con “Socio”, ma prestando attenzione mi sono
infine convinto di essere per lui un grosso ratto di
montagna; non ho capito se tali eptiteti facciano parte di
uno slang regionale o di una sua personalissima passione per
i roditori, in ogni caso questo zompettante folletto montano
mi é simpatico a prima vista .... non fosse altro perché mi
ha da subito offerto una squisita crostatina alla marmellata
di more, fresca di pasticceria. Usciamo dalle nubi piú o
meno in corrispondenza del lago Miserin, da dove comincia un
lungo tratto di carrozzabile abbastanza trafficato dalle
jeep dei pastori: il marmottino inforca la bicicletta che
aveva lasciato al rifugio e ci saluta, la coniglietta se ne
va giú a balzi veloci, mentre il talpone toscano cammina piú
celermente che puó, tenendo sotto controllo il dolore ai
piedi e preservando le ginocchia.
Il ristoro
gourmet a Dondena (pastasciutta espressa al pomodoro e
sfoglia dolce con le mele), mi dá la carica giusta per
continuare l’interminabile discesa: ci restano ancora
venticinque Km per raggiungere il fondo valle. Sui dolci
pascoli in quota vengo superato da Fausto, vecchia
conoscenza del 4K e del Tor di due anni fa, raggiungo a mia
volta la coppia di giovanissimi amici Giuseppe e Chiara, con
quest’ultima che zoppica vistosamente per un problema al
ginocchio .... non le dico niente, ma non oso pensare a come
riuscirá a superare l’impervio tratto, conosciuto come la
“scaletta”, che troveremo tra breve costeggiando il torrente
Ayasse in una stretta gola all’interno della quale precipita
con fragorose cascate: lo scenario giá di per sé selvaggio é
reso se possibile ancor piú aspro dalle centinaia di alberi
abbattuti dalla tempesta di vento dello scorso anno, segati
ed accatastati alla meno peggio per liberare il sentiero, le
cui protezioni verso il baratro sono state danneggiate in
piú punti, rendendo cosí la sede percorribile ancor piú
stretta e disagevole. Sugli scalini di roccia, dove il piede
appoggia abbastanza piatto, sono comunque a mio agio e me ne
scendo veloce quasi corricchiando, raggiungendo velocemente
il ristoro di Chardonnay. Stranamente non ho molta fame e ne
approfitto principalmente per bere e riposarmi un po’,
mentre inaspettatamente giungono anche i due ragazzi, con
Chiara che riesce ad andare avanti grazie all’aiuto degli
anti-infiammatori e della sua resilienza soprattutto.
Appena
ripartito comincia a cadere una pioggerellina insistente che
ci accompagnerá per tutto il pomeriggio. Fino a Pont Bosset
percorro i sentieri che scendono a tratti molto ripidi nel
bosco, ma dal fondo comunque sempre piuttosto agevole, in
compagnia di Alessandro, un muscolaio (allevatore di cozze)
spezzino, con cui discorriamo amabilmente di quello che ci
viene in mente, non necessariamente inerente alla corsa,
come vecchi amici che si trovano nello sdruscio cittadino
del tardo pomeriggio. Ciononostante la sensazione é quella
di non arrivare mai al successivo ristoro, che invano
speriamo di trovare ad ogni paesello in cui sempre piú
frequentemente ci imbattiamo man mano che scendiamo a valle.
Finalmente giuntivi, Alessandro riparte quasi subito con
Marcella, un’altra vecchia conoscenza dall’Orobie Ultratrail
del 2017, che gli chiede di andare insieme perché ha
problemi ad un ginocchio, mentre io ho bisogno di prolungare
la sosta per far raffreddare i piedi. A mia volta
sollecitato, me ne riparto dopo un po’ con Giuseppe e
Chiara, che non ha intenzione alcuna di mollare (tosta la
ragazza!). Amabilmente discorrendo sui traballanti ponti
sospesi tra i magnifici scorci che gli orridi del torrente
offrono, scopro che sono due amici senza molta esperienza
di trail che hanno deciso di provare quest’avventura: beata
spensieratezza che mi fa riandare con nostalgia alla
gioventú, non soltanto quella anagrafica ma anche e
soprattutto quella di ultratrailer, quando fino ad un paio
di anni fa prendevo queste sgambatelle (e le portavo a
termine!) con l’impertinente audacia di un dilettante allo
sbaraglio, mentre ultimamente sono diventato un agguerrito
Vietcong che lotta disperatamente per la sopravvivenza (e
spesso muore!) .... un altro buon motivo per farla finita,
penso malinconicamente.
Alla fine
del bosco, prima di entrare nell’abitato di Hône sulla riva
destra della Dora, raggiungiamo Marcella ed Alessandro; ci
ridistribuiamo in un terzetto di maschi e in una coppia di
donne che, seppur vicini, procedono separatamente mentre
oltrepassiamo il fiume e l’autostrada, attraversiamo Bard ed
arriviamo finalmente alla base vita, ognuno con le sue pene
ma tutti soddisfatti ed orgogliosi di aver raggiunto questo
ideale giro di boa: terminata dopo oltre 150Km e quasi
cinquantasei ore di cammino l’Alta Via numero 2, da
Courmayeur a Donnas, tra poco intraprenderemo il ritorno
sull’Alta Via numero 1 dall’altro lato della Valdaosta ....
ci attendono ancora quasi 200Km di avventura, in chissá
quanto tempo!
Appena
ritirata la borsa, mentre quasi tutti optano per doccia e
massaggio, vado alla ricerca immediata di una branda che
peró non é ahimé disponibile; una vispa volontaria mi
fornisce un materasso ed una coperta e mi invita a cercarmi
uno spazio vitale tra i giacigli della camerata .... ora non
so quanto si possa definire vitale avere la faccia
praticamente sotto i piedi di quello che dorme sul lettino
adiacente, preferiti comunque alla testa dell’altro che pare
un cingiale inferocito da come russa; in ogni caso le prime
due ore di un sonno profondo e ristoratore mi rimettono al
mondo. Pasta, uova e patate con la birra fanno il resto ...
e non voglio esagerare perché so che il prossimo ristoro
sara a Perloz, dove l’ultima volta me ne uscii
sovralimentato e praticamente ubriaco. Mi rimetto in marcia
sul lungo rettilineo verso Pont Saint Martin poco dopo le
ventitré di martedí, con quasi cinque ore di vantaggio sul
tempo massimo che sono conscio diminuiranno drasticamente
dopo questa tappa, a ragione considerata lo spauracchio del
Tor.
Intanto le
prime dure scalinate verso la Madonna della Guardia le
supero pimpante, cosiccome la successiva rampa al culmine
della quale vedo finalmente un centinaio di metri piú in
basso le luci di Perloz, il mitico punto di ristoro che
questo trailer gourmet attende praticamente sin dalla
partenza. Saranno le una di notte e, benché accolto
dall’immancabile doppia schiera di campanacci suonati a
festa, la piazza é ovviamente deserta. Mancano musica, balli
e canti di due anni fa, ma il ristoro paesano é stato
lasciato ben fornito dai solerti cittadini. Praticamente
nemmeno guardo cosa c’é in quello ufficiale
dell’organizzazione e mi dirigo, sotto gli occhi basiti di
due colleghi che se ne stanno invece servendo, verso
l’angolo sinistro del tendone dove in belle ceste di vimini
fanno mostra di sé allettanti focacce al gorgonzola, al
formaggio piccante, ricotta ed affettati locali. Chiesto
educatamente il permesso ai divertiti volontari, faccio
platealmente saltare il tappo ad una bottiglia di prosecco
(non ce ne sono di avviate), avvicino una sedia al tavolo e
comincia la festa ... riesco pure ad accavallare le gambe
senza dolore alcuno, pur di godermi al meglio questo ben di
Dio! Per una recrudescenza di pudica decenza, interrompo
questo banchetto solitario esattamente a metá bottiglia ....
devo aver comunque bevuto meno di due anni fa, visto che
alzandomi non mi gira neppure la testa.
Dopo la
breve discesa per attraversare il torrente Lys sul fiabesco
ponte di Moretta, si ricomincia a salire, prima su asfalto,
poi nel bosco ed infine su ripide scalinate tra i prati
inframmezzati da sparuti gruppetti di case. Senza mai
fermarmi arrivo al ristoro di Sassa, dove cerco di
rincantucciarmi il piú possibile sotto il tendone per
ripararmi dal freddo, mentre faccio riposare i miei
disgraziati piedi. Ho ancora una bella scorta energetica
residua dal ristoro precedente, propendo quindi per bevande
calde che mi riportino in temperatura, in modo da affrontare
al meglio le interminabili lande desolate che mi attendono
...ahi quanto a dir é cosa dura, esta selva selvaggia aspra
e forte, che nel pensier rinova la paura!
Anche il
successivo tratto di salita fino al Col di Portola scorre
via tranquillo; entro cosí nel primo tratto di pietraia
infernale: dove non ci sono i sassi, c’é il fango dovuto
alla pioggia del giorno precedente; in questo caso le scarpe
in goretex, che uso perché le uniche che resistano alla
dirompente azione dei miei alluci scalibrati, mi consentono
di non perder troppo tempo a scansare le pozze e mantenere
al contempo i piedi asciutti. Arrampicatomi finalmente sul
crinale rimango a bocca aperta, paralizzato dall’estasi e
probabilmente esclamando un ohhhh di estatico stupore: al
terzo passaggio, per la prima volta non mi trovo avvolto
dalla nebbia, anzi non si vede neppure una nuvola
all’orizzonte in questa tersa aurora che abbraccia il
Biellese financo alla Lomellina. É troppo per una persona
sola e quindi incito Nick, un vigoroso australiano in
pantaloncini e maglietta che sta arrancando sugli ultimi
scalini di roccia, a raggiungermi al piú presto; quando mi é
accanto anche lui spalanca la bocca e solo dopo alcuni
lunghi secondi é capace di dire “Thanks for sharing this!”.
Procedendo insieme sul crinale fino al rifugio Coda, ci
godiamo tutti i colori del nuovo giorno, dal presago indaco
allo speranzoso rosa fino al confortante giallo dell’astro
nascente.
Se giovedí,
Dio volendo sará gnocchi, il mercoledí é sassi! E giú per le
pendici del Mont Mars, giá assaporando il prossimo ristoro
non ufficiale di Goillas; il capo famiglia, iniziatore della
tradizione e recentemente scomparso, é presente in foto sul
tavolo allestito da moglie e figlia all’esterno della loro
baita con tanti squisiti manicaretti: buona creanza vuole
che mangi e beva alla memoria e contemporaneamente al futuro
di questo altro virtuoso esempio dell’ospitalitá valdostana.
Nel tratto
successivo che conduce al rifugio della Balma, modificato
ripetto all’originale per gli alberi abbattuti dal vento
dello scorso anno, vengo raggiunto da Fausto. É un buon
Cristo il bancario bolognese ma, a dispetto del suo nome,
l’ottimismo non é da annoverare tra le sue doti. Alto e
dinoccolato, con la faccia ancor piú scavata del solito
dalla fatica di ormai quasi tre giorni di gara, quando
questo Lurch degli Addams con il suo tono lento e grave
profetizza che non arriveremo mai in tempo a Niel, ho
pensato a Cassandra come ad un’allegra birichina. Avendo le
mani impegnate dalle racchette, onde evitare ulteriori atti
auto lesionistici, non ho potuto espletare i gesti
apotropaici del caso; abbiamo cosí continuato insieme fino
al rifugio con io che, rassicurando lui, tentavo soprattutto
di convincere me stesso. Ormai spaventato dall’infausto
oracolo, ho deciso di evitare la sosta sonno originariamente
programmata, anche perché, a differenza degli anni scorsi,
qui l’accoglienza é un po’ meno calorosa e a chi chiede se
ci sono letti per stendersi, viene risposto abbastanza
bruscamente che possono farlo sul pavimento nelle stanze
adibite al ristoro, vietando in maniera categorica l’accesso
alle camere del bellissimo rifugio.
Quando
ripartiamo dalla Balma si é aggiunto Luca, un simpatico
ragazzo dallo spiccato accento romanesco. Il terzetto dura
poco, infatti Fausto, sempre piú convinto di non stare
dentro le barriere orarie, decide di corricchiare un tratto
a favore prima della successiva salita al Col di Marmontana,
che ormai in lontananza gli vedo comunque affrontare con un
passo ben piú sostenuto del nostro: altro che cancello
penso, se continua cosí arriva a Courmayeur con un giorno di
anticipo. Lo rivediamo in partenza dal ristoro del Lago
Chiaro, gemma incastonata tra gli aspri picchi rocciosi,
mentre Luca ed io vi giungiamo. A nostra volta resi ansiosi
dal catastrofismo di chi partecipa per la quarta volta al
Tor, riduciamo la sosta al minimo sindacale, anche perché il
sottoscritto, nonostante l’abbondanza del ristoro, rimane
onestamente un po’ deluso dal non trovarvi, a differenza
della precedente partecipazione, la squisita carbonada, una
sorta di spezzatino cotto nel vino. Non voglio certo
imputare la fatica al mancato apporto calorico, ma una tale
delusione gastronomica si ripercuote nella successiva
scalata alla Crena du Ley che, complice anche un clima che
sta ormai virando verso il caldo, ho la sensazione di
affrontare, seppur senza soste, ancor piú lentamente delle
salite precedenti. Comunque con Luca ci rassicuriamo a
vicenda considerando eccessivo l’allarmismo di Fausto;
superata la caratteristica spaccatura nella roccia
imbocchiamo il tratto di discesa molto ripido ed il
successivo pianoro roccioso verso il Colle della Vecchia,
una distesa di massi in cui il sentiero é lasciato alla
libera interpretazione.
Giungo al
ristoro esausto e quando chiedo ai volontari il tempo
stimato per compier i successivi cinque Km e mezzo verso
Niel, la loro risposta, forse indottrinati da Fausto che ci
ha preceduti, é a dir poco terroristica: tra le tre e le
quattro ore! Crollo letteralmente sul piatto di pasta appena
preso mentre Luca, ben piú pimpante, si avvia, non prima di
avermi immortalato mentre dormo steso su un fianco, con il
braccio destro posto a strenua difesa delle penne in bianco:
siamo ormai alla beluina sopravvivenza! Dopo questo
minisonno e una bustina di Oki sottolingua riparto lento e
dolorante, ma miracolo della chimica mi sciolgo nel primo
tratto di discesa su mulattiera lastricata, corricchiando
sul bordo piatto del contrafforte a lato del precipizio. Ben
presto la bella mulattiera si trasforma in un sentiero
piuttosto infame, che peró, ormai di slancio, percorro di
buon passo cosiccome il successivo saliscendi nel bosco
verso Niel, dove incontro molti accompagnatori che vengono a
riscontrare i loro assistiti. Dopo un paio di ore, avendone
ancora tre abbondanti di margine, sono comodamente seduto al
ristoro con un pantagruelico piatto di polenta al sugo ed un
boccale di birra: mi sto rimettendo sulla retta via!
Se il
tratto precedente é stato fortunatamente percorso ben piú
velocemente del previsto, i successivi tredici Km fino
all’agognata base vita saranno peró piú lenti. I quattro Km
di aspra salita verso il col di Lasoney sembrano non finire
mai; l’incedere, seppur con un‘ unica sosta per indossare la
frontale al calare della quarta notte, é sempre piú faticoso
.... in qualche modo arrivo comunque al passo, dove
dall’altro lato ci attende il lungo vallone di Loo dalla
pendenza paradossale per la Valdaosta: poco piú un falso
piano. Nel 2017 lo corsi come un disperato in scia ad
Ermanna; adesso sto quasi per fermarmi, lasciato
praticamente al buio dalle pile scariche della frontale, fin
quando giunge Cristiana seguita a ruota da un altro
concorrente; pur non correndo, il loro passo é sostenuto e
decido quindi di non perdere il treno, accodandomi e
sfruttando la loro luce tra i dolci pascoli. All’alpeggio di
Ober Loo, nonostante la solita giovialitá dei volontari del
ristoro che sparano musica e scampanate di incitamento, sono
piuttosto scoraggiato. Sostituisco le batterie della
frontale e lascio che Cristiana si avvii con l’altro
ragazzo; non ne sono sicuro, ma penso di aver preso anche
l’ennesimo antidolorifico, visto che li raggiungo e sorpasso
all’imbocco dello scosceso sentiero, che attraverso il bosco
conduce al fondovalle e che praticamente percorro tutto di
corsa, nonostante due anni fa avessi imputato ad una simile
condotta il successivo infortunio. Dopo un paio di Km su
asfalto faccio finalmente l’ingresso al palazzetto di
Gressoney: delle cinque ore di margine che avevo a Donnas,
me ne sono rimaste tre, senza considerare la sosta ancora da
quantificare.
A
centotrenta Km e passa dall’arrivo le scope non le voglio
avere intorno e cosí, malgrado sia stanco ed assonnato, mi
fermo per un’ora esatta: giusto il tempo di mangiare
qualcosa, massaggiarmi i piedi e, scelto a caso tra i tanti
un fortunato accompagnatore, farmi spalmare della crema
emolliente sulla schiena, irritata dallo sfregamento dello
zaino. Lungo i Km pianeggianti che costeggiano il torrente
Lys, solo nelle tenebre, faccio fatica a tenere gli occhi
aperti .... sulle rampe in salita che conducono al rifugio
Alpenzu ne approfitto per dormire proprio: il sentiero é
ripido, ma praticamente é una carrozzabile larga e dal fondo
agevole caratterizzato da tratti rettilinei di alcune decine
di metri, che mi consentono di chiudere gli occhi per
diversi secondi mentre cammino lentamente. A volte
riaprendoli spontaneamente in tempo, altre perché le frasche
in faccia mi avvertono che sto uscendo di strada, giungo
comunque al rifugio. L’orologio segna le tre del mattino di
giovedí, orario limite di uscita dalla base vita; dalle
finestre si vedono le luci di Gressoney nel fondo valle:
questo é il poco ossigeno che mi é rimasto, penso ...
Il caffé
doppio ha peró l’effetto sperato; me ne riparto cosí
piuttosto pimpante per dare la scalata al Col Pinter,
fiducioso di recuperare nuovamente del tempo nel successivo
tratto fino a Valtournenche, la tappa piú breve e forse il
piú facile di tutto il Tor. Mentre affronto le prime
pendenze non troppo impegnative tra i pascoli, ripenso con
una certa preoccupazione allo scollinamento di due anni or
sono, quando in discesa ebbi il primo grippaggio del
ginocchio che di lí a breve mi avrebbe costretto al ritiro.
Sicuramente si tratta di infauste coincidenze, che peró ti
fanno apparire come dati di fatto oggettivi le teorie
cabalistiche, malgrado tu professi un razionale pensiero
positivo: il Col Pinter mi porta iella! Le batterie, pur
usate per poche ore, sembrano di nuovo scariche e la luce
della frontale diventa sempre piú fioca; essendo solo come
un cane preferisco andare avanti a tastoni piuttosto che
perdere tempo a cercare ed accendere l’altra torcia o il
cellulare per consentire la loro sostituzione: il risultato
e che mentre impreco contro mia moglie che evidentemente mi
ha comprato delle pile di pessima qualitá (maledetta
economia domestica!), smarrisco il sentiero giusto e dopo un
lungo loop con dei tratti in discesa mi ritrovo dove ero
sicuro di esser giá passato: ormai preda del sonno, non
escludo di aver seguito le bandierine che segnano il
percorso in senso contrario. Recuperata parzialmente la
ragione, con la luce di un concorrente intanto sopraggiunto,
sostituisco le batterie e me ne riparto per la seconda volta
alla scalata del colle.
Poiché un
colpevole ci deve essere ed il sottoscritto é innocente a
priori, mentre arranco in salita continuo ad inveire contro
l’evidente pessima qualitá del materiale fornitomi dalla
consorte, dimentico di come la stessa si fosse immolata la
domenica notte prima che partissi per Ginevra (sono quasi
due settimane che manco da casa!) per ricucirmi con della
lenza la spallina dello zainetto che si era improvvisamente
staccata mentre lo provavo a pieno carico e per rinforzare
per sicurezza pure l’altra. Ma lei non pare essersene
dimenticata e cosí, telepatica affinitá elettiva dopo
diciassette anni di matrimonio, mi trovo ad un certo punto
lo zaino di traverso a metá schiena con la spallina
ciondoloni. Mancano ormai poche centinaia di metri allo
scollinamento e non ho intenzione di fermarmi proprio sulle
rampe piú dure, anche perché con la rabbia che ho in corpo
la salita vola via agevole. Finalmente appollaiato su un
sasso vicino alla piramide che marca i quasi
duemilaottocento metri del passo, mentre lego la spallina
rotta ad un altro laccio dello zaino per una riparazione
tanto grossolana quanto funzionale, enuncio con la bava alla
bocca le mie maledizioni contro la pessima acquirente di
mini-stilo ed ancor piú inetta rammendatrice, arrivando a
condannare senza appelli il ‘68 ed il femminismo tutto,
senza i quali le donne sarebbero ancora in grado di cucire
come si deve!
Dopo questa
nefanda serie di bestemmie ed invettive la pressione
arteriosa si stabilizza e guardando alla riparazione appena
effettuata con la tronfia soddisfazione del maschio che sa
aggiustare le cose, faccio per indossare lo zaino e testarne
la tenuta. Non ci sono parole per descrivere cosa abbia
provato quando, estremamente soddisfatto del risultato ed un
momento prima di rialzarmi, l’altra spallina si é scucita
esattamente allo stesso modo della prima ..... timor panico
dell’incommensurabile sovrannaturale rende solo pallidamente
l’idea. Le gelide folate di vento evidentemente altro non
sono che l’aleggiare dell’uxorio spirito vendicatore cui,
come Abramo con Isacco, sono pronto adesso ad offrire in
olocausto lo zaino, le racchette e qualsiasi altra cosa mi
venga richiesta. Da questo lato non ci sono altri lacci
disponibili e cosí, seguendo il buon consiglio di un
concorrente intanto sopraggiunto, forse l’angelo di Dio, uso
il cordino che diligentemente ho con me per fare una
legatura con alcuni ganci. Ormai rassegnato al peggio,
riparto a capo basso recitando le litanie di contrizione.
Fortunatamente una nuova alba spazza via le tenebre quando
percorro i pascoli e le piste da sci sopra Champoluc, dopo
aver superato l’erto vallone detritico in quota con le
ginocchia questa volta integre. Malgrado lo zaino un po’
sghembo sulla schiena tipo tracolla, anche l’ultimo tratto
di sentiero che scende attraverso il bosco fino al paese
scorre via liscio ed é con immenso sollievo che mi getto
finalmente in un letto del ristoro avendo nuovamente sette
ore di margine. Dopo un’ora e mezzo di profondissimo sonno
rinasco a nuova vita e mangio con rinnovato appetito, mentre
racconto a Graziano ed Ermanna le disavventure della notte.
Percorro i circa quattro Km di fondovalle lungo il torrente
Evançon come un leopardiano donzelletto, ricambiando con
piacere i calorosi saluti ed incoraggiamenti delle persone
che incontro o che addirittura appositamente rallentano con
la macchina .... tutto questo inopinato affetto é carburante
di primissima qualitá per le mie gambe!
La salita
verso il rifugio Grand Tournalin é piuttosto facile anche
se, con ancora indosso i fuseuax lunghi, comincio a sudare
per il caldo che sembra aver decisamente sconfitto
l’incursione polare dei giorni precedenti. Decido comunque
di non toglierli, quasi per scaramanzia, perché mi tengano
calde e preservino da infortuni le giunture, proprio adesso
che sto per raggiungere il punto dove mi arresi
definitivamente due anni fa. Lasciato il ristoro mi ritrovo
ancora con Cristiana ed il folletto fotografo sul sentiero
che in diagonale a mezza costa ci conduce al Col di Nana,
per poi attraversare una conca in quota fino al definitivo
scollinamento dove, ad inizio discesa, mi sembra di
riconoscere il masso su cui rimasi bloccato per ore prima di
decidermi a chiamare il soccorso. Mi carezzo istintivamente
entrambe le ginocchia, come a raccomandarmi che non facciano
ancora brutti scherzi; magari é merito del dolore ai piedi
che copre ogni altro acciacco, ma fortunatmente sembra che
muscoli, tendini e legamenti si siano docilmente rassegnati
all’inumana mole di lavoro loro richiesta.
Alle cinque
di giovedí pomeriggio entro di ottimo umore nella base vita
di Cretaz, frazione del comune diffuso di Valtournenche: una
sensazione ben diversa tendere il polso verso il
cronometrista perché ti registri il passaggio piuttosto che
per tagliare via il chip, crudele onta del ritirato. Ancor
meglio potersi nuovamente stendere in una branda e togliere
i pantaloni lunghi che, indossati da oltre quattro giorni,
ripongo dentro una busta di nylon nel borsone e non getto
via, al solo scopo di evitare una denuncia per illecito
smaltimento di rifiuto speciale. Effluvi olfattivi a parte,
il mio corpo tutto sente il bisogno di una doccia:
considerando le sette ore di margine sto per cedere alla
tentazione. Osservando peró i miei poveri piedi e le
fasciature alle dita ritorte a martello che, fatte con
estrema cura la sera del sabato, sono ancora perfettamente
integre, non ho l’ardire di scoprire cosa nascondano e
propendo per un sonno ristoratore di almeno due ore ..... ne
faró ancora uno in questo Tor, ma ahimé troppo tardi per non
vedere cose che voi umani non potete neppure immaginare.
Mentre
faccio cena l’impareggiabile Graziano, dopo che a Champoluc
era stato fatto partecipe delle mie disavventure sul Pinter,
mi rifornisce di alcune pile che, non avendo trovato un
negozio aperto, una signora cui aveva chiesto informazioni a
riguardo gli ha regalato. Con ancora tre ore di margine e
la compagnia di un gentile volontario che mi scorta per le
strade del paese fino all’imbocco del sentiero, riparto
fiducioso per la lunga e durissima tappa che mi attende,
perdipiú mai effettuata in questo senso ...... tant’é amara
che poco é piú morte, ma per trattar del ben ch’i’ vi
trovai, diró de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.
Solo
soletto risalgo il pendio della valle lungo il sentiero ben
illuminato dalle batterie scroccate, ripensando quando
nell’ormai lontano 2016, percorrendolo in senso inverso in
occasione del 4K, vi trovai steso a terra dolorante l’allora
padre padrone della Valdaosta e ideatore stesso
dell’anti-tor Augusto Rollandin, forse proprio all’inizio
della sua parabola discendente, mai perdonato da tanti
valdostani per l’attentato alla loro corsa .... tutto passa,
il Tor resta! Assorbito dai miei pensieri mi ritrovo sotto
l’imponente contrafforte della diga di Cignana e di lí a
breve a sorbire del caffé caldo all’interno del rifugio
Barmasse. Sempre da solo percorro il facile tratto
successivo, prima uno sterrato carrozzabile alternato ad un
facile sentiero in leggera discesa, poi l’abbordabile salita
alla Finestra d’Ersa, un saluto al Cervino che si staglia
maestoso nella notte, quindi la discesa a mezza costa e una
breve salita al ristoro di Vareton, dove mi riparo per una
fugace sosta nella scarna struttura usata normalmente dai
cacciatori, che la corrusca fiamma ardente nel camino rende
peró oltremodo accogliente.
Con un
magnifico chiaro di luna che retroillumina la corona di cime
tutto intorno, percorro un lungo arco piú in sali che scendi
sulle pendici terminali dell’ampio vallone di Tzan, fino al
passo che da esso prende il nome. Mentre tento di ricordare
come sia la discesa dall’altro lato, un “ Oh ca..o!”
esclamato da chi, precedendomi di una cinquantina di metri,
vi si é appena affacciato, mi fa immediatamente tornare in
mente la durissima scalata fatta nel 2016 in cordata con i
quattro amici della Valsesia, tutti tirati dal conturbante
lato B di un’avvenente spagnola. Il ripidissimo ghiaione che
precipita nel vallone di Saint Barthélemy é mal sopportato
da piedi e ginocchia alla quinta notte di fatica
consecutiva. Tutto sommato mi va pure bene, visto i tre o
quattro disgraziati che raggiungo e che seppur ormai nel
fondovalle pianeggiante, riescono a malapena a trascinarsi
dietro ..... uno di loro soprattutto, un asiatico con cui la
barriera linguistica sembra dividerci ancor piú mentre mi
allontano, chiede disperato dove sia il prossimo punto di
ristoro.
Raggiunto
finalmente il rifugio Magiá, avverto i volontari delle
persone in seria difficoltá che ho superato; mi ringraziano,
ma dicono che non spetta a loro muoversi per recuperarli,
almeno fino a che non viene attivato ufficialmente il
soccorso. Ognun per sé e Dio per tutti, alla faccia della
solidarietá tanto sbandierata nei trail. Riparto dopo una
buona mezz’ora di riposo senza che i dispersi siano ancora
arrivati al rifugio ..... io stesso avverto di essere su un
pericoloso crinale, ad un passo dal baratro.
Fortunatamente le ore di riposo di Champoluc e Valtournenche
mi preservano ancora lucido nelle successive ore notturne,
durante la salita verso l’oratorio di Cuney, il santuario
mariano piú alto di Europa, con i suoi duemilaseicento ed
oltre metri sul livello del mare. In questo piccolo
altipiano a sua volta elevato su dei pianori piú bassi,
cinto da picchi rocciosi a volte aspri a volte piú morbidi
che si perdono a vista d’occhio oltre l’orizzonte, mi godo
un’alba fiabesca: la cartolina forse piú bella di tutto il
mio Tor. Non posso fare a meno di celebrare l’estatico
misticismo del momento con un tocco tipico del mio essere;
non godendo appieno della comunione tra la divinitá del
cielo e l’umanitá della terra sorseggiando solo del caffé
caldo, lo accompagno con un paio di gotti di squisito genepí
artigianale attinto da una bottiglia lasciata all’uopo
nell’area ristoro, sentendomi a mia volta sospeso tra la
condizione di fedele pellegrino e alcolista mattiniero.
Con la luce
del giorno e fors’anche con il genepí, il mio spirito si
risveglia e proseguo di buon umore, sebbene ormai ad una
lentezza imbarazzante, in un dolce saliscendi in quota fino
al bivacco Clermont, da cui si vede a poche centinaia di
metri il Col Vessona, ingresso laterale a noi riservato
della Valpelline. I volontari stanno sbaraccando le
strutture del ristoro, segno che ormai la coda della corsa
con le scope non deve esser troppo lontana, ma comunque non
mancano di saltarmi in padella un buon piatto di pasta al
pomodoro con dei tocchetti di speck, simil matriciana. Dopo
lo scollinamento mi attendono i ripidi tornanti che solcano
l‘imponente ghiaione fino a raggiunger il torrente, che
costeggeró nel mezzo al nulla fino alla sua confluenza nel
Buthier per i prossimi dieci Km, praticamente ad Oyace.
La
dolcissima pendenza a favore sarebbe l’ideale per una blanda
corsetta, ma la condizione delle mie spossate membra non lo
é; propendo quindi piú per la scanzonata andatura di un
pascoliano Valentino con i piedini rovinati, non dal rovo
peró, bensí dall’insano peregrinare verso l’irraggiungibile
méta dell’umana soddisfazione. Intento a scegliere i
mirtilli piú maturi tra i cespugli lungo il sentiero, mi
supera Giuseppe trafelato (la sua amica Chiara é stata
costretta ad arrendersi) intimandomi di darmi una mossa se
non voglio finire oltre il tempo massimo. Mentre rifaccio
tutti i calcoli, che mi confermano la mia buona tabella di
marcia, accelero comunque il passo in maniera decisa:
all’improvviso ho il chiaro presagio che la battaglia finale
debba ancora combattersi, fidandomi piú del giovanile
impulso che della navigata esperienza .... d’altronde che
senso ha affidarsi alla razionalitá, quando sono cinque
giorni che cammini per i monti senza praticamente dormire?
Arrivo al
ristoro a mezzogiorno con tre ore e mezzo di vantaggio sul
tempo limite. Originariamente avevo pensato anche di farmi
un sonnellino, ma sono sempre piú ansioso di arrivare
all’ultima base vita di Ollomont, a tredici Km di distanza
.... avessi dormito forse non avrei avuto i successivi
mirabili accadimenti da narrare e tutto sarebbe stato piú
umano o magari chissá, non sarei mai ripartito oppure
arrivato fuori il tempo massimo: mancando il senno neppure
con il poi si puó far la storia. Con Fausto ci concediamo
l’ultimo desiderio del condannato, mangiando degli spicchi
di frutta dopo averli copiosamente ricoperti con la
cioccolata ottenuta dai volontari fondendo i quadretti
avanzati; dopo questo inusitato momento di spensierata
allegria, forse ispirato dalle figure disegnate dal
cioccolato o non so da qual altra diavoleria, inesorabile
giunge il vaticinio e l’implacabile aruspico sentenzia che
non solo la salita che ci aspetta é molto dura, ma sará pure
da affrontare tutta sotto il sole ormai cocente.
Intorno
alle una del pomeriggio ci incamminiamo insieme io, Fausto e
Cristiana, prosaica versione di Fede, Speranza e Caritá.
L’ultimo barlume di coscienza mi dice che una media di tre
Km orari mi consentirá di mantenere piú o meno invariato il
margine; saggiamente decido quindi di avviarmi lento sin
sulle prime rampe del viottolo che sale tra gli assolati
pascoli in questo infuocato pomeriggio di metá Settembre,
lasciando andare gli altri due, con Fausto che a sua volta
distanzia Cristiana .... poi il buio di un’eclissi totale
della ragione! Non ho la piú pallida idea di cosa abbia
fatto, detto o pensato nei successivi Km. Ho soltanto
sprazzi di memoria in cui mi vedo imprecare contro il
cancello orario che ormai sono sicuro di non poter piú
rispettare, mentre scalo il Col Brison pestando sulle
racchette come un indemoniato e sbuffando come una
locomotiva al pari di Fantozzi alla Coppa Cobram, con bomba
a base di metredina, simpamina, aspirina, franceschina,
cocaina e peperoncino di cayenna! Seduto su un masso
all’ombra supero Fausto che mi guarda passare attonito ....
poche decine di metri e senza forze, né fisiche né tantomeno
psichiche, mi butto a terra in posizione fetale. Sento
lontane, al di fuori del mio essere, voci premurose che
chiedono come mi senta, ma non ho intenzione alcuna né di
aprire gli occhi né di abbandonare questa posizione di
estrema difesa, fin quando un angelo dalla voce femminile,
forse tornato appositamente indietro o forse solo sognato,
mi dice che dopo la curva a meno di cento metri c’é un
ristoro ... apro gli occhi e non vedo la faccia, ma solo le
morbide puppe di questa Santa Veronica china davanti a me:
chi sia e financo se realmente sia, é destinato a rimanere
uno dei misteri della mia passione. Evidentemente riesco ad
alzarmi e raggiungere il rifornimento, poiché la successiva
immagine che mi viene alla mente sono Fausto, Cristiana e
Benedetta ivi presenti, una bottiglia di acqua su un tavolo
che artiglio bramoso, salvo poi crollare nuovamente a terra
con gli occhi chiusi ma cosciente dei rumori, in un
parossismo scenico di cui provo ancora tremenda vergogna.
Come un
bambino che ha perso i genitori ed é preda del panico piú
totale, ho bisogno che Cristiana mi tranquillizzi e mi
spieghi come ancora ci sia tempo sufficiente a raggiungere
il passo e scendere dall’altra parte. Mi incammino
docilmente dietro lei e Benedetta, continuando a bofonchiare
scuse per il vergognoso spettacolo appena dato, che in tale
contesto sembra peró esser apparso loro normale e non danno
comunque evidenza di averci badato piú di tanto, forse
semplicemente per educazione.
Il primo
tratto di discesa dopo lo scollinamento é molto ripido e
Cristiana, invitandomi a proseguire, decide di indossare i
ramponi per avere una presa maggiore sul terreno. Redentore
della mia volontá cosciente, dichiaro solenne e sincero che
a questo punto non mi importa alcunché di terminare la gara,
ma sento soltanto il bisogno di riaffermare la dignitá cosí
ignominiosamente perduta poc’anzi con una meritoria opera di
espiazione. Mentre Benedetta si avvia del suo passo, rimango
quindi lo sgangherato paladino della mia salvatrice che,
come sul Col Loson quattro giorni prima, si esibisce in
tragicomiche posture nell’affrontare questi infidi passaggi.
Tramite le sue conoscenze, si informa per telefono di cosa
ci attenda da qui alla base vita ed una volta raggiunto come
previsto un ben piú agevole sentiero, che si trasforma
addirittura in strada poderale dopo l’alpeggio di Berrio,
eccola di nuovo in versione coniglietta sprint:
corricchieremo tutti i successivi Km di discesa, gli ultimi
dei quali in compagnia di un suo amico che é venuto a
riscontrarla mentre il marito sta approntando medicinali (in
caso anche per il sottoscritto) e quant’altro in zona
ristoro ..... per la prossima notte mi aspetto pure il
settimo cavalleria!
Entriamo in
base vita che sono le diciotto passate, a meno di un’ora
dalla chiusura del cancello in ingresso e a poco piú di due
da quello in uscita. Spendo il tempo per aggiustarmi al
meglio le fasciature ai piedi e stare steso su una branda
nella tenso-struttura, raggomitalato in una coperta per
ripararmi dagli spifferi della notte incipiente. Prima che
riesca ad addormentarmi, i volontari giá cominciano ad
allertare coloro che hanno intenzione e forza di continuare.
Le scope intorno non le voglio: sono un po’ come i condor
che volteggiano su chi é prossimo al trapasso. Dopo aver
consumato l’ultima cena, quaranta minuti prima dell’ora X,
sono di nuovo in cammino: questa volta non solo come mi ero
abituato le ultime notti, ma tra una moltitudine di reduci
claudicanti e storpi in lenta ritirata.
Si comincia
subito a salire verso il Colle Champillon .... non ho molto
da raccontare, perché mi ricordo poco e nulla; mi pare di
aver provato a stare incollato alla coniglietta sprint con
il folletto fotografo che saltellava intorno a suon di
scatti e “Vai Sorcio” fino al rifugio Letey. Una foto
inviatami da Cristiana, scattata all’interno mentre sorbisco
un po’ di pasta in brodo, spiega la situazione meglio di
qualsiasi parola: faccia tumefatta dalla stanchezza e bocca
semiaperta nella tipica espressione del demente che sa solo
ridere di fronte agli stimoli esterni, divenuti per lui
incomprensibili.
Volli, e
volli sempre, e fortissimamente volli ..... ma invece di
farmi legare alla sedia, mi ritrovo a guardare la piramide
che marca i duemilasettecento metri del passo. Sará l’ultimo
punto fisso per i successivi cinque Km di discesa, di cui
peró ricordo paradossalmente quasi tutto ... e sarebbe stato
meglio di no! Sogno o son desto? Questo l’amletico arcano
che non riesco a dipanare: un momento corro euforico verso
il traguardo che ormai sento a portata di mano, l’attimo
successivo mi getto a terra tra le rocce disperato e voglio
finalmente risvegliarmi da questa illusione, a costo di
vedere le scope intorno a me o addirittura rendermi conto di
non esser mai ripartito dalla base vita. Guardo sempre piú
spesso l’orologio: vedere il tempo che scorre é l’estremo
appiglio alla realtá .... ma potrei benissimo sognare anche
quello. Ci si mette pure la mia presunta perizia geografica
a confondermi: vedo le luci di due paesi che non ci
dovrebbero essere sotto lo Champillon e che, facendomi
propendere per il mondo onirico, mi gettano ancor piú nello
sconforto ....ho poi verificato che Etroubles e Saint Oyen
devono esser lí da diversi secoli ormai. Chiedo alle persone
se siamo sulla discesa del colle o in un sogno ... le stesse
che mentre mi passano accanto sdraiato a terra, ormai
scocciate di chiedermi se stia bene, rassicurano gli altri
che vorrebbero farlo rivelando loro come si tratti solo di
un poveraccio catturato dal vortice dell’ossessione che,
senza soluzione di continuitá, prima corre e poi si
accascia. Tento di spiegare la miserrima condizione in cui
verso a coloro con i quali ho piú confidenza, come la
vecchia conoscenza Loris Zubelli o il buon Fausto, ma dubito
di esser stato sufficientemente chiaro .... d’altronde quale
certezza ho che loro stessi non facciano parte della mia
immaginazione?
Arrivo cosí
a Ponteille Desot dove sul braciere all’esterno della
casupola, esattamente come tre anni fa al 4K, ci sono delle
costoline ad arrostire; il buon senso della follia lo
considera come una prova provata del fatto che stia vivendo
un’illusione. Cosí, ormai pacatamente rassegnato, mi rivolgo
in questi precisi termini ad un volontario del ristoro: “Non
so se sono sveglio o sto sognando. In ogni caso ricordo che
dentro la casa, dopo la cucina, c’é una stanza con due letti
dove dormii anche tre anni fa. Se fossimo davvero a
Ponteille Desot, svegliami per favore un po’ prima che
arrivino qui le scope”. Vengo cosí accompagnato ad un
soffice letto dal buon uomo, piú esterrefatto del ghisa con
Totó e Peppino a Milano (per andare dove dobbiamo andare,
per dove dobbiamo andare?).
“Tra poco
le scope saranno qui!” mi sveglia definitivamente da questo
incubo. Non so quanto abbia dormito, ma é come se lo avessi
fatto per una notte intera. Sono di nuovo in me; prova ne é
che, prima di andarmene, chiedo cosa ne sia stato delle
costoline che erano sulla brace: purtroppo sono finite, ma
le fette di polenta con la fontina che vi si fonde sopra
rappresentano un’ottima alternativa.
Felice e
beato, con la consapevole spensieratezza del sopravvissuto,
alterno camminata veloce e corsetta nel lungo agevole
falsopiano, costeggiando le bassi pendici della Valle del
Gran San Bernardo attraverso un comodo viottolo erboso nel
bosco. Supero diverse persone, molte delle quali in preda a
crisi di sonno che ben comprendo; devo addirittura
convincere uno che mi sta venendo incontro, probabilmente
appena svegliato da un riposino e disorientato, ad invertire
la marcia. Sono sicuro di riuscire a scavare un salvifico
solco tra me e le scope fin quando il destino mi chiama a
continuare la mia opera di espiazione. Mentre la sto
superando riconosco e saluto Ermanna, che mi dá una voce di
rimando in cui avverto immediatamente qualcosa di strano.
Decido di stare un po’ con lei e capisco che é piú meno
nello stato di demenza cosciente in cui versavo io stesso
poc’anzi. Non riuscendo a camminare dritta si attacca al mio
zaino e cosí comincia l’esilarante rientro a casa di due
amici dopo l’ubriacatura: ogni tanto si ferma a salutare
delle persone che vede soltanto lei e quando le spiego che
non c’é nessuno giú risate .... perlomeno ha la sbronza
allegra e non piangolina! Dopo aver smentito la presenza di
innumerevoli persone, animali e cose decido di stare al
gioco e cosí saluto anch’io i personaggi immaginari che
incontra ... quando sospettosa mi chiede poi se ci fossero
davvero e io non posso fare a meno di ridere svelando la
burla, siamo vicendevolmente vittime di un’allegria
contagiosa. Ad un certo punto l’appiglio dello zaino non é
piú sufficiente a farla stare in piedi e cosí la prendo
sottobraccio, rendendo ancor piú comico il nostro incedere.
Il problema
é che il tempo passa inesorabile e di strada ne facciamo
poca; quando penso di essere abbastanza vicino a Saint Rhemy
le dico di chiamare Graziano per venirci incontro. Passa
un’altra buona mezz’ora di psichedelici incontri, Graziano
non si vede e nuova telefonata: é sorprendente come le
mogli, anche nei momenti in cui lottano per la sopravvivenza
e dovrebbero supplicare il loro aiuto, sappiano trovare la
sarcastica luciditá per rimproverare i mariti della
negligente inefficienza. Appena rialzatici dopo esser caduti
entrambi per non esser riuscito a sostenerla, presa a quel
punto sottobraccio anche da un altro signore che era venuto
a riscontrare suo figlio, ecco finalmente arrivare trafelato
Graziano, cui come due carabinieri al giudice consegnamo
l’arrestata per ubriachezza molesta .... il magistrato deve
aver fatto un buon lavoro, visto che alla fine Ermanna
giungerá a Courmayeur prima del sottoscritto.
Nell’immediato, giá superati i trecento Km di gara, ho peró
l’occasione di sfoderare la miglior prestazione sul miglio
di tutto il mio Tor, percorrendo in meno di dieci minuti la
suddetta distanza che, attraversata la statale, mi divide
dal ristoro di Bosses. Alle cinque del mattino di sabato, ho
quasi cinque ore per giungere in tempo all’ultimo cancello
orario posto sul percorso all’alpeggio di Merdeux appena
sotto il rifugio Frassati, prossimo punto di rifornimento
dove arrivo prima delle nove, dopo aver assistito alla sesta
ed ultima alba della corsa in compagnia di Fausto, Cristiana
e Marco il fotografo. Nel rifugio, con ormai un buon margine
per giungere all’arrivo entro il tempo massimo, c’é lo
svacco piú totale, finché Lisa Borzani, plurivincitrice del
Tor e qui in veste di volontaria, ci intima in maniera
decisa di levarci da tre passi per lasciare il posto ai
partecipanti alla 30Km - Passage au Malatrá, che stanno
adesso partendo da Saint Rhemy. In particolar modo
suggerisce di usare me come treno (e questo la dice lunga
sulle condizioni in cui versano le ferrovie italiane!) alla
sua amica Benedetta, la testimone della mia sventurata
sceneggiata sul Brison del giorno precedente.
Dopo poche
centinaia di metri mi rendo conto che la sua andatura é peró
lentissima: probabilmente ha il tibiale infiammato e pone
estrema cura nel poggiare ad ogni passo tutto il piede sul
terreno, senza alzare mai soltanto il tallone. Reduce dalle
ore notturne con Ermanna, sento di aver espiato a
sufficienza. Vergognandomi non poco, anche se ormai non ho
reputazione alcuna da difendere, le faccio capire che giunto
a questo punto non voglio correre il rischio di arrivare
fuori tempo massimo ...altrimenti, come un burlone ha
suggerito tempo fa sul forum di Spirito Trail, il cordino
rimastomi dopo la riparazione dello zaino verrá impiegato
per fare un cappio da appendere al primo albero!
Lasciata
Benedetta, che sará comunque finisher, intraprendo la
scalata finale al mitico Col di Malatrá, preso letteralmente
d’assalto dai camminatori del sabato e da coloro che
vogliono assistere al passaggio della baby sorellina del Tor
appena partita. Dopo aver superato l’ultimo ripidissimo
tratto con l’aiuto delle corde fisse, il sogno di ogni
gigante é godersi la vista del Monte Bianco che finalmente
appare attraverso la stretta spaccatura nella roccia a quasi
tremila metri di quota. Sia per il fisiologico bisogno di
rifiatare, sia per la ferrea volontá di immortalare questo
momento ad imperitura memoria, non prendo minimamente in
considerazione il volontario che si sgola perché nessuno si
fermi nell’angusto passaggio intralciando la circolazione,
anzi io stesso intimo a coloro che provengono da entrambi i
versanti di fermarsi per permettermi di essere fotografato
con il mio cellulare, da solo e senza intrusi.
Il declivio
sull’altro versante é piú dolce. Riesco a percorrerlo prima
che arrivino i primi concorrenti del trail corto, di cui mi
godo tutta l’incredibile discesa comodamente disteso al
ristoro allestito sul fondo del vallone: il tratto percorso
da me in quasi venti minuti viene completato dal primo in
circa tre; dopo un po’ arrivano il secondo ed il terzo con
quest’ultimo che taglia il sentiero balzando direttamente di
roccia in roccia come uno stambecco, in maniera non
regolamentare penso: quando sono piú vicini capisco che si
tratta di un amico dell’altro che gli sta facendo un filmato
con il cellulare. Preferisco non soffermarmi oltre
sull’impietoso confronto e comincio a risalire la breve e
non troppo ripida pietraia che conduce al Passo Entre Deus
Sauts, con cui lascio il vallone di Malatrá ed entro in
quello dell’Arminaz, da percorrere in discesa fino
all’imbocco della balconata sospesa sulla Val Ferret. In
questi pochi Km che mi separano dall’ultimo rifornimento al
rifugio Bertone ammiro l’imponente bellezza della parete
meridionale del Bianco e dei suoi ghiacciai, compreso quello
di Planpincieux salito agli onori della cronaca per la
velocitá del suo movimento a valle, in effetti ben piú
sostenuta della mia.
Al rifugio
Bertone soltanto sei Km di discesa mi separano dalla fine
... la fine vera, quella che non mi sento ancora pronto a
raggiungere e rimando ancora per un po’. Prima sveglio,
appisolato poi, ripercorro sognando gli ultimi sette anni di
insane avventure al cospetto di sua maestá il Bianco ....
chissá se anche il buon Manzoni non riusciva piú a
raggiungere la cima del Resegone per colpa dei suoi alluci
valghi, quando scrisse l’addio ai monti nei Promessi Sposi. |